Dopo quindici anni dal romanzo “L’età dell’oro” – che gli valse anche il Premio Strega – Edoardo Nesi torna in libreria con “La mia ombra è tua” (La nave di Teseo). Un romanzo sulla nostalgia, verrebbe da dire di primo acchito. Anche se raramente troviamo che la nostalgia venga trattata in maniera così scontrosa, cinica, buffa, scriteriata. Che tale è il registro scelto da Nesi per raccontare ciò che viene definita una storia d’amore iniziata quarant’anni fa, e mai finita. E di che nostalgia si parla? Quella per gli anni Ottanta-Novanta, che, vista lo schifezza del tempo presente, viene, eccome, da rimpiangerli. Però così si va poco lontano, ammonisce il protagonista. L’Italia sembra essere diventata “il centro mondiale della nostalgia, il Paese dove si soffre di più a ricordare come si stava prima”. Il romanzo di Nesi è a suo modo una storia on the road dentro la nostra contemporaneità. Siamo, infatti nell’Italia del 2019. Tale Vittorio Vezzosi, scrittore assurto al successo planetario con la pubblicazione di un solo libro avvenuta nel 1995, da allora vive rintanato in una casa colonica sopra Firenze. Mai più una sua apparizione in pubblico, non una parola pubblicata. Finché viene invitato a tenere una prolusione a Milano, alla fiera-mercato degli anni Ottanta e Novanta. Lui, sorprendendo tutti, accetta. Parte su una Jeep del 1979 priva di tettino, sportelli, parabrezza, “l’ultimo grande motore americano a carburatori”. Ad accompagnarlo è Emiliano De Vito (dal Vezzosi soprannominato Zapata) un ventiduenne laureato a pieni voti in Lettere Antiche. Su quel relitto d’epoca che va continuamente rifornito di benzina, i due viaggiano verso Milano litigando molto, parlando linguaggi diversi. Troppo distanti – assai più del tempo anagrafico – sono le loro generazioni, le aspettative, lo sguardo sulla realtà. Persino la nostalgia – dirà il ragazzo allo scrittore – “è un lusso riservato a quelli della vostra generazione”. La nostalgia che si fa addirittura fiera-mercato, business. L’atteso discorso di Vittorio Vezzosi, complice anche il giovane Emiliano, irrompe esageratamente sui social. L’Italia si ferma per ascoltare in diretta colui che rappresenta “l’unica risorsa e l’ultima speranza” in un Paese costretto alla nostalgia per penuria di futuro, alla mercé di malgoverni e arruffapopoli. Buon per il Vezzosi, che in questo perdersi nel passato, ritroverà per lo meno un grande amore.
***
La prima volta che mi vide, il Vezzosi mi prese a fucilate.
Per paura di far tardi ero uscito di casa prestissimo, e non erano neanche le nove di mattina quando arrivai a un cancello di ferro battuto molto elegante, tutto istoriato, di fronte al quale finiva l’infame mulattiera che avevo percorso per chilometri.
Dagli ampi spazi vuoti tra le decorazioni vedevo un pratone e due lecci secolari che facevano ombra alla facciata del goffo scatolone in pietra viva che era la casa del Vezzosi, immersa nella quiete assoluta. Spensi il motorino e provai a chiamare il numero che mi avevano dato, ma non rispose nessuno. Mi guardai intorno, e non c’era campanello, solo una catenella che finiva dentro a una piccola campana di bronzo. Quando la tirai, la campana si mise a dondolare nel silenzio perfetto: non aveva batacchio.
Stavo ancora sorridendo di questa cosa quando sentii gli schianti fortissimi di tre spari e il sibilo dei pallini che mi sfioravano. Corsi a rimpiattarmi dietro a un albero, le spalle voltate alla casa, il cuore che mi martellava le tempie.
– Questo è pazzo, – dissi sgomento, ansimando di paura, mentre vedevo allungarsi davanti a me lo strisciare del tratturo dantesco irto di buche e sassi taglienti come rasoi che avevo appena fatto per arrivare fin lì, il tetro bosco di querce in cui m’ero dovuto infilare, il precipizio rasente al quale ero dovuto passare, la radura che mi s’era aperta davanti all’improvviso, incomprensibilmente, per rivelarmi il colle desolato su cui era appollaiato quel casone.
– Un pazzo furioso... – ripetei, e poi mi voltai di nuovo verso la casa e vidi un uomo che corricchiava giù per il pratone con qualcosa in mano. Terrorizzato, mi precipitai al motorino, lo accesi e detti così tanto gas che le ruote slittarono sullo sterro e cademmo tutt’e due, io e il motorino. Mi rialzai subito, e stavo per scappare a piedi giù per la mulattiera, quando mi sentii chiamare:
– Dottor De Vito!
Mi girai. Il cancello s’era aperto, e a una trentina di metri c’era questo nero coi capelli d’argento che mi veniva incontro. Avrà avuto una cinquantina d’anni, forse un po’ di più. Quando si avvicinò, vidi che aveva la pelle scurissima, e al lobo sinistro gli brillava un cerchietto d’oro.
– Buongiorno, dottore, – disse con un lieve ansito. – Sono Mamadou, abbiamo parlato al telefono...
– Ah, sì, certo. Buongiorno, Mamadou.
Gli porsi la destra, che chiuse brevemente in una stretta ferrea.
– Benvenuto. Vada pure fino alla casa. Non si preoccupi, non c’è pericolo.
E sfoderò il sorriso più luminoso che avessi mai visto in vita mia.
Non era solo l’effetto del contrasto tra i denti candidi e la pelle, era tutta la faccia a sorridere: gli occhi, la bocca, le guance sembravano fondersi in una rete di rughe che creavano il ritratto della benevolenza. Era impossibile non fidarsi di uno che sorrideva così, e allora sorrisi anch’io, mi spolverai camicia e pantaloni, tirai su il motorino, riaccesi il motore e gli chiesi se voleva un passaggio, ma mi fece cenno di no.
– Non ci salgo, io, su quei cosi... – rispose in un italiano perfetto, appena screziato di fiorentino, e mostrò l’iPhone. – E poi devo fare i miei diecimila passi...
Mentre oltrepassavo il cancello non potei fare a meno di ammirare la leggerezza di quei ferri sottili che si arricciavano a formare fiori e animali, e m’ero appena fermato accanto alla porta della casa, quando d’improvviso ci furono degli altri spari: ancora più forti, ancora più vicini, vicinissimi. Non mi intendo certo di fucili, ma non erano gli sbuffi delle doppiette dei cacciatori. Eran colpi tonanti eppure secchi, sordi, cattivi – gli spari che si sentono nei film di guerra – e sembravano esplodere direttamente sopra di me.
Sobbalzai a ogni colpo, e non scesi dal motorino. Non mi mossi nemmeno. Mi ingobbii e chiusi gli occhi, e li tenni chiusi finché non sentii Mamadou che si avvicinava ridacchiando. Mentre entravo in casa, alzai gli occhi a guardare il muro di pietra: c’era un balcone, anch’esso di ferro battuto, proprio sopra la porta. Di certo gli ultimi colpi li aveva sparati da lì, il Maestro.
Ridacchiava ancora, Mamadou, mentre mi guidava verso un grande salotto con una vetrata a parete che dava su una veranda in pietra serena, che a sua volta affacciava su una splendida vista di Firenze. Mi stavo chiedendo come fosse possibile vederla così bene, con tutta la strada che avevo fatto per arrivare fin lì, quando sentii vociare alle mie spalle:
– Zapata, buongiorno! Benvenuto!
Era il Vezzosi che mi veniva incontro tutto sorridente, la mano protesa, e la prima cosa che pensai fu che era molto, molto invecchiato: il trentenne magro dagli occhi famelici delle foto del 1995 s’era trasformato in un uomo corpulento, con un gran torace che si estendeva in ogni direzione fino a fondersi con la pancia, come se negli anni sopra il suo addome di ragazzo fosse cresciuto un giubbotto antiproiettile fatto di carne.
Superava di poco il metro e ottanta, e aveva le spalle larghe come quelle di chi ha nuotato tanto da bambino, il collo solido, le gambe forti, da calciatore, e i capelli brizzolati lunghi fin quasi alle spalle, non del tutto lisci, non del tutto puliti. Portava una camicia di jeans coi bottoni di madreperla che gli tirava sulla pancia, pantaloni larghi chiari con un buco su un ginocchio e stivali con la punta tronca.
Bello non era, ma aveva lineamenti regolari, soprattutto il naso, perfettamente dritto, e l’esser sovrappeso gli spianava le rughe dalla faccia larga e vivace, nella quale si intuiva ancora il volto del bambino che era stato. Gli occhi piccoli e marroni, la fronte alta per via d’una stempiatura appena accennata, i denti bianchissimi piallati da anni di bruxismo facevano da comprimari a un sorriso lucente che dava l’impressione di aver steso un mucchio di donne, in passato, prima che gli succedesse qualcosa di brutto. Perché si vedeva benissimo che gli era successo qualcosa di brutto, al Vezzosi.
– Vedo che non sei un gigante, Zapata. Ci arrivi a uno e settanta? – disse, strizzandomi la mano destra.
Non ero preparato, e così non riuscii a rispondere alla stretta, e mi fece anche un po’ male, ma mi sforzai di sorridere.
– Quasi.
– Bene, allora avrai l’uccello grosso. Buon per te. Io l’ho corto, ma di bella circonferenza, e ancora guizzante, molto guizzante...
Mi guardò in silenzio per qualche secondo. Sembrava imbarazzato, come se avesse finito la parte che s’era scritto, e non sapesse più cosa dire.
– Bene, – riprese, – ora che ci siamo presentati, Mamadou ti farà vedere la tua camera e ti porterà a fare un giro della casa e del giardino. Dopo pranzo farai un po’ quello che ti pare. Leggi, scrivi, studi, dormi, pensi, vai a camminare, guardi un film, ti fai una doccia o una sega. Quello che ti pare. In questo posto vige la libertà, e soprattutto l’anarchia più totale. Né casa, né chiesa, né patria, né legge. Ci vediamo a cena. Alle nove, puntuale. Ciao, Zapata.
– Ci facciamo una foto insieme?
Me l’aveva chiesta la mamma, una foto di noi due insieme. Fatevi un selfie.
– Assolutamente no, – intervenne Mamadou.
– Perché no, invece, dài. Ha una faccia simpatica, questo ragazzo.
Il Vezzosi si avvicinò e m’appoggiò un braccio sulle spalle, e d’improvviso sentii il tenue, lontano profumo dell’acqua di colonia del babbo, quella che per nome aveva un numero. Lo guardai, sorrisi.
– Che c’è? – chiese.
E io:
– Nulla.
E scattai la foto.
[da La mia ombra è tua di Edoardo Nesi, La nave di Teseo]
Torna Indietro