27/12/2013
Adesso non è semplice seguire un ordine logico o cronologico. Muoversi per Londra significa comunque e sempre ripercorrere le orme di Holmes, Watson e Doyle. Non c’è strada della City o dei quartieri dei dintorni nei quali lo scrittore scozzese e le sue due creature letterarie più note e citate non siano passati, anche di fretta, almeno per una volta. E allora dare scansioni temporali o accennare ai percorsi che in un dato giorno abbiamo deciso di seguire sarebbe fare un vuoto esercizio di diaristica. Quello che conta, adesso, sono solo le emozioni. Intendo raccontare quelle magari solo accennando – e forse anche tralasciando – alcuni luoghi che sherlockiani lo sono e che un rimando alle storie narrate da Doyle lo hanno, ma che non hanno avuto su di me la forza di sprigionare il battito del cuore, la commozione, il sogno. È così ad esempio per lo “Sherlock Holmes Pub” di Northumberland Road. Un luogo caratteristico e al tempo stesso canonico. Dove ora sorge il pub, infatti, aveva sede il Northumberland Hotel in cui soggiornarono Sir Henry Baskerville e il dottor Mortimer, prima di partire alla volta del Dartmoor (vedi La maledizione dei Baskerville). Sì, caratteristico e canonico. Nel locale si mangia e si beve birra, naturalmente. Ma il pezzo forte è la collezione di oggetti, tutti riferibili a Sherlock Holmes e alla sua epoca, che fu acquistata in blocco nel 1957 quando rientrarono a Londra dopo il tour mondiale del “Festival of Britain”. Rimanere insensibili non è possibile. Il fascino di fine Ottocento è avvolgente. Tanto più al primo piano, nella sala ristorante, dove si fa apprezzare una bella ricostruzione del salotto di Holmes e Watson (a mio giudizio migliore di quello ricostruito nella casa di Baker Street). Tuttavia – e il problema forse è sempre il solito, vale a dire il flusso di persone e un certo sapore di attrazione turistica – qui non ho sentito palpitare il flusso di emozioni che ho provato altrove. Insomma, questa è una tappa obbligata per chi viene a Londra spinto dalla passione per Sherlock Holmes, ma a mio avviso non è questo il luogo dell’anima sherlockiana.
Dove tutto cominciò – Per restare in tema di ristoranti, emozioni forti le ho provate, invece, al “Criterion” di Piccadilly Circus. Sarà per l’insegna che è rimasta quella di fine Ottocento, sarà per l’animazione della piazza che, chiudendo gli occhi, evoca il caos cittadino descritto da Watson in molti dei suoi racconti, sarà per la gentilezza della direttrice di sala, fatto sta che il “Criterion” mi è davvero rimato scolpito nella mente e nel cuore. Ed è incredibile da dirsi, dal momento che le aspettative del mio pellegrinaggio non sono state ripagate completamente. Ma andiamo con ordine. Inizierò rispondendo alla domanda che, lo sento, vi state facendo: Che ha di tanto importante il “Criterion”? Perché tante svenevolezze per un ristorante? La risposta è semplice: è qui che si svolge l’antefatto della prima avventura di Sherlock Holmes. Basta leggere – o rileggere – le prime due pagine di Uno studio in rosso per averne conferma. Watson è reduce dalla guerra afgana. Gravemente ferito a Maywand e ormai convalescente scampato alla dissenteria, è rientrato in Inghilterra con il congedo e una misera pensione in tasca. È arrivato a Londra senza un’idea precisa circa il suo futuro. Prende alloggio in un albergo dello Strand, ma dopo poco si rende conto che così conduce una vita troppo dispendiosa. È il momento di cambiare vita. E mentre è seduto al “Criterion Bar” ecco che incontra Stamford, un infermiere che era stato alle sue dipendenze al St Bartholomew’s Hospital. Watson confida all’amico che avrebbe bisogno di una casa da affittare ad una cifra ragionevole. E Stamford gli rivela che anche un altra persona, un tipo strano e bizzarro, ha lo stesso problema e cerca un coinquilino con cui dividere la spesa. Così, quello stesso giorno, ecco che Watson incontra Sherlock Holmes e i due, con una stretta di mano, sanciscono la decisione di prendere in affitto l’appartamento al 221B di Baker Street. Dunque, è impossibile rimanere insensibili a questo luogo. Perché proprio qui, sebbene lui non ci abbia mai messo piedi, è cominciata la saga di Holmes. E i frequentatori dell’elegante sala ristorante del “Criterion”, anche se digiuni delle opere di Doyle, non potranno non saperlo dopo aver pranzato ai suoi tavoli. Perché in quella sala, a perenne ricordo dell’incontro tra Watson e Stamford che è stato il principio di tutto, c’è una targa commemorativa che li informa puntigliosamente. E lo confesso, anch’io sono arrivato al “Criterion” per vedere quella targa. Quindi, dopo aver inghiottito il primo fiotto di emozioni, lascio moglie e figlie a girovagare per Piccadilly Circus ed entro all’interno del ristorante di gran carriera. Mi guardo intorno, sperando di imbattermi nella figura “magra come un’acciuga e nera come una castagna” del dottor Watson che centellina un bicchierino di whisky. Ai tavoli in vista, però, Watson non c’è. Né ci sono Stamford o qualche altro personaggio di epoca vittoriana. Ci sono, invece, molti uomini in giacca e cravatta scura che sorseggiano caffè e tè e parlano sottovoce. E solo adesso mi accorgo che alla mia sinistra, a non più di due passi di distanza, una giovane donna elegante e sorridente mi guarda incuriosita. È al di là di un banchetto, occupato quasi per intero da un grosso registro. Ho la testa talmente ingombra di sogni che ci metto qualche secondo a intuire che la giovane signora sorridente è la direttrice di sala. Tornato finalmente lucido, mi avvicino e le chiedo di poter dare un’occhiata alla targa che celebra l'incontro di Watson e Stamford. Lei, sconsolata, mi risponde che non è possibile. La sala è occupata da un convegno importante e non è consentito entrarvi. Lì per lì penso di non aver capito bene – il mio inglese lascia molto a desiderare – e ripeto la mia richiesta, scandendo bene i nomi di Sherlock Holmes, del dottor Watson e di Stamford. E lei, ancora più contrita di prima, e con quel tono impersonale ma caldo di governanti viste in tanti film, replica di aver capito, ma purtroppo non può far altro che ripetermi che non può soddisfare la mia richiesta. La ringrazio comunque e, amareggiato, mi avvio verso l’uscita. Non so che espressione avessi dipinta sul viso quando l’ho ringraziata, o che tono avesse la mia voce. Fatto sta che, inaspettatamente, alle mie spalle la direttrice richiama la mia attenzione, pronunciando un “mister” pieno di eleganza. Le rivolgo uno sguardo interrogativo e lei, con un semplice sguardo mi invita a seguirla. Mi accompagna fino ad un angolo da dove, senza disturbare il convegno, mi indica il punto esatto della parete su cui è affissa la targa. Non posso leggerla, è ovvio, ma in quel momento mi rendo conto che l’obiettivo è raggiunto. In fondo, l’importante non sono le parole incise su quella placca metallica, ma vedere il luogo esatto dove Watson incontrò l’amico che lo mise in contatto con Holmes. E d’incanto divento raggiante. Come davvero vedessi, lì a pochi passi da me, il buon dottore e Stamford discutere e prendere accordi per quello che poi sarà l’incontro decisivo per la sua vita e per quella dei suoi lettori. Non so se, andandomene, sono riuscito a ringraziare abbastanza quella donna che non ha mai smesso di sorridermi.
Il “Bart’s” – Seguendo il flusso delle emozioni e, lo ripeto, non quelle delle date in cui le visite sono avvenute, non posso che adeguarmi alle scansioni temporali che ormai mi impone il primo capitolo di Uno studio in rosso. E così, dopo la sosta al “Criterion”, non può che seguire la tappa al St Bartholomew’s Hospistal. È la continuazione ideale di questo viaggio dell’anima. Al Bart’s, come i londinesi chiamano affettuosamente questo ospedale, arriviamo dopo essere scesi alla stazione della metropolitana di Farringdom. Percorrendo Peter’s Lane ci pare quasi di precipitare indietro nel tempo. Le costruzioni di mattoni scuri che venivano prodotti nelle fornaci della non lontanissima Brick’s Lane, nel cuore dell’East End, portano alla mente immagini, descrizioni e sensazioni che abbiamo visto, letto e vissuto scorrendo le pagine di libri o guardando film ambientati nella Londra vittoriana. E quando la strada sfocia nella caratteristica galleria metallica dello Smithfield Market il presente, per un momento, non esiste più. E infine, usciti da questo antico mercato, ecco profilarsi una delle facciate del Bart’s. C’è ancora da percorrere qualche centinaio di metri, ma il colonnato che sorregge il frontone, dietro al quale si apre uno degli accessi all’ospedale, lo riconoscerei anche ad occhi chiusi, tante volte l’ho visto in una serie di fotografie che ho raccolto sul web e grazie alla generosità di alcuni amici. Mi elettrizza pensare che in uno dei laboratori di chimica di questo ospedale – il più antico di Londra, sopravvissuto sia al grande incendio del 1666 sia alle bombe della Seconda guerra mondiale – Sherlock Holmes e il dottor Watson si incontrarono per la prima volta. E rivivo, come in un flash black, il momento delle presentazioni e sento la voce stridula di Holmes che, in poche battute, classifica con sicurezza Watson come ex medico militare che ha servito in Afganistan. Insomma, un’entrata in scena trionfale, quella del detective. Senza contare che questa prima conoscenza ci rivela la sua passione per la chimica, per i fatti di cronaca criminale e per la soluzione degli enigmi. Lo confesso, provo un brivido a guardare da vicino la facciata di quest’ala dell’ospedale. Perché immagino che anche adesso, al di là essa, Holmes sia curvo sul microscopio, oppure stia agitando una provetta per appurare il potere di un nuovo reagente a contatto con l’emoglobina. È un brivido intenso che solo un clamore inaspettato riesce a sopire. Sulla strada, alle mie spalle, un gruppo di scozzesi abbigliati con il tradizionale kilt avanza cantando a squarciagola. Per un momento, resto confuso. Certo, è il giorno della grande sfida di calcio tra Inghilterra e Scozia, ma lo stadio di Wembley, ne sono sicuro, è da tutt’altra parte. Mi passano vicino e si assiepano tutti alla mia destra, a circa dieci passi da dove mi trovo. Come per magia, i canti cessano all’unisono. Qualcuno si fa il segno della croce. Altri si chinano a terra per depositare un mazzo di fiori. E c’è chi lascia un kilt tirato fuori da uno zainetto, una bottiglia di birra, una tipica borsetta pelosa scozzese. E d’un tratto, finalmente, capisco. Sono qui per rendere omaggio alla memoria di Sir William Wallace, il patriota scozzese la cui condanna a morte fu eseguita, nel 1305, proprio in questa sorta di piazza, nei pressi del St Bart’s. E a fianco delle colonne, infatti, sulla facciata dell’ospedale si trova una grande lapide commemorativa a lui dedicata. È davanti ad essa che gli scozzesi stazionano in silenzio, commossi. E io, muto ed emozionato, torno con lo sguardo dritto davanti a me, a guardare la scalinata, il colonnato e la porta d’ingresso di questa ala del Bart’s. E rimaniamo lì, fermi, ignorandoci. Loro per rendere omaggio all’eroe nazionale di Scozia. Io per rivolgere un pensiero di ammirazione e gratitudine al mio eroe letterario.
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Nato a Siena nel 1964, vive a Prato dall’età di quattro anni. Prima cronista sindacale e politico per diverse testate, poi direttore di un settimanale economico locale, oggi lavora in un ufficio stampa istituzionale. A trent’anni la riscoperta di Sherlock Holmes: la particolarità del personaggi, una concezione del mondo e della vita, l’epoca storica in cui si svolgono i fatti lo affascinano al punto che, quando incontra “Uno studio in Holmes”, l’associazione degli scherlockiani italiani, non può che lasciarsi coinvolgere. Sulla rivista dell’associazione, “The Strand Magazine”, di cui oggi è direttore responsabile, ha pubblicato quattro racconti. Il palio di Sherlock Holmes è il suo primo romanzo.
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