Tracy Chevalier, il filo della vita nel ricamo di un cuscino

Luigi Oliveto

13/02/2020

Per non chiamarle zitelle veniva usata l’espressione (forse ancora peggiore) di ‘donne in eccedenza’. Accadeva in Inghilterra negli anni Trenta, quando la prima guerra mondiale aveva decimato una parte consistente della popolazione maschile, e così, almeno due milioni di donne, risultavano in esubero rispetto al numero di uomini da poter sposare. “La ricamatrice di Winchester”, ultimo romanzo di Tracy Chevalier, racconta la storia di una di queste donne ‘in eccedenza’. Siamo nel 1932 a Winchester, Violet Speedwell ha trentotto anni e ha perduto il fidanzato in guerra. Per una società fondata sul matrimonio, è diventata un soggetto ai margini, se non addirittura una minaccia. Difficile, per quelle come lei, vivere una vita che non fosse alle complete dipendenze dei genitori; arduo trovare un lavoro di soddisfazione, ritagliarsi un ruolo sociale. Violet, a prezzo di sacrifici, ci riesce. Si separa da una madre asfissiante trasferendosi da Southampton a Winchester, si impiega come dattilografa in una compagnia di assicurazioni e riesce ad accedere alla cerchia esclusiva delle ricamatrici della cattedrale. Una corporazione che proseguiva l’antica tradizione di ricamare cuscini per le panche del massimo tempio cittadino, vere opere d’arte destinate a durare nel tempo. Potrà sembrare strano, ma un’attività così pia e all’insegna della morigeratezza, sarà per Violet occasione di emancipazione contro pregiudizi e ipocrisie: diviene amica di due donne lesbiche, trascina il campanaro in una storia d’amore adulterino, talvolta frequenta uomini conosciuti al bar. Violet, dunque, impara l’arte del ricamo, ma anche il verso per ritracciare i fili della propria vita cambiando la trama che il destino sembrava avere già disegnato. Con questo romanzo, l’autrice de “La ragazza con l’orecchino di perla” racconta una nuova storia di emancipazione femminile (in tal caso a noi più vicina nel tempo) e dove gli uomini restano molto sullo sfondo. Violet è donna ironica, tenace, sfrontata, anche se il cuore prende a batterle forte ogni qualvolta agisca in opposizione a pregiudizi e ipocrisie. Del resto, proprio realizzando quei cuscini artistici che sarebbero restati oltre la sua esistenza, si è fatta consapevole di una verità che il suo insegnante di latino amava spesso ripetere: “ars longa, vita brevis”, l’arte ci sopravvive, ma la vita è tremendamente breve.
 
***
Ogni volta che entrava sotto la Grande Finestra d’Occidente, e si avviava lungo la navata su cui incombeva il meraviglioso soffitto a volta, Violet sentiva il respiro dei secoli e veniva presa dalla commozione. Aveva visitato altri luoghi destinati al nutrimento dello spirito, ma solo lì si sentiva davvero edificata. Non dalle funzioni che, a eccezione del vespro, le apparivano rigide e prolisse. Era la cattedrale stessa a emozionarla, il pensiero delle migliaia di persone che vi si erano recate nel corso dei secoli per meditare sulle grandi questioni della vita e della morte, lasciando fuori le cure della vita quotidiana.
E la amava anche per ragioni più estetiche, le vetrate colorate, gli archi eleganti e gli intagli, le antiche mattonelle, i suggestivi sepolcri di re e vescovi, gli scudi dipinti che coprivano gli incroci delle nervature di pietra della volta: quanta fatica dovevano essere costate quelle cose ai loro creatori di ogni tempo!
Come la maggior parte delle funzioni minori, il vespro veniva celebrato nel coro. I giovanissimi coristi, con le facce fresche di sapone e gli sguardi vivaci, sedevano da una parte, i fedeli dall’altra, oppure nel presbiterio. Il vespro poteva apparire frivolo in confronto alla messa della domenica mattina, ma Violet preferiva quella musica più delicata al rimbombo dell’organo, quel semplice sermone all’intimidatoria predica domenicale. Non pregava, le preghiere erano morte, per lei, con George e Laurence. Ma, seduta nel coro, si perdeva a osservare gli archi di rovere con gli intagli di foglie, fiori e animali e la faccia dell’Uomo Verde, i baffi che si mutavano in rami folti. Con la coda dell’occhio percepiva la vastità della navata, ma attorniata dalle voci eteree dei bambini si sentiva al riparo da quel vuoto smisurato, che a volte minacciava di sopraffarla. E certe sere piangeva, sommessamente, per non farsi notare.
Una domenica pomeriggio, qualche settimana dopo la funzione dei cuscini ricamati, andò a sedersi nel presbiterio durante la predica. Qualcuno aveva lasciato un cuscino da preghiera sulla sedia e Violet se lo mise sulle ginocchia guardandolo con attenzione. Di forma rettangolare, aveva al centro un cerchio color senape, una specie di medaglione, circondato da una campitura azzurra screziata. Dentro il medaglione era raffigurato un fascio di fronde con ghiande tra un fogliame verdeazzurro. Le ghiande con i cappelli quadrettati tornavano anche ai quattro angoli del cuscino. I colori accesi e i disegni vivaci parevano poco adatti a una chiesa, e a Violet fecero venire in mente gli sfondi degli arazzi medievali, gli intricati millefleur composti da fiori e foglie avviluppati.
Mentre lo posava sul pavimento, Violet ne vide altri con decorazioni simili, cerchi con fiori o nodi su campo azzurro. Ce n’erano anche di più normali, di feltro, con le consuete losanghe rosse e nere, ma erano quelli ricamati a rendere meno tetro il presbiterio, dandogli un tocco di colore e facendolo diventare se possibile ancora più prezioso.
Al termine della funzione, Violet raccolse di nuovo il cuscino e sorrise passando il dito su quei ricami vividi eppure delicati: com’era possibile non distrarsi in una cattedrale così colma di bellezza, fra le vetrate, gli intagli, le sculture in pietra, le soavi voci bianche e, ora, anche i cuscini ricamati?
Sentì una presenza accanto a sé e sollevò lo sguardo: una donna, suppergiù della sua età, si era avvicinata in silenzio e stava fissando il cuscino che Violet aveva in mano. Indossava un cappotto verde foresta con la mantellina e una doppia fila di bottoni sul davanti, che si abbinava perfettamente al cappellino di feltro verde scuro, le penne che svettavano dalla banda nera. Sebbene vestisse alla moda, non aveva la disinvoltura delle donne moderne, sembrava appartenere a un’altra epoca. Aveva i capelli lisci, e gli occhi grigi parevano fluttuare sul suo viso.
«Scusate, vi dispiace se…» Allungò la mano e rivoltò il cuscino, rivelando la tela blu della parte inferiore. «Ci sono affezionata, perché l’ho fatto io, vedete». Indicò il bordo e Violet notò la sigla: DJ 1932.
«E quanto ci è voluto a ricamarlo?» domandò Violet, e non solo per cortesia, alla donna che continuava a fissare la propria creazione.
«Due mesi. Ho dovuto scucirlo qua e là un paio di volte. I cuscini devono essere fatti a regola d’arte per durare nei secoli». La donna fece una pausa e aggiunse: «Ars longa, vita brevis».
«L’arte è lunga, la vita breve» disse Violet. Era una frase che il suo professore di latino amava ripetere.
«Proprio così».
A Violet pareva impossibile che quel cuscino potesse durare per centinaia d’anni. La Grande Guerra le aveva insegnato che le cose erano effimere, anche quelle massicce come una basilica di pietra, figurarsi un cuscino! Non più di venticinque anni prima, il palombaro William Walker aveva lavorato per un lustro, puntellando le fondamenta della Cattedrale di Winchester con migliaia di sacchi di cemento per evitare che crollasse. Niente durava in eterno.
I suoi costruttori non potevano immaginare che, nove secoli dopo, una donna come lei sarebbe passata sotto i loro archi, accanto ai loro pilastri, sopra le loro mattonelle, nella luce delle loro vetrate… Una donna del 1932 che viveva e pregava in un modo totalmente diverso. Di sicuro una come me non l’avevano prevista, pensò Violet Speedwell.
DJ prese il cuscino e lo posò su una sedia. Fece per allontanarsi, ma Violet la fermò. «Voi appartenete all’associazione delle ricamatrici?»
«Sì».
«Vorrei unirmi a voi, pensate che sia possibile?»
«Sulla bacheca nella veranda c’è l’avviso della prossima riunione» disse DJ, guardandola negli occhi, poi si avviò verso l’uscita insieme al resto dei fedeli.
Violet non si prese la briga di cercare l’avviso, anzi era convinta di essersi tolta dalla mente i cuscini. Ma parecchi giorni dopo, mentre era a passeggio da quelle parti, non poté fare a meno di dare un’occhiata alla bacheca e vide l’annuncio della riunione delle ricamatrici, scritto in un corsivo nitido che le ricordò quello di sua madre. Prese nota del numero della signora Humphrey Biggins e la sera stessa le telefonò dall’apparecchio della padrona di casa.
«Compton 220!» rispose una voce dispotica. Violet capì immediatamente che non era una figlia o la domestica: quella doveva essere la signora Biggins in persona. La voce all’altro capo del filo assomigliava così tanto a quella di sua madre, che sulle prime non riuscì a spiccicare parola e la signora Biggins ripeté: «Compton 220», aggiungendo in tono irritato: «Insomma, chi parla? Non mi piace questo silenzio, qualificatevi!»
«Vi chiedo scusa… Devo aver sbagliato numero» farfugliò Violet, anche se sapeva che non era così. «Io… Chiamavo per i cuscini della cattedrale».
«Ma che maniere, signorina! Prima di tutto dovete pronunciare chiaramente il vostro nome, poi dire con chi volete parlare e spiegare il motivo della chiamata. Su, provate!»
Violet rabbrividì e stava per posare la cornetta. Quando gli Speedwell si erano fatti installare l’apparecchio, sua madre le aveva insegnato la buona creanza telefonica, anche se poi era lei la prima a essere sgarbata con gli interlocutori. Ma Violet sapeva di dover insistere se voleva farsi accogliere nell’associazione. «Mi chiamo Violet Speedwell» disse, ubbidiente come una bambina. «E vorrei parlare con la signora Biggins per quanto riguarda il ricamo dei cuscini della cattedrale».
«Così va meglio. Però non si chiama la gente a quest’ora, è un po’ tardi. Comunque le sessioni fra poco avranno termine per la pausa estiva, e riprenderanno solo in autunno».
«Capisco. Chiamerò fra qualche mese. Scusate il disturbo…»
«Ora non siate precipitosa, signorina Speedwell. Perché mi pare di capire che siate “signorina”, vero?»
«Sì» fece Violet, digrignando i denti.
«Be’, voi giovani vi arrendete troppo facilmente».
Violet fu contenta di sentirsi dare della giovane, era da tanto che non le capitava.
«Ditemi, siete capace di ricamare? Noi facciamo il ricamo su tela, per cuscini normali e da preghiera. Sapete di che si tratta?»
«No».
«Lo immaginavo, un’altra volenterosa che non ha mai preso in mano un ago!»
«Consideratemi un canovaccio ancora vuoto, senza punti da disfare».
A quelle parole il tono della signora Biggins si ammorbidì. «Su questo non posso che darvi ragione, signorina Speedwell. È più facile partire da zero. Le sessioni si svolgono due volte la settimana, il lunedì e il mercoledì, dalle dieci e mezzo alle dodici e mezzo, e poi di pomeriggio dalle due e mezzo alle quattro. Venite alla prossima riunione e vedremo cosa si può fare. Se non altro potrete aiutarci a copiare i modelli, o magari a mettere in ordine…»
Violet rammentò ciò che le aveva detto Gilda a proposito dell’armadio. «Temo che non potrò venire a quell’ora, signora Biggins, perché lavoro».
«Lavorate? E dove?»
«In un ufficio».
«Ma allora perché avete telefonato? E a un’ora così tarda? Se siete impegnata altrove temo che non potrete essere utile all’associazione, esigiamo una dedizione assoluta dalle nostre collaboratrici!»
«Ma…» Violet esitò, cercando le parole giuste. Le sarebbe piaciuto fare un cuscino, e non solo per alleviare il dolore alle ginocchia dei fedeli. Un cuscino per il presbiterio, se possibile, e che durasse a lungo, anche dopo la sua morte. Nel corso dei secoli, altri avevano intagliato gli stalli del coro, ricavato statue dal marmo, eretto colonne possenti, composto i vetri colorati delle finestre, rendendo sempre più bella la cattedrale. Violet voleva fare la stessa cosa. Sapeva che difficilmente avrebbe avuto figli, e se voleva lasciare traccia di sé nel mondo doveva trovare un altro modo. Un cuscino era una piccola cosa, ma sempre meglio che niente. «Mi piacerebbe ricamare un cuscino da preghiera» disse alla fine, con una vocina che non era da lei.
La signora Biggins sospirò. «Non siete la sola, mia cara. Ma noi abbiamo bisogno di abili ricamatrici, non di principianti, i cuscini della signorina Pesel sono molto complicati».
 
[da La ricamatrice di Winchester di Tracy Chevalier, trad. di Massimo Ortelio, Neri Pozza, 2020]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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