25/11/2013
Dopo il lungo giro nella New Forest e dopo una giornata di lento trasferimento attraverso la bella campagna inglese, questo è il giorno della visita al Dartmoor National Park, nel Devon. È il 4 agosto. Ci siamo svegliati con un po’ di nuvole non preoccupanti. Però, a metà del percorso verso il Dartmoor comincia a piovere. E in questa zona, stando alle condizioni del terreno ai lati della strada, piove almeno da diverse ore. Va bè, andiamo comunque avanti. E finalmente eccolo il Dartmoor, una landa desolata, contraddistinta dalla famosa brughiera inglese: felci, erica, ginestre, torbiere e zone paludose, quasi totale assenza di alberi. E spersi in tutta la landa rovine di chiese, Tor preistorici e di epoca sassone, massi che spuntano magicamente dal terreno. Purtroppo, penso guardando il cielo, la pioggia la fa da padrona. Non è una pioggia battente. A tratti concede anche un po’ di tregua. Ma il Dartmoor, soprattutto per i luoghi che sono interessato a visitare, ha bisogno di sole. Troppo pericolosi, altrimenti, certi tratti di strada e, soprattutto, troppo pericolosi i sentieri da percorrere a piedi, i soli a raggiungere i luoghi brulli e impervi della regione in cui Doyle ambientò, oltre al racconto Silver Blaze, il romanzo più famoso della saga di Sherlock Holmes, a tutti noto col titolo Il mastino dei Baskerville.
Un titolo sbagliato – Gli holmesiani italiani considerano il titolo proposto dalle più importanti traduzioni nostrane del tutto errato. Il titolo originale, “The hound of the Baskerville”, tradotto alla lettera sarebbe “Il segugio dei Baskerville”. Segugio, non mastino. Perché se Doyle avesse voluto indicare un mastino avrebbe usato la parola inglese “mastiff”. Noi preferiamo “La maledizione dei Baskerville”, titolo con cui la Domenica del Corriere, nei primi anni del 1900, propose a puntate questa incredibile e bellissima avventura di Holmes.
Un paesaggio gotico – Appena inoltrati nel Dartmoor, in direzione di Two Bridge, Postbridge e Princetown, dove la vecchia colonia penale è oggi un museo, ci troviamo fagocitati dentro l’ambientazione gotica che Doyle utilizzò per raccontare la sanguinosa vicenda dei Baskerville. Il cielo è cupo, pieno di nuvoloni grigi e neri, pioviggina e, a tratti, la nebbia nasconde un rilievo in lontananza (“…una collina melanconica e grigia…”, scrive Watson), la bassa vegetazione che punteggia all’infinito l’ondulato territorio rossiccio che ci circonda, i rari alberi che, strapazzati dall’inclemenza secolare del clima, sono bassi e contorti. Il rosso che caratterizza il terriccio colora anche i corsi d’acqua. Il torrente che corre sotto l’antico antico ponte di Postbridge (un masso piatto adagiato su massi che costituiscono i piloni), grigio cupo a guardarlo da lontano, rimanda dalle rocce e dalla vegetazione del fondale ampie chiazze rossastre. È il fango che deposita questa terra ricca di ferro. Ma suggerisce, per chi è suggestionato da romanzi e leggende, che possa essere l’indizio di una carneficina. Il sanguinario scempio del terribile cane che ha sconvolto la vita degli abitanti di Baskerville Hall. O forse, come vuole la leggenda più popolare del Devon che ispirò il romanzo di Doyle, a colpire è stata un’inferocita muta di cani, guidati dallo spettro del nobile Richard Cabell, signore di Buckfastleigh, carnefice della propria moglie e condannato, dopo la morte, a vagare per queste lande quasi disabitate. E sì, visto così il Dartmoor è un luogo che incute timore. E non so immaginare scenario migliore per un racconto gotico, qual è quello dei Baskerville, che parla di omicidi, misteri e sfiora il confine del racconto del terrore. E si capisce perché questa terra abbia una lunga tradizione di leggende terrificanti. Leggende che Doyle conosceva, avendo qui trascorso, nel 1901, un periodo in cui si dedicò alla ricerca delle location adatte all’ambientazione del suo romanzo. Sì, le descrizioni del paesaggio che Watson pennella nel corso della vicenda sono esattamente le immagini che scorrono davanti ai nostri occhi. E, come Watson, mi sento a disagio. Perché questa desolazione che abbraccia da ogni lato produce un’inquietudine che serpeggia sottopelle e, a volte, fa accelerare il battito del cuore.
I luoghi dove latrava il cane – Da Two Bridge e Postbridge raggiungere i luoghi del romanzo, quei luoghi dove latrava il cane spaventoso e gigantesco dei Baskerville (probabilmente un Blood Hound), non sarebbe difficile. Certo, se non piovesse. Se il terreno non si fosse trasformato in una immane landa fangosa sulla quale si scivola a ogni pie’ sospinto. Perché, in effetti, per raggiungere Fox Tor Mire (nel libro Grimpen Mire), e Bellever Tor (Lafter Hall nel romanzo) basterebbe coprire poche miglia. Tuttavia muoversi con il camper, per quanto sia di dimensioni ridotte, è un’ipotesi impraticabile. Le strade che si avvicinano a queste località sono strettissime e man mano che si avanza diventano sterrate. Con questo tempo, dunque, non è affidabile avventurarsi su un percorso così accidentato. E poi, anche se giungessimo al termine della strada, resta il fatto che a piedi non potremmo percorrere il tratto mancante per arrivare a destinazione. Il fango, infatti, rende già confusi anche i sentieri che partono da questi piccoli villaggi. E nell’interno, dove le felci cariche d’acque si piegano fino ad adagiarsi a terra, perderne la traccia sarebbe questione d’un attimo. E poi ci sono le torbiere, che nascondono insidie che si percepiscono con una qualche sicurezza solo con il bel tempo. Il rischio è quello di sprofondare in zone melmose e paludose e di trasformare una vacanza in una brutta avventura. Ma se chiudo gli occhi, nella vastità del silenzio interrotta solo dall’alito di un vento leggero, lo sento il rabbrividente latrato del cane. E vedo i suoi “occhi fiammeggianti” incenerire l’intera regione. E vedo il buon dottor Watson che a Grimpen Mire discorre con il naturalista Stapleton. E sulla sommità “di un pinnacolo dentellato di una guglia granitica”, sotto la luna, intuisco la figura allampanata di Holmes. Sono sensazioni forti e terrificanti a un tempo ma, per me, bellissime. Dunque, va bene così. Mi accontento di aver respirato dal vero le emozioni e le suggestioni che il romanzo di Doyle è capace di evocare. Senza troppi rimpianti, perché mi chiedo se una giornata assolata, in fondo, avrebbe saputo regalarmi lo stesso stupore e lo stesso grumo di belle sensazioni che avverto. Forse, come dice mia moglie, il paesaggio non ci sarebbe parso così aspro, avverso e pauroso come Doyle ce lo ha raccontato. E credo proprio che abbia ragione. Benedette la pioggia e la nebbiolina, allora. Almeno, per questa volta.
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Nato a Siena nel 1964, vive a Prato dall’età di quattro anni. Prima cronista sindacale e politico per diverse testate, poi direttore di un settimanale economico locale, oggi lavora in un ufficio stampa istituzionale. A trent’anni la riscoperta di Sherlock Holmes: la particolarità del personaggi, una concezione del mondo e della vita, l’epoca storica in cui si svolgono i fatti lo affascinano al punto che, quando incontra “Uno studio in Holmes”, l’associazione degli scherlockiani italiani, non può che lasciarsi coinvolgere. Sulla rivista dell’associazione, “The Strand Magazine”, di cui oggi è direttore responsabile, ha pubblicato quattro racconti. Il palio di Sherlock Holmes è il suo primo romanzo.
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