Per affermare ‘qui sono a casa mia’ occorre che un luogo, una patria coincidano con la sensazione di sentirsi ‘giusti’ in quel luogo. Insomma, sentirsi ‘a posto’. Talvolta è questione di radici, altre volte no. È vero che le radici trasmettono il conforto di storia, cultura, sentimenti condivisi. Sono rassicurante lascito da una generazione all’altra. Ma possono anche trasformarsi in deleterio limite, quando divengano ceppi alla propria libertà di movimenti, pensiero, scelte, visioni del mondo; quando per sentirsi ‘a posto’ con sé stessi sarebbe invece necessario un ‘altrove’. Poggia su questa dicotomia la vicenda raccontata in “Tangerinn” (edizioni e/o), romanzo d’esordio di Emanuela Anechoum. Protagonista è la trentenne Mina, portatrice di un’inquietudine che la vede prima in fuga per “essere nuova” e libera, poi di ritorno per ricongiungersi in qualche modo a una parte di sé. Le radici di Mina sono peraltro storia intricata: è nata in un paesino di mare dell’Italia del sud (“piccola città che pure spezzava il mare in due”) da mamma italiana e padre marocchino fuggito dal suo paese perché sognava un altrove. Il romanzo inizia con Mina che da sei anni si è trasferita a Londra dove ha trovato un lavoretto come segretaria presso il punto vendita di una catena di ristorazione. Abita come pensionante in casa di Liz, digital activist, bella, progressista e filantropa alla maniera di certi ricchi borghesi. È in un pub insieme a Liz quando riceve la telefonata della mamma che le dice della morte del padre Omar. Torna dunque in Italia per i funerali e vi resterà a lungo. Al paese trova sua madre, eterna depressa, quanto mai assente e ripiegata sul proprio egoismo. La sorella Aisha gestisce ora il Tangerinn, il bar che loro padre aveva aperto sulla spiaggia, frequentato in prevalenza da immigrati (a poca distanza c’è un centro d’accoglienza dove la stessa Aisha fa volontariato) quasi per offrire loro un surrogato di casa, “una comunità attorno a quel piccolo centro nevralgico di anime di passaggio, di culture incomprese, di lingue madri e matrigne”. Ma soprattutto Mina ritrova i ricordi del padre, i suoi racconti di quando era bambino, ragazzo, ostinato sognatore di un’esistenza diversa. Egli racchiudeva in sé qualcosa di misterioso, di mitico. Uomo la cui determinazione e saggezza ha voluto fossero eredità morale per la figlia: “Non si corre mai via da qualcosa, si corre sempre verso qualcosa. Corri verso te stessa, e verso le cose che ti bastano, sapendo che se non ci fossero ce ne sarebbero altre.” Proprio la rievocazione della vita del padre, dall’infanzia al suo arrivo in Italia come migrante, è la parte più consistente e riuscita del romanzo, sviluppata attraverso un immaginario dialogo figlia/padre. Storia, come abbiamo detto, di partenze, ritorni e non-ritorni, di radici e spaesamenti, di ‘qui’ e di ‘altrove’. C’è poi la parte del presente, che la protagonista racconta in prima persona; anch’essa, come il genitore, in cerca di un altrove, e non meramente geografico. Un presente che, in allusivi giochi di specchi, sembra farsi replica, somiglianza, prosecuzione di una storia famigliare. E quindi consapevolezza delle proprie radici.
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Sei sempre stato uno a cui, a un certo punto, capitava la mano vincente. Hai lottato nella vita, hai avuto fame, hai lavorato ogni giorno da quando eri alto così – mi dicevi. Ma le cose importanti, importanti davvero, ti sono cadute tra capo e collo. Il talento non ti mancava, ma ne avresti potuto fare a meno.
Alcune di queste cose vale la pena nominarle; altre, quando le si pronuncia è come un tradimento. A volte coincidono. Per la maggior parte non sono cose che ti sei preso, che hai costruito, progettato. Semplicemente, ti sono capitate, bizzarrie del caso. Te le meritavi? Sono per lo più cose belle, alcune tristi, ma sostanziali a ogni modo.
Giocare a carte con Samir, giù al bar del quartiere. Non si chiamava in nessun modo: l’insegna diceva solo “Café”, in francese. Giocavate ogni giorno, eppure sentivi sempre quella lieve adrenalina, la pressione di dover vincere come se ne andasse della tua sopravvivenza. Era come una droga, quello stare sempre in bilico fra strategia e caso. Dovevi dimostrare di essere all’altezza, perché altrimenti qual era il progetto di Allah nel tenerti in vita, quando tuo padre e due dei tuoi fratelli erano morti?
Il tuo primo ricordo: avevi tre anni, tua madre con un corpicino esanime fra le braccia si asciugava gli occhi in silenzio. Eri corso giù per le scale – abitavate al primo di una palazzina di due piani – e fuori in strada, a chiamare l’imam. Avevano pregato e pianto, pianto e pregato, per giorni. I vicini avevano portato delle ceste piene di fiori e cannella, per coprire l’odore, perché il corpicino cambiava colore, e già puzzava.Poi lo avevano portato via. Qualche settimana dopo iniziavi la scuola coranica. Imparare a pregare significava imparare a scrivere, a cantare, a vivere. Non pensavi ai morti, ma ogni tanto l’immagine di quel corpo ti tornava in mente, avevi paura che ti guardasse mentre dormivi. Tu eri vivo e lui no – perché?
Tutti giù al quartiere capivano. Per alcuni la fede era rassegnazione, per altri conforto – per te era fatalismo. Allah doveva avere un piano per te. E quando si sarebbe palesato, ti saresti dovuto mostrare pronto. Anche Samir la pensava a quel modo. Era diversissimo da te in molte cose, ma percepiva che vincere era importante, anche solo a carte. Per questo eravate amici. A distanza di tanti anni, nell’altra tua vita, quella in cui esistevo anch’io, ti osservavo seduto sul tappeto del salotto inventare contorti solitari con le carte francesi.Dovevi vincere, dovevi vincere contro te stesso.
Non sapevate che cosa Allah avesse in serbo per voi, ma speravate che vi coinvolgesse entrambi. Vi confessavate sottovoce i progetti più segreti. Un giorno avreste guidato fino a Tangeri e preso una nave. Sareste diventati ricchi, avreste vissuto in Europa. Un giorno avreste avuto mogli bellissime, chiamato un taxi dalla reception dell’hotel e viaggiato in aereo. Avreste pagato con la carta di credito, di quelle dorate. Non avreste mai più avuto fame. Sareste tornati al quartiere come visitatori stanchi, sempre più estranei a ciò che vi circondava, con le vostre scarpe firmate, le vostre camicie, la pelle luminosa di chi non deve davvero faticare. Ma avreste guardato con nostalgia improvvisa le strade polverose, non asfaltate.
Ci sono cose che vale la pena nominare. Per esempio le mani di jidda, la nonna, nodose e antiche come radici di ulivo. Le baciavi il palmo e il dorso ogni volta che entravi nella stanza. Profumavano di spezie e di henna. Aveva le unghie rotte a forza di strofinare panni e lavorare sui tessuti. Stava ricurva sulla macchina da cucire per tutto il tempo necessario, senza mai una pausa, con lentezza e dedizione, come fosse una preghiera. Mentre lavorava a volte cantava, con voce bassa e roca. Quando era stanca si appoggiava un momento allo schienale della sedia e posava i palmi sul tavolo. Stava ferma così per qualche minuto, poi riprendeva a lavorare. Le sue piccole mani erano sempre calde, le potevi stringere entrambe in una sola delle tue. Tu avevi mani grandi, dita lunghe e unghie piatte come quelle di uno strano animale. Mani goffe che non sapevano stringere un fiore. Da piccola mi ci addormentavo sopra come se fossero la mia tana.
Le tue mani sono l’unica casa in cui mi sia sentita davvero al sicuro.
Il sorriso di ammi Boubakar. Era un po’ suonato: credeva negli spiriti, sentiva suoni che gli altri non avvertivano, vedeva i vostri fratelli morti e a volte parlava coi gatti. Aveva paura del buio. Era triste quando cadevano le foglie, perché morivano e lui non le aveva potute conoscere. Dopo la pioggia usciva a togliere le lumache dalla strada e, se ne vedeva una schiacciata, piangeva. Era come un bambino in un corpo da adulto. Innocente. Quando partisti ti accompagnò in bici al porto, ti mollò lì senza dir niente, senza neanche un abbraccio – ma tu lo sapevi che se l’era filata per non farti vedere che piangeva.
Altre cose da nominare: il walkman di Idris, il modo in cui Zahra si accarezzava la pancia rigonfia, il profumo di menta e hashish al bar, le scarpe da corsa che Malik ti aveva regalato con il suo primo stipendio, le mani di jidda – l’ho già detto? – e il prezzo della farina, e la fame, e le voci di Derb Sultan, i corpi flaccidi dei vecchi seduti nella nebbia dell’hammam, la pelle raggrinzita dal vapore, dal tempo, le donne che si aggiustavano distrattamente l’hijab, camminando, parlando fra loro, e voi che le seguivate con lo sguardo, come fantasmi, i colori del mercato che ti accecavano, ti confondevano. Da piccolo con jidda avevi paura che ti saresti perso e che lei non si sarebbe voltata a cercarti, perso un figlio persi tutti i figli, i cani che ti hanno quasi staccato la gamba un giorno, quella volta che avevi cercato di rubare le mele dall’orto del vicino, un tizio che vendeva scarpe spaiate all’angolo della strada, per chi aveva un piede solo, le streghe che ti leggevano i fondi di tè, l’ululato dei lupi in lontananza a casa di una tua prozia al limitare del deserto, stesi in terrazza con le stelle così vicine che sembravano caderti addosso, il rumore delle onde a Melilla che ti faceva paura, quando la corrente ti spinse via e temesti di morire, quando scappasti via dalla polizia e temesti di morire, quando a volte ti svegliavi di notte e temevi di morire, c’era un buco di proiettile nella finestra del salotto, lo fissavi, Boubakar borbottava nel sonno. Uno strappo, come di un tessuto dilaniato, ma dentro, all’altezza dello sterno. Ti faceva sentire di essere e non essere lì, in quel momento in cui sognavi l’altrove. Un’inquietudine, come uno spirito, che ti si poggiava sul petto la notte quando pensavi al giorno in cui te ne saresti andato, quando pensavi a come sarebbe stata la tua vita lontano da casa, che avresti chiamato casa un altro luogo, un altro letto, altre pareti. Lo volevi, lo volevi, lo volevi ti dicevi, mi dicevo, perché eri – dovevi essere – speciale – per esistere.
[da Tangerinn di Emanuela Anechoum, edizioni e/o, 2024]
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