Tra il sogno e la realtà c’è una canzone

Luigi Oliveto

20/01/2022

Chi non ha un pensiero dove rifugiare quando la frustrazione morde dentro. Un guizzo di amor proprio che propende a sconfinare nel sogno e che – se non ad altri almeno a sé stessi – argomenta: sono qui ma dovrei essere altrove, faccio questo ma saprei fare di meglio. Tale è il male di vivere del protagonista di “Solo una canzone”, romanzo di Roberto Livi pubblicato da Marcos y Marcos. Racconta di un uomo la cui vita è costretta a pesticciare tutto il giorno nel ristorantino di provincia ereditato dai suoi. Di quel locale – il cui nome, “La luna nel pozzo”, già allude allo struggimento dell’illusione e dell’impossibile – egli è proprietario, cameriere, contabile di bilanci inesorabilmente passivi. Serve cibi surgelati, riceve recensioni da vergognarsi, trova insopportabili i clienti che ridono, parlano senza guardarlo con gli occhi fissi sul menu, gli fanno domande “e lo ringraziano fin troppo”. Quando la sera torna a casa, ha i piedi indolenziti. Ad aspettarlo c’è la moglie Ave, paleontologa sentenziosa e in sovrappeso. Un rapporto ormai essiccatosi, asimmetrico. Lei lo ritiene un inconcludente. In verità lui ce l’avrebbe un progetto che agli inizi vedeva anche l’entusiasmo di Ave. Scrivere una canzone, una di quelle canzoni che smuovono i sentimenti, incrociano sintonie universali: “Non so il perché ma sono convinto che se riuscissi a scrivere una canzone tipo Capocabana, da quel giorno potrei sopportare qualsiasi cosa. E anche se dovessi continuare a fare il cameriere, sarei comunque contento.” Ha composto una strofa, ma il ritornello non riesce a trovare forma. A un certo punto pare che la scossa creativa possa essere data da Agnese, l’amante del Quercia, un rozzo e gradasso bighellone. Agnese, invece, è donna sensibile, apprezza la musica, e una canzone potrebbe conquistarla. È dunque questa ‘incompiuta’, questa vagheggiata canzone, a segnare la vicenda del protagonista nel tormento dello scarto che sempre deve registrarsi tra aspettative e realtà. Attorno sonnecchia e si annoia la vita minima della provincia, una società sempre più distratta rispetto ai destini, ai sentimenti e alle aspirazioni dei singoli.
 
***
 
Una cosa che non sopporto del mio mestiere sono quei clienti che parlano senza guardarmi negli occhi. Si siedono al tavolo e tengono lo sguardo fisso sul menù. Mi fanno delle domande, dicono grazie, grazie, mi ringraziano anche troppo. Poi guardano gli altri commensali, poi ancora il menù, ma per loro è come se io non esistessi. Secondo me non si rendono conto. Forse non si rendono conto di quant’è brutto non essere, anche per me che sono un cameriere.
Quattro ore che corro avanti e indietro tra la cucina e la sala, i piedi mi fanno un male che non li sento più. Nove tavoli son troppi, così non si può andare avanti, ho deciso che da domani tolgo un altro tavolo. Stasera ho capito che c’è una sproporzione tra il numero di clienti e il personale del mio ristorante. Tutta quella gente che pretende di mangiare e di essere servita da me, che sono una persona sola, non va bene.
Il personale del ristorante è già ridotto al minimo, eppure le spese sono ancora troppo alte. Siamo rimasti io, Silverio e la Gianna. Io sarei il titolare, ma mi tocca fare anche da cameriere, barista e ragioniere. Silverio, che era stato assunto come barista e cameriere, da qualche mese lavora in cucina. Silverio era sempre stato un ragazzo strano, ma crescendo, forse a causa della sua malattia, gli è venuta una faccia che sembra un teschio. Io ci ho fatto l’abitudine, però mi sono reso conto che con quella faccia spaventava i clienti, così sono stato costretto a spostarlo in cucina.
La Gianna l’avevo assunta come aiuto cuoca, ma da quando ho dovuto mandar via il cuoco, che costava troppo, la Gianna è diventata capo cuoca.
Sull’insegna c’è scritto “La luna nel pozzo – cucina casalinga”. Risale a tanti anni fa, quando c’erano ancora mio padre e mia madre, e i piatti si cucinavano uno a uno. Ma da qualche anno, da quando ho perso la proprietà del locale, per rientrare nelle spese ho deciso di servire solo piatti precotti. L’insegna è rimasta la stessa perché non potevo spendere soldi per cambiarla.
Sul menù in fondo alla pagina c’è un asterisco con scritto “Alcuni ingredienti potrebbero essere surgelati”. E così sono in regola. Quello che non c’è scritto è che tutti gli ingredienti sono surgelati. Ogni piatto mi arriva in bancali da due-trecento porzioni, che dal camion frigorifero faccio scaricare nella cella frigorifera che sta sotto la cucina.
Io prendo l’ordine ai tavoli e lo porto in cucina dove c’è Silverio che scende giù per la scala a chiocciola per prendere la pietanza surgelata. La Gianna scalda le porzioni e nel frattempo elimina quelle verdure strane che potrebbero far pensare all’India, al Giappone o alla Thailandia, poi compone il piatto di portata aggiungendo l’olio di Cartoceto, oppure dei fili di caciotta di Urbino assieme a qualche foglia di insalata o spicchio di pomodoro, o qualsiasi altra cosa che lo faccia somigliare a un piatto tradizionale marchigiano.
Preferisco aspettare qualche minuto prima di servire il piatto, faccio passare un po’ di tempo perché troppa velocità non va bene, potrebbe far pensare a un piatto precotto. Carico il vassoio, metto su il mio sorriso professionale e servo al tavolo. Di solito il cliente ringrazia.
L’unica cosa fatta in casa sono le tagliatelle che la Gianna tira a mano come una volta. Lo so che la Gianna ci tiene a farle lei le tagliatelle, e io gliele lascio fare. Anche se ormai non le ordina quasi più nessuno, e il più delle volte va a finire che la Gianna se le porta a casa.
Tagliatelle a parte, questo sistema di lavoro è un sistema perfetto. Non si butta mai niente. Un tempo, quando usavo gli ingredienti freschi, se capitava una serata senza clienti, dico la verità, un po’ mi dispiaceva perché un sacco di roba andava sprecata.
Adesso non butto mai niente. I pochi avanzi dei clienti li prende la Gianna per i suoi cani, e se una sera non viene nessuno, io penso pazienza.
Ieri, per esempio, sono venute solo quattro persone. Io ho pensato pazienza, meglio così.
La Gianna invece era dispiaciuta, mi ha detto:
“Perché non fai pubblicità alla radio?”
Io le ho risposto:
“Ohi Gianna, ma sei matta? Con la pubblicità rischiamo di far venire altra gente. Per carità, non sia mai”.
 
[da Solo una canzone di Roberto Livi, Marcos Y Marcos, 2021]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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