Tanto poco. Lei ama lui per una vita, ma lui non se ne accorge

Luigi Oliveto

29/02/2024

Gli amori eterni per essere tali devono restare inespressi. Amori a senso unico, non dichiarati, platonici, a distanza. È l’amor de lonh, “l’amore di lontano” cantato dai trovatori che ricavavano piacere dalla privazione: “Dice il vero chi mi chiama ghiotto / e desideroso dell’amor lontano, / che null’altra gioia tanto mi piace / come il godere dell’amor lontano.” A un siffatto amore è assimilabile la storia che racconta Marco Lodoli nel romanzo “Tanto poco”, dove una donna, bidella in una scuola superiore, ama tacitamente e per quarant’anni un professore – quando lo vede per la prima volta “era così giovane e bello” – senza che lui cogliesse il pur minimo segnale di quella totale dedizione. “Non so perché mi sono aggrappata così forte a quel ragazzo, come se di colpo fosse tutta la mia vita. Non lo so e forse nessuno saprebbe spiegarlo, forse c’era un vuoto e lui lo ha occupato interamente. Sì, avevo una casa, un lavoro, qualche amica, ma mi sembrava di non avere niente, che tutto ormai sarebbe stato così, giorno dopo giorno, secondo un ordine che rassicurava e faceva male.” Il professore Matteo Romoli è un tipo fascinoso, capelli ricci, informale, viaggia in vespa. Con lo zaino portato su una spalla, arriva a scuola sempre in ritardo e mai una volta che non chieda alla bidella in quale classe abbia lezione. Ai ragazzi assegna temi del tipo “La fine del mondo, ieri sera”, oppure “Oltre il cancello”. Spesso i fogli vengono consegnati in bianco. Gli alunni mugugnano, i genitori protestano, i colleghi insegnanti ironizzano. La bidella, invece, che con gli studi si era fermata alla terza media, quei temi prova a svolgerli a casa. È un modo per condividere con Matteo sentimenti, sguardi sulle cose e su una vita di pura invenzione. Ma il professorino è troppo preso di sé per accorgersi di lei, l’unica volta che l’ha chiamata per nome ha pronunciato quello sbagliato. Lui, peraltro, è scrittore; e ad un certo momento anche autore di successo. Cosa che inorgoglisce l’innamoratissima bidella o la fa soffrire quando legge critiche negative, tanto che dentro sé reagisce argomentando contro quei giudizi ostili, come fa ogni volta che, all’interno della scuola, sente battutine e commenti su Matteo. Trascorrono così quarant’anni, durante i quali “le stagioni passano, le foglie crescono, cadono e ricrescono e tutto cambia. Ma io sono stata sempre qui, ferma, radice piantata in una devozione che forse è amore e forse è solo paura”. Quarant’anni fedele a un sentimento, rinunciando a tutto. Vicina ma invisibile ad osservare lui con le sue mogli, il fugace successo, il declino, lo smarrimento. E lei sempre lì, caparbia, inflessibile, votata ad una vita parallela alla realtà, a un sogno che forse, almeno per una notte, pare farsi vero abbraccio. Ne è valsa la pena? E chi può stabilirlo. Per dire di aver vissuto vale ciò che si è fatto, ma non di meno quanto immaginato, sognato, alimentato da una nostalgia di futuro.
 
***
 
Ma certo che lo so, la vita è cambiamento, è una cosa strana che si deve trasformare di continuo per non seccarsi, acqua che scorre, che schiuma, che irriga, che fugge verso il mare.
L’ho sentito dire cento volte da persone che ne sanno tanto più di me, e credo che abbiano ragione: se non gira, la ruota si blocca, diventa ferro arrugginito, tetano. Le stagioni passano, le foglie crescono, cadono e ricrescono e tutto cambia.
Ma io sono stata sempre qui, ferma, radice piantata in una devozione che forse è amore e forse è solo paura. Eppure anche ora che mi vedo invecchiata, che intorno agli occhi ho una ragnatela di piccole rughe e in bocca meno denti, anche ora non ho rimpianti. Sono stata qui perché in qualsiasi altro posto del mondo mi sarei sentita sola, inutile, sbagliata. Ho avuto bisogno di vederlo ogni mattina, scambiare con lui un rapido saluto, e persino d’immaginare che senza di me, che sono quasi nulla, lui si sarebbe perso nella vita come un bambino in un bosco.
Ricordo perfettamente il primo giorno che l’ho visto, anche se sono passati quasi quarant’anni.
Pioveva tanto quella mattina di settembre, forse perché l’estate era stata lunga e asciutta, e anche il prato della scuola era quasi solo terra gialla. Quando piove così, mi viene voglia di uscire e fumare una sigaretta sotto la tettoia, proprio all’ingresso della scuola: guardo, fumo e non penso a niente, ascolto il rumore della pioggia e mi sembra che l’acqua pulisca ogni cosa. E ho visto un ragazzo che saliva dal cancello lontano verso di me, stava in mezzo al diluvio ma non accelerava il passo, camminava e si avvicinava senza fretta con il casco della moto al gomito, e quando ormai stava a pochi metri ho visto che sorrideva. Era completamente fradicio, ha scosso la testa ricciuta come fanno i cani per scrollarsi l’acqua dal pelo, e mi ha teso la mano sgocciolante, buongiorno mi ha detto.
Le lezioni sono già iniziate da più di un’ora, gli ho detto io, dovresti essere in classe, hai la giustificazione? Ma poi come fai a entrare in classe così, ti prenderà un malanno, sei zuppo dalla testa ai piedi: e lui continuava a sorridere, è entrato, nell’atrio si è tolto lo zaino che grondava acqua, ha detto ci voleva proprio un acquazzone così, e anche la voce sembrava bagnata. Era alto e magro, gli occhiali pesanti gli calavano sul naso corto. Dondolando sui piedi, ha preso dalla tasca un fazzoletto per asciugare le lenti, ma anche il fazzoletto era fradicio.
Figlio mio, sei un disastro, gli ho detto, dammi, e con un foglio di carta assorbente gli ho pulito gli occhiali. Ora chiamo la vicepreside e vediamo che dice, se puoi entrare in classe oppure no, e lui sorrideva come uno scemo, in mezzo alla sua pozzanghera. Aveva l’aria di quei ripetenti che non vogliono imparare nulla, che resterebbero a scuola tutta la vita perché a scuola comunque fa più caldo che fuori.
Mi chiamo Matteo Romoli, sono un professore di lettere, ha detto, prendo servizio oggi. Chissà, magari domani smetto, e sorrideva ancora. Grazie per gli occhiali, signora, non vedevo più niente.
Da quel momento anche io ho cominciato a dargli del lei, ed è stato così per più di trent’anni.
Da quel momento ho cominciato a volergli bene.
Io ero stata assunta l’anno prima, collaboratrice scolastica, cioè bidella. Ero contenta perché avevo uno stipendio sicuro, pochi soldi ma benedetti, e così avevo potuto affittare un piccolo appartamento a Torre Maura, via delle Allodole 31, due stanze, bagno e cucina, quarantotto metri quadri che mi sembravano un regno. Avevo un lavoro, avevo una casa, avevo ventisei anni, potevo sentirmi fortunata, molta gente della mia età ancora girava a vuoto.
Da casa a scuola erano trecento metri che facevo a passo veloce ogni mattina alle sette e un quarto, perché i bidelli devono arrivare prima di tutti gli altri per aprire il cancello d’ingresso al viale, poi il portone della scuola, e preparare la giornata agli studenti e ai professori, alzare gli avvolgibili in tutte le classi, svuotare i cestini, sistemare i gessetti sotto le lavagne pulite e i rotoli di carta igienica nei bagni.
E poi non avevo più quasi nulla da fare, solo stare di guardia all’ingresso, accogliere qualche madre che veniva a riprendersi il figlio febbricitante, qualche rappresentante di libri scolastici, qualcuno che voleva informazioni su questa scuola, perché il figlio voleva cambiare indirizzo: ma bisognerebbe cambiargli la testa, diceva.
I pomeriggi erano lunghi, soprattutto quando la luce si distendeva fino a sera. Ogni tanto mi trovavo con Mirella, che era stata mia compagna di banco alle medie. Lei aveva continuato fino a prendere il diploma di ragioneria, io mi ero fermata. Di solito ci vedevamo in un bar su via dei Colombi, d’inverno dentro, in primavera fuori, sedute al tavolino sul marciapiede. Bevevamo vino bianco e parlavamo delle nostre cose. Lei aveva sempre tanto da raccontare, storie d’amore più o meno campate in aria, ma che qualche volta diventavano storie di letto e di patimenti. Era carina, rotondetta, piaceva agli uomini e gli uomini piacevano a lei. E mi chiedeva se per me c’era qualcuno, anche solo uno con cui giocare un po’, per passare il sabato sera.
Io non dicevo niente perché non avevo niente da dire, e forse perché non mi interessa giocare. Avevo avuto un paio di incontri, ma quasi solo per capire meglio che mi aspettavo tanto di più, che non mi bastava farmi toccare e sdraiare per dieci minuti. Gli uomini mi trasmettevano sempre un’inquietudine fastidiosa, sentivo che mentre mi parlavano pensavano ad altro, che cercavano di capire se ero disponibile o se era tempo perso. Provavano a farmi ridere, si vantavano di imprese ridicole, mi sfioravano le spalle. Io quasi non rispondevo perché provavo imbarazzo, era un teatrino che non mi riguardava, la parte per me non c’era e così restavo zitta dietro gli occhiali da sole, e quegli uomini poi dicevano alla mia amica che ero antipatica, che mi credevo chissà chi e invece ero solo una bidella in una scuola di borgata, e non ero neppure tanto bella, anzi.
Al bar di via dei Colombi c’erano sempre uomini con il bicchiere in mano che provavano ad attaccare bottone, e Mirella li assecondava, accavallava le gambe, si toccava i capelli. Io bevevo un bicchiere, un altro, non pensavo a nessuno, non badavo a nessuno. E poi ho pensato solo al mio professore, che non mi guardava e non mi parlava.
Arrivava come il vento, con la testa scapigliata e lo zaino aggrappato a una spalla, sempre con quel sorriso inspiegabile sulla bocca, come se volesse dire a tutti non vi preoccupate, non sarò un peso, non sono venuto qui a creare problemi, vado via subito, giusto il tempo di fare le mie lezioni. Dalla mia postazione, sempre lo stesso tavolo all’ingresso, sempre lì, lo vedevo entrare nell’aula insegnanti, dove i professori scaricano uno sull’altro i loro malumori, insoddisfazioni, lamentele: lui, Matteo, firmato il foglio delle presenze, preso dall’armadietto il suo registro, usciva in un baleno. Poi traversava veloce l’atrio e il mio sguardo ed entrava in una classe: quasi sempre nella classe sbagliata. Dopo un minuto usciva e veniva da me, con quell’aria confusa e leggera che pretendeva sempre un piccolo aiuto, un’assoluzione, perché niente e nessuno è perfetto, grazie al cielo.
Dove devo andare? mi domandava. Quarta B, al piano di sopra, gli dicevo, e poi in terza A, in fondo al corridoio. A volte si fermava ancora un attimo, e per me era come se quell’attimo avesse una punta d’oro che si conficcava nella carne. Lui esitava ancora, come se volesse chiedermi ma cosa devo spiegare in quarta, cosa posso insegnare a quei ragazzi, ho venticinque anni, io non so niente… E poi andava, e ogni volta dalle sue classi arrivavano grida, sghignazzi, un frastuono barbaro che non trovava limiti, e io soffrivo perché Matteo non sapeva frenare quel caos, non sapeva imporsi e i ragazzi se ne approfittavano orrendamente. Ma che succede? diceva il vicepreside con la faccia scura, ma chi c’è in quarta B, quel deficiente? E però, miracolo, dopo qualche minuto quel finimondo si placava, diventava un brusio, una schiuma leggera, e poi un silenzio. Si sentiva solo la voce di Matteo, rapida, incalzante, come persa in punta di piedi dentro a una domanda infinita, e i ragazzi ascoltavano, o forse no, però restavano in silenzio.
 
[da Tanto poco di Marco Lodoli, Einaudi, 2024]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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