26/01/2011
In Toscana di feste civiche, o di festeggiamenti che ambiscono a coinvolgere città intere e a rispecchiarne la vicenda, esiste una quantità davvero massiccia e risulta pertanto di grande interesse una serie di ricerche che si proponga di far luce oggi su alcuni casi ritenuti esemplari e emblematici. Intanto bisognerà intendersi sulla definizione. Una festa si può dire civica se si presenta corposamente intessuta di elementi storici e punta a tener vivo o rafforzare un corale senso d’appartenenza. La raccolta di saggi curata da Aurora Savelli sulla “Toscana rituale” (Pacini Editore), frutto di un convegno organizzato dal CIRCIT (Centro interuniversitario di ricerca sulla storia delle città toscane) svoltosi a Firenze, al Vieusseux, il 16 giugno 2009, è un contributo di prim’ordine per far luce su realtà di solito guardate con superficialità o sopportate con sufficienza. Il sottotitolo chiarisce limiti temporali e finalità precipue delle analisi: “Feste civiche e politica dal secondo dopoguerra”. Si è chiesto, cioè, ai vari relatori di intrattenersi sul rapporto intercorso tra rilancio o invenzione di occasioni ludico-celebrative e sensibilità o strategie politiche dei ceti dirigenti coinvolti nella preparazione e/o nella gestione. Mentre finora hanno fatto oggetto di indagine le feste rurali e dominante in genere è stata un’ottica antropologica, si è voluto dilatare l’ambito geografico, accordando il dovuto spazio a grandi centri urbani – Siena, Firenze, Pisa, Pistoia e Arezzo – e bilanciando il quintetto con altri cinque casi, relativi a iniziative più recenti e meno radicate: Scarperia, Torrita, Castel del Piano, Prato e Montepulciano. E si è calata la dimensione antropologica in un quadro di riferimenti storici, in modo da penetrare più a fondo nelle peculiarità proprie di feste che mal si prestano ad essere raggruppate per modelli o tipologie. La stessa Savelli riconosce che da questa rapida e zigzagante escursione per le feste toscane “scaturisce un mosaico composto da tessere molto diverse”, e non solo per la diversità oggettiva dei casi, ma anche per i punti di vista disciplinari adottati.
Feste ripristinate ocreate ex novo - Siccome ogni ricerca deve partire da quesiti irrisolti o da provocatorie ipotesi ci si è domandati anzitutto perché mai molti amministratori e cultori di patrie memorie si siano, nel secondo dopoguerra, dedicati con tanto fervore o a ripristinare feste cadute nel dimenticatoio o addirittura a crearne di nuove, e anche in tempi recenti, in anni di cinico trionfo di una svagata modernità. Si son prese le mosse dalla tesi sostenuta con vigore dall’antropologa americana Sydel Silverman, secondo la quale “notabilati locali politicamente vicini al centro-destra avrebbero giocato un ruolo di primo piano, avvalendosi di un armamentario retorico ben rodato in periodo fascista che contrapponeva il sentimento della civica ‘religio’ alla logica conflittuale degli interessi di classe”. È condivisibile una spiegazione tanto netta e argomentata essenzialmente con categorie politiche? Sì e no. Che a sostegno di feste e festicciole “emblematiche” – come preferisce dire Fabio Mugnaini – ci sia stata una pletora di eruditi di convinzioni conservatrici, abbagliati dalla gloriosa luce del passato, non c’è dubbio. Ma è frequente il caso di sindaci di giunte di sinistra, perlopiù comunisti, che rivolgono alla festa della loro comunità una cura spasmodica. Mario Fabiani persegue il progetto della rinascita – dalla primavera del 1947 – del Calcio storico fiorentino con una tenacia sorprendente e incurante delle critiche che provenivano da “Il Nuovo corriere”, l’organo per eccellenza dell’intellettualità della “gauche”, il quale non si peritava a sentenziare: “Quando una tradizione è morta nell’animo popolare, non c’è quadro vivente che possa risuscitarla”.
Il caso senese - A Siena il sindaco comunista Ilio Bocci non doveva inventare o resuscitare niente. Ogni paragone sarebbe fuorviante. Semmai c’è da sottolineare – e lo fa acutamente Aurora Savelli nel suo bel saggio sul Palio – la rispettosa e solerte collaborazione che instaura con il Rettore del Magistrato delle Contrade, il Conte Guido Chigi Saracini: anche lui,quindi, in controtendenza rispetto a malumori o riserve che albergavano in aree di militanza socialista. Nel denso capitolo su “Palio e politica” che Luca Luchini ha inserito nel suo ammirevole e divertente “Siena 1944-1950. Le Contrade tornano a sorridere” (Edizioni Il Leccio) si cita un articolo molto significativo di Wolfango Valsecchi, che – nell’agosto 1946, commentando le deliberazioni municipali in tema di Corteo storico del Palio – esprimeva la sua “soddisfazione per la rivincita sul pregiudizio della incompatibilità fra socialismo e contrada (un po’ come tra socialismo e pasta asciutta) nel vedere socialisti e comunisti, Sindaco in testa, occuparsi insieme agli altri con intelletto di amore di un argomento che prima sarebbe sembrato eresia”. Il fatto è che la festa civica era un tipico spazio di incontro, che consentiva – ammetteva – usi ambivalenti o ambigui. Non coglie la complessità del fenomeno e l’intreccio di sentimenti che suscita chi pretende di leggere univocamente quanto accade qua e là nella Toscana del dopoguerra, nelle piazze e nelle chiese, in gare agonisticamente sfrenate e in più composte cerimonie rituali.
Palio e Calcio Fiorentino - L’accostamento – del tutto incongruo – tra Calcio fiorentino e Palio senese fa toccare, però, con mano quanto poco produttivo sia un comparativismo privo di senso storico. In effetti il Palio invoca un “eccezionalismo” – concetto invalso nella storiografia istituzionale – che lo sottragga del tutto a riferimenti abissalmente lontani dalla sua impervia e secolare continuità e dal suo unico e supremo spessore. Non ebbe torto Marcello Tarì ad escluderlo dalla rassegna di giochi storici toscani – una trentina – che articolò in un quaderno (2003) di ottima e onesta redazione. Fece semplicimente notare – e ne prese atto – che i contradaioli “non riconoscono alla dizione ‘gioco storico’ il potere linguistico di esprimere la complessità e l’originalità culturale della loro festa”. E a ragione.
Il mitico sindaco di Pisa Italo Bargagna non esitò ad affidare ad un gruppo di scanzonati goliardi il compito di far rinascere il Gioco del ponte con l’evidente obiettivo di “sfruttare – nota Andrea Addobbati – la risorsa identitaria per costruire un campo neutro in cui ricomporre la solidarietà sociale mandata in frantumi dalla tragedia della guerra, superare i risentimenti, rassicurare i molti che avevano qualcosa da farsi scusare, e ristabilire lo spirito di collaborazione necessario per affrontare la grande opera della ricostruzione”. Se è un po’ schematico tracciare una linea di filiazione diretta tra il Togliatti della svolta di Salerno e la spregiudicatezza di Bargagna, è fuori discussione che qui si rileva un punto decisivo. Per i notabili compromessi col regime la festa civica fu un prezioso strumento di rilegittimazione e riciclaggio, mentre per una sinistra alla ricerca di nuove alleanze tra i ceti medi urbani consentiva una penetrazione non traumatica e l’acquisizione indolore di nuovi consensi. Furono i comunisti chiamati ad amministrare la cosa pubblica a esibire una considerazione molto scrupolosa dei rituali ereditati e delle culture che li alimentavano.
Urbanizzazione delle masse - Se è consentito un neologismo che andrebbe puntualmente giustificato direi che si assiste diffusamente ad una sorta di “urbanizzazione delle masse”, che culmina con la crisi della mezzadria ed è tanto più salda quanto più robusto è l’impianto, sia esso già confezionato da un’affermata tradizione o recuperato alle bell’e meglio dagli archivi. L’operazione assai arrischiata, infatti, non è andata ovunque in porto con successo e alla lunga tutte le debolezze si sono più o meno rovinosamente palesate. Il soccorso della sociologia, o della psicosociologia, sarebbe indispensabile per misurare il grado di mobilitazione e la presa effettiva in ceti e ambienti ben circoscrivibili.
Si possono distinguere, grosso modo, tre ondate di “revival” medievaleggiante o neorinascimentale delle feste. Quella degli Anni Trenta – ne scrisse a suo tempo Stefano Cavazza – prorompe all’insegna di un disegno fascista di esaltazione delle tradizioni in aulica egemonia stabilizzatrice. Quella dell’immediato dopoguerra obbedisce ad un euforico desiderio di ripresa economica e di coesione sociale interclassista. Quella più recente, all’altezza degli Anni Settanta, investe anche i piccoli Comuni: “Le amministrazioni locali – osserva Paolo De Simonis – hanno bisogno di riti turistici e identitari: sono le vacanze le nuove stagioni del raccolto, la cui buona riuscita si misura anche rispetto alla quantità delle presenze, lungo strategie competitive che seguono tanto la via della fedeltà rigorosa quanto quella delle varianti innovative”. Ciascuno esige – costruisce – la sua festa per contrastare (illusoriamente) la livellante globalizzazione e l’amara anonimia, per mettere in scena una sua storia a fronte del vicino, per fregiarsi dei suoi titoli di nobiltà. E ognuno può viverla, tra sacro e profano, innestandovi una sua sensibilità. Come a Prato, dove ognuno “può venerare la Cintola – dice con sarcasmo Marco Zucchini – come meglio crede, può vedere in essa quello che vuole”: una “religione civile”, civica, personalizzata a piacere. Si esprime sovente nelle feste che hanno risonanza comunitaria un generoso orgoglio localistico e, magari, incrementa partecipazione e volontariato. Vi riluce talvolta uno schietto amore per la propria città o per il proprio luogo d’elezione, molto trasversale: che fa tutt’uno, in Toscana, con i decantati valori di attaccamento civico. Nel futile e imitativo “bricolage” della post-modernità la storia diventa citazione imitativa ed elegante frammento, si fa spettacolo pronto a essere mediatizzato e ad eccitare un seducente immaginario veicolabile con facilità.
Articolo pubblicato su “Il Corriere di Siena” del 25 gennaio 2011
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