10/03/2015
Mario Luzi rappresenta una delle voci più significative della poesia del Novecento. Un poeta che nell’arco di ben 70 anni (pubblica la prima raccolta La barca all’età di 21 anni) ci ha offerto una produzione poetica davvero cospicua, contrassegnata da una cifra espressiva alta, intensa. Una poesia che nasce ermetica (con il libro Avvento notturno uscito nel 1940 Luzi viene accreditato tra i poeti più rilevanti dell’Ermetismo) e che lungo il tempo avrà un graduale processo di ‘semplificazione’ in cui certe iniziali oscurità dell’espressione ermetica lasceranno spazio al recitativo, alla cantabilità, alla colloquialità del verso. Una poesia che pur tuttavia non perde di complessità (in contenuto e forma) per come sia tormentata, intensa, percorsa da continui interrogativi tesi a cogliere il mistero dell’esistenza umana, il continuo divenire della vita e della morte. Una poesia che di continuo scandaglia la condizione dell’essere umano: esaltante nei suoi aspetti più luminosi e vitali di compartecipazione al mondo e al creato; sofferta per i suoi lati oscuri, enigmatici, contraddittori.
Temi, questi, che arrovellarono Luzi fino al giorno prima della sua morte. Ne abbiamo, infatti, una testimonianza letteraria toccante, commovente. L’ultimo suo testo che fece trascrivere (rendendolo così definitivo) proprio la sera antecedente la sua dipartita.
Il termine, la vetta
di quella scoscesa serpentina
ecco, si approssimava,
ormai era vicina,
ne davano un chiaro avvertimento
i magri rimasugli
di una tappa pellegrina
su alla celestiale cima.
Poco sopra
alla vista
che spazio si sarebbe aperto
dal culmine raggiunto...
immaginarlo
già era beatitudine
concessa
più che al suo desiderio al suo tormento.
Sì, l’ immensità, la luce
ma quiete vera ci sarebbe stata?
Lì avrebbe la sua impresa
avuto il luminoso assolvimento
da se stessa nella trasparente spera
o nasceva una nuova impossibile scalata...
Questo temeva, questo desiderava.
L’essenza eterna delle cose Ecco, quei versi andarono a sigillare non solo la fine di una vita, ma, ancor di più, la conclusione di un percorso poetico instancabilmente contrassegnato dal dubbio, dalla domanda, dall’invocazione, dalle ombre e dalla luce, dalla ricerca dell’essenza eterna delle cose. Quello stesso sublime tormento che Luzi aveva trasferito nel Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, laddove in una sorta di cammino penitenziale ed iniziatico, si cercava di ricomporre, in parole nuove, tutti i contrari dell’esperienza umana: vita-morte, eternità-finitezza, sogno-realtà, la concretezza e l’insondabile, la vita e l’arte. La poesia di Mario Luzi ha continuamente indagato questi opposti, intendendo fare che ebbe a scrivere nella premessa al Libro di Ipazia. Un testo teatrale ispirato, appunto, alla vicenda di Ipazia, donna vissuta tra il 300 e 400 ad Alessandria d’Egitto, matematica, astronoma e filosofa; rappresentante della filosofia neo-platonica pagana, la sua uccisione da parte di una folla di cristiani in tumulto, l’ha resa una “martire del paganesimo” e della libertà di pensiero. Luzi nell’introduzione a quel suo testo teatrale scrisse che intendeva, attraverso quelle pagine, “attivare dei punti di assillo e di sofferenza presenti anche se latenti nel tempo e nell’umano. Come fontane che riprendessero a versare acqua, o piaghe a sanguinare”. E tutta l’esperienza intellettuale e poetica di Mario Luzi ha mirato ad attivare, giustappunto, quegli elementi di assillo e di sofferenza presenti nel tempo e nell’umano. Ebbene, per compiere questa tormentata operazione dell’intelletto e dell’anima egli privilegia un “luogo” geografico ben preciso, trasfigurandolo in simbolo, metafora, allegoria: la terra toscana. Poiché – lo annotò anche Lorenzo Mondo all’indomani della sua morte – Luzi “va disegnando così un universo purgatoriale di ombre ansiose in paesaggi aspri e desolati (la sua terra toscana, pur prodiga di dolcezze) dove agisce la lezione dell’onnipresente Dante e di Eliot”. Del resto Luzi – e qui fu Andrea Zanzotto ad affermarlo – è da ritenersi “grandissimo poeta del paesaggio e del dramma che la natura porta con sé e dell’uomo che vive in questa dimensione”. Così come – secondo Alberto Asor Rosa – la poesia luziana esprime una specie di “universale panpsichismo” che si manifesta proprio attraverso “l’energia affettuosa e in ultima analisi tutta mondana con cui Luzi ha cantato fino all’ultimo terre e paesaggi della sua Toscana”. Quindi, a questo pensiero, a questa riflessione, a questo sguardo sulla condizione umana, Luzi ha dato un luogo (vero e allo stesso tempo trasfigurato): il paesaggio delle terre toscane. Che – attenzione! – non è un mero fondale, semplice scenario teatrale, ma è attore co-protagonista, interlocutore di domande assolute, estreme. Un paesaggio allegoria di quei temi che hanno attraversato costantemente la poesia luziana. Primo fra tutti – come ricordavamo prima – il continuo divenire dell’universo nella sua osmosi drammatica e stupefacente di vita e di morte, di luce e di ombre, di creato e di ancora incompiuto.
Terra matria Quel paesaggio, sebbene oggettivo, reale, nella sua evidenza di natura, di cose e di umanità, per Luzi è innanzitutto un paesaggio morale, intellettuale, spirituale. Il poeta sente che lì sono radicate le sue origini. Non a caso conierà un termine denso di significato: la parola “terra matria”, per dire che quella terra gli è, allo stesso tempo, madre e patria. Dunque terra materna e natìa. Ad indicare, cioè, qualcosa di intimo e di tenero: una protezione, un covo di luce e di oscurità insieme (come è giustappunto il grembo materno). Perché “il sentimento della maternità e della femminilità non è solo quello che consola, addolcisce la vita, che protegge, che dà la nascita e forse pure la morte, ma è anche il deposito vero e reale del rapporto tra l’uomo e la natura e l’universo. Terra matria, allora, perché la terra è madre, perché la madre è terra”. Se noi andiamo a rileggere la raccolta Dal fondo delle campagne (1965), fortemente sollecitata dal ricordo della madre scomparsa e imperniata sull’esigenza di tornare alla profondità delle origini, troviamo versi in cui quella terra dice al poeta: “Guardami, sono la tua stella”; e il poeta quasi risponde confidando che tutti gli anni della vita vissuti fino ad allora “cercano / qui più che altrove il loro cibo, chiedono / di noi, di voi murati nella crosta / di questo corpo luminoso. E seguita, / seguita a pullulare morte e vita / tenera e ostile, chiara e inconoscibile”. Luzi, quando parlava delle terre toscane gli veniva da nominarle come “mia stella”, “mio luogo”, “mia storia”. Ma si faceva anche una domanda: sono mie appropriazioni o sono io che vengo come “riconosciuto” da quella terra? E a tale domanda si dava una risposta dicendo che esisteva una reciprocità e che lui aveva sentito il bisogno di “ubicarsi” là, di abitare con l’anima in un “luogo perenne”. Accade, pertanto, che quei luoghi, pur nella loro specifica connotazione, attraverso la scrittura di Luzi si spalanchino all’universalità: ne assumano l’afflato, il mistero, l’enigma, la complessità, la tenerezza, il tormento, la rivelazione.
Paesaggio come assenza di cose Del resto egli sosteneva che mentre altrove il paesaggio è tutto “nelle cose”, il paesaggio toscano ha invece la sua principale consistenza nella mancanza, nella “assenza di cose”, quasi a scoraggiare il moto istintivo dell’uomo che sarebbe quello di avere, di acquistare, di possedere. E portando ad esempio i paesaggi delle Crete senesi, della Val d’Orcia, diceva: noi osserviamo quei profondi cretti di argilla e non ne ritorniamo “colmi”, quanto, piuttosto, prosciugati. Quella natura non regala cose da portare via, ma purifica, rende aperti ad altro. “Si spalanca ai nostri occhi una terra smarginata, da decifrare, dove ci viene pur spiegato che l’assenza è intrinseca alle cose, alle forme; non di rado qualificate proprio dal loro ‘vuoto’. Una terra che, d’altro canto, consola perché rivela la pienezza che le lacune hanno tratto a sé. Dunque una visione che aiuta a riformulare la perdita in speranza, l’assenza in ricongiungimento. E accade una cosa sorprendente. Il paesaggio che prima appariva mutilato, manchevole, disabitato da ogni ragione, inaugura finalmente un significato nel nostro intimo. Materia e natura, solcate da quel nuovo senso, sembrano reinventarsi. Così non sono soltanto ricordo di ciò che non c’è più, ma anche futuro, profezia”. Proprio in tema di ricordo, Luzi sviluppava un’altra suggestiva riflessione: la differenza che esiste tra ricordo e memoria. Di ricordi legati alla visione di questo paesaggio – diceva il poeta – io ne ho molti, perché ci passavo spesso da ragazzo. Però in quel paesaggio si percepisce più la memoria che il ricordo, perché c’è qualcosa dell’umanità che lì respira e che passa attraverso di noi. E’ la storia dell’uomo che ha la prevalenza su quella individuale. Tutto ciò Luzi lo ha cantato in ripetuti versi. Merita richiamarli per lo meno alcuni [“Dalla torre” in Dal fondo delle campagne, 1962]:
Questa terra grigia lisciata dal vento nei suoi dossi
nella sua cavalcata verso il mare,
nella sua ressa d’armento sotto i gioghi
e i contrafforti dell’interno, vista
nel capogiro degli spalti, fila
luce, fila anni luce misteriosi,
fila un solo destino in molte guise,
dice: “guardami sono la tua stella”
e in quell’attimo punge più profonda
il cuore la spina della vita.
Questa terra toscana brulla e tersa
ove corre il pensiero di chi resta
o cresciuto da lei se ne allontana.
Tutti i miei più che quarant’anni sciamano
fuori del loro nido d’ape. Cercano
qui più che altrove il loro cibo, chiedono
di noi, di voi murati nella crosta
di questo corpo luminoso. E seguita,
seguita a pullulare morte e vita
tenera e ostile, chiara e inconoscibile.
Tanto afferra l’occhio da questa torre di vedetta.
Il poeta della parola Ricordo che nel corso di un incontro con gli alunni di un liceo, una studentessa chiese a Mario Luzi cosa fosse la poesia. Davvero folgorante fu la risposta: la poesia è come la luce; noi, in realtà, non vediamo la luce, ma le cose che essa illumina. Così accade per la poesia: la conosciamo attraverso ciò che essa ci rivela. Ma è indispensabile la ‘parola poetica’, che è l’ultimo stadio del ‘dicibile’, che vive nell’estrema regione di confine tra il detto e l’indicibile. Il poeta – sosteneva Luzi – è colui che sa afferrare la parola giusta per dire anche ciò che è inesprimibile, per dire ciò che, magari, fino a quel momento non aveva un nome. La parola poetica è ciò che a un certo punto battezza quanto noi – nella nostra sfera intellettuale, sentimentale, emotiva – fino ad allora non eravamo riusciti a chiamare con il nome appropriato, a definire, a esternare. Ecco la vocazione del poeta, il suo ‘servizio’: essere lo scriba dell’indicibile, del non-ancora-detto. Di tutto ciò Mario Luzi ne era pienamente consapevole, ed esiste, a tale proposito, un suo testo che ne è stupenda testimonianza; con quell’incipit (“Vola alta parola”) che risuona al pari di una fervida invocazione liturgica. In questa lirica il poeta esorta la parola, strumento e sostanza della scrittura poetica, a volare alta, a toccare gli estremi opposti (nadir e zenith, i poli diametralmente opposti dell’orizzonte), a espandersi in tutta la sua forza, a rivelare tutte le sue potenzialità, ad attingere gli infiniti significati (significazioni) che le sono propri: potrà, in tal modo, risultare uno strumento d’indagine sulle cose e sulle anime. Nell’ultimo verso, ancora una volta si pone un doppio interrogativo. La natura della poesia sarà raggiungere l’essenza più profonda (l’anima) delle cose e dell’uomo? O semplicemente esprimerne la sofferenza? L’enigma resta e da qui la preghiera del poeta: che, per lo meno, la parola non lo dimentichi, conservi il ricordo e il respiro di lui, una traccia calda della sua presenza.
Vola alta, parola, cresci in profondità,
tocca nadir e zenith della tua significazione,
giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami
nel buio della mente –
però non separarti
da me, non arrivare,
ti prego, a quel celestiale appuntamento
da sola, senza il caldo di me
o almeno il mio ricordo, sii
luce, non disabitata trasparenza...
La cosa e la sua anima? o la mia e la sua sofferenza?
[da Per il battesimo dei nostri frammenti, 1985]
Già l’intensità di un testo come questo ci fa comprendere il livello di riflessione, la capacità di scavo intellettuale, l’altezza della cifra espressiva di Luzi, che lui applicò non solo alla forma poetica. Basti pensare ai testi scritti per il teatro, alle prose, a certe pagine di critica, ai suoi pronunciamenti civili, alle traduzioni. A come volle condividere con tutti la ricchezza (il dilemma) di quella sua riflessione.
Intervento di Luigi Oliveto letto il 7 marzo 2015 a Pelago (Fi) in occasione di un convegno sulla figura del poeta.
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Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...
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