Tayla è lì. Si muove a scatti attorno alla bara con l’imprevedibile dinamica dei sogni, metà corpo e metà vento. E non mi perde di vista neanche un momento. Tuttavia io so che per lei non rappresento una preda, infatti non è così che mi guarda, piuttosto come una rivale che insidia il suo territorio. Tutto questo è inconcepibile ma succede, e non è lei a sentirsi a disagio in quella chiesa, ma io, e certo questo lei lo percepisce benissimo. Nessuno oltre me la vede perché siamo sole, io e lei, due femmine in quel silenzio. Le sole ad aver messo radici proprio in questo sogno. Sole nella chiesa. Sole con la morte che per ora è silenziosa e confinata nella bara. La bara è chiusa e tuttavia a tratti riesco a vederci attraverso. Il volto di Malcom non sembra sofferente, ma neanche sereno. Inquieto direi. Mi domando se anche lei riesce a vederlo. Siamo sole. Ma se anche vi fosse qualcun altro ho il sospetto che nessuno oltre me potrebbe mai vedere Tayla. E viceversa. So bene che è lì perché nella semioscurità della chiesa vedo la luce dei ceri scintillarle negli occhi, biancheggiare a tratti sulle orecchie che scattano nervose e sui lunghi canini, cercare perfino di abbozzare un sommario profilo sgocciolando incerta dal muso al collo. Tayla si muove quasi danzando tra la navata esterna e quella centrale, sfiorando gli ostacoli di uno spazio relativamente piccolo e pieno di panche, fiori e candelabri, sottotraccia al silenzio, senza urtare niente, nemmeno l’aria, come sotto la spinta di un ritmo musicale.
A tratti, come arriva in prossimità di uno di quei grandi ceri, si distingue bene tutto il suo corpo, l’arancio acceso sferzato di nero del mantello sotto cui guizzano rigonfiandosi indelebili i muscoli possenti. Poi a un tratto quel corpo statuario si sgonfia, i muscoli si distendono e si contraggono a casaccio distorcendone le fattezze, e Tayla diviene una sorta di bozzolo color ocra che si contorce a terra come un bruco di gomma dentro cui in rapida successione spariscono le zampe, la testa e la coda. Ma fino a quando anche la testa non sparisce del tutto nella morbidezza del bozzolo, i suoi occhi continuano a fissarmi, senza cambiare espressione. Questa gonfia crisalide gommosa si contorce davanti a me senza che io possa muovere un passo. Poi completa l’ultima fase di quella repentina gestazione e si fa immobile come un cristallo. Il tetto della chiesa brucia in un attimo come carta velina e subito tutto attorno è un susseguirsi di stagioni in un cielo rigato dal veloce passaggio di mille soli e mille lune che si inseguono. I capitelli delle colonne diventano gangli nervosi da cui si espande una matassa di rami. Il travertino si trasforma tutto in una corteccia cerebrale, rugosa e irregolare. Finché, con un tremito profondo, il bozzolo si schiude con il rumore di un uovo. Dal bozzolo esce una enorme farfalla le cui ali per un attimo si frappongono tra me e il sole, tende iridescenti, rendendo la mia vista un vertiginoso e abbacinato caleidoscopio. L’aria che spostano profuma in modo indefinibile e vola decisa verso la linea dell’orizzonte, dipingendovi miraggi spiraleggianti. La farfalla è già lontana diretta verso quell’ondivaga meta quando vinco i miei timori e tendo le mani per sfiorarla. Non so come pretenda di riuscirvi, ma sento che non è lontana.
Se mi guardo attorno, ora non c’è più niente intorno a me. Svanita la chiesa, svanita Tayla, con tutte le sue molteplici incarnazioni. I miei piedi camminano tra sabbia e cenere lasciandovi impresse impronte liquide, attorno c’è una magnifica desolazione, deserta a ogni forma o dimensione, tutta dipinta dei colori di un cielo autunnale. Può essere aria di mare quella che ogni tanto inumidisce nelle mie narici l’odore acre e secco di bruciato che vi predomina, ma il mare di cui ho sete resta una leggera promessa che non impegna a niente l’orizzonte. Allora il mio cervello deluso ripone bruscamente il sogno dentro una brutta scatola di cartone, interrompe la corsa del sonno e mi sveglia ancora ansimante. Piove sui vetri del taxi. Non è la prima volta che mi capita di dormire in auto. Chi svolge un lavoro dagli orari così irregolari impara a rubare la sua libbra di sonno in ogni circostanza. Il tassista che mi ha pazientemente accompagnato alla polizia e in obitorio guida in modo molto regolare, sembra essere in grado di anticipare ogni manovra delle auto che le precedono, per quanto brusca, e la stessa nostra vettura pare farsi piccola e serpeggiare via da un pertugio ogni volta che davanti a noi si forma una fila o si profila un ostacolo. Ogni tanto getta un occhio su di me dallo specchietto retrovisore, e ha quello sguardo tra il curioso e il preoccupato che aveva mio padre le rare volte che mi portava a scuola, di solito in corrispondenza degli esami o quando c’erano interrogazioni importanti. Con il tassista comunque non abbiamo scambiato che poche parole, ma ormai ci comportiamo come un’affiatata coppia di amici, quasi che nell’arco del giorno ci fossimo raccontati tutto l’uno dell’altra.
Malcom dopo l’incidente non l’ho voluto vedere. Dopo una vita passata assieme preferisco ricordarmelo come è stato, nel fiore degli anni, o anche solo come appariva quella sera. Non ci saranno foto sulla sua tomba, nessun oggetto, solo ricordi visibili a chi gli voleva bene. Sapeva concentrare la vecchiaia in pochi punti del suo corpo, in poche rughe ben profonde dove la seppelliva senza che nessuno se ne accorgesse. I ragazzi dello staff giù al circo da quella brutta sera sembrano addirittura più vecchi di lui, quasi che il tempo si sia accorto di loro e gli stia grandinando addosso tutti gli anni che non è riuscito a scaricare su Malcom. Come me, anche loro hanno perso la sincronia con la vita. Malcom era il nostro meridiano, il nostro tempo standard in base al quale tutto si organizzava. Sono certa che il passare tempo nella mia mente sarà in grado di suturare quella gola spaccata come una mela. Per il resto niente, mi sforzerò di ricordare il suo bel corpo, la pelle tirata del viso, quella leggermente ruvida ma abbronzata del collo e delle braccia. Il fisico asciutto, la dentatura perfetta e le spalle da nuotatore, insolite in uno che odiava profondamente il mare e le piscine. Gli anni si sono accaniti assai di meno su di lui che su di me, che lo guardavo ogni sera e ogni mattina, mentre lavorava nella grande gabbia. Ora quella gola recisa di netto, l’ha svuotato. Quella sera, avevo visto il suo sangue morire via, allontanarsi a fiotti impetuosi come fa l’acqua dalle sorgenti nei giorni di pioggia. Il resto del corpo non si muoveva nemmeno, solo le braccia, solo la testa, con piccoli scatti. Gli occhi erano chiusi, ma anche scavando con le dita oltre le palpebre, le pupille non c’erano più, erano dilatate e sfocate, come perle sepolte sotto la sabbia. La sua mano destra fissa e contratta sul mio avambraccio era pesante, conoscevo quella stretta, ma quella sinistra era rilasciata su un fianco, rossa di sangue, abbandonata da ogni forza. Domata dalla morte. Inconsistente. Il sangue è strano, su di me ha un potere ipnotico. Il primo sangue, poi, non è rosso ma nero, ha lo stesso colore della notte. Ne ero già coperta, quando sono arrivati gridando quelli che lavorano da una vita con lui. Roberto, Jerry, Lovra. Forse pensavano che avessi usato le mie mani per tentare di tamponare la ferita, ma non l’avevo fatto. Mi ero lasciata semplicemente coprire dai fiotti di sangue tenendo Malcom in braccio. Lui non c’era già più in quel corpo. L’anima era già fuggita da tempo con un lungo brivido che aveva frustato il suo corpo attraverso le sbarre di quell’ arena. Per la prima volta ne avvertivo l’odore acuto e sulla lingua mi sembrava di sentire contemporaneamente il sale del suo sudore e la dolcezza del suo sangue.
E sentivo anche l’odore di Tayla, un penetrante odore di muffa. Tayla lo aveva quasi decapitato con una sola zampata. La tigre è così, è come al centro di due invisibili sfere. Quella più esterna, è quella in cui può entrare l’uomo, sempre ammesso che sia abbastanza abile da riuscirci. E Malcom lo era. La tigre può darti la sua vita, il suo territorio, dentro quella sfera è pronta a rinunciare a tutto per un uomo, anche alla dignità: ma la sfera più interna rimane sua, è la sua foresta invisibile che non può tradire. Là Malcom, come tutti, in quella seconda sfera era nulla più che un ospite, e non sempre gradito. Non sapremo mai cosa ha fatto di sbagliato. Forse proprio nulla, forse ha solo subito gli effetti di una reazione opposta e contraria all’azione inconsapevole di qualcun altro, cui era invisibilmente legato. E Tayla ne è stata solo l’altrettanto incolpevole meccanismo attuatore, il tramite fisico, e quindi è responsabile della sua morte tanto quanto la lama di una ghigliottina o l’elettrodo di una sedia elettrica lo sono per quella di un condannato. Tuttavia ho dovuto, abbiamo dovuto, dire il contrario, perché non uccidessero Tayla: ufficialmente Malcom ha fatto un movimento sbagliato, come è riportato nel file dell’inchiesta. Con mio profondo stupore, tutti hanno dato per buona questa versione e nessuno ha chiesto quale fosse mai stato questo movimento sbagliato che aveva innescato la reazione della bestia. A tutti è bastato guardare gli occhi di Tayla per crederci. Erano occhi inespressivi, chiusi, quasi grigi come l’asfalto. Occhi non da animale, ma da fantasma. Ci vedevi dentro intricarsi la matassa del dolore. Ma io so che era tutta una finta e che Tayla stava solo recitando una parte.
Del resto, date le circostanze, è la miglior cosa che potesse succedere e che un domatore può lasciare in eredità, anzi in dono, al proprio mondo. Dopo aver domato tigri per decenni con apparente facilità ecco che di colpo il suo lavoro torna pericoloso, rischioso, imprevedibile. E Malcom con la sua morte restituisce tutto ciò che ha preso in vita: il mistero si rinsalda, il pericolo si riafferma, lasciando sulla scena un fatto che nessuno saprà spiegarsi e il mito di una bellissima tigre che nessuno vedrà più esibirsi. Dopo molte notti ho raggiunto a fatica un sonno malfermo, non lungo ma continuo. Senza le intermittenze e i continui risvegli riesco anche a sognare. Ma non sogno Malcom, nè il profondo taglio ricurvo sulla sua gola. Me lo aspettavo, senza una ragione precisa. Sogno l’occhio di un ciclone. L’occhio del ciclone è l’arena. Intorno ci sono soltanto nuvole nere e cariche di pioggia. Ne sento l’odore avvicinarsi. Tayla è lì. Si muove a scatti attorno a me con movimenti circolari e continui, metà corpo e metà voluta di fumo. Poi si ferma di colpo. A un cenno dei suoi occhi sento il mio corpo prodursi in salti e contorsioni indipendenti dalla mia volontà. Poi a un certo punto la fisso e anche le sue pupille smettono di muoversi: le corro incontro e un istante dopo Tayla fa lo stesso con me. Copriamo in un respiro la breve distanza che ci separa. Al momento del contatto provo un dolore intenso che sbianca la mia mente seguito da un fremito che percorre come un lampo nero il mio cervello sconnesso dal corpo e abbacinato. Ma questa sensazione dura pochissimo. Subito un piacere inumano mi riempie inesauribile la bocca come la polpa succosa di un frutto dopo che i denti ne hanno intaccato la superficie ruvida e secca. Per un secondo perdo la vista. Poi con un rumore a metà tra il fragore di un applauso e lo schiocco di una frusta l’alba spacca la notte svegliandomi in Tayla.
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