“Storia di mia vita” di Janek Gorczyca non è un romanzo, ma si legge come se lo fosse. L’autore è un senzatetto, ma non un barbone. Lavora come fabbro, ha una compagna e un cane. È un polacco di 62 anni arrivato in Italia nel 1998, dopo aver assistito alle vicende politico-militari dell’Afghanistan, alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, alle lotte per la nascita della nuova Polonia. Da oltre trent’anni vive a Roma, senza fissa dimora, privo di documenti, ma mai di qualcosa da bere. Parla a suo modo diverse lingue. Capace di violenze (è stato anche in carcere) ma sempre pronto a gesti di generosità. A un certo punto Janek ha deciso di raccontare questa sua vita insolita: ha preso carta e penna, e a mano, in stampatello, ha scritto direttamente in italiano un centinaio di pagine. Una lingua che – come per tanti altri stranieri – è stata appresa come ‘lingua di servizio’, utile alla sopravvivenza, a parlare con chi ti può aiutare o fregare, quella con cui – e capita frequentemente – riuscire ad argomentare le tue ragioni, magari quando non ce l’hai. Una lingua imparata a orecchio, scorciata, pronta all’uso e alla fretta di dire, di farsi intendere. Poi ci ha pensato la vita a incrementare, insieme alle rogne, anche il vocabolario: di bega in bega, sbornia dopo sbornia, da un sentimento all’altro (rabbia, disperazione, amore). Certo, una lingua che resta pur sempre sgrammaticata, ma perfetta per raccontare un’esistenza impervia. Insomma, il racconto di una vita sghemba non poteva che avere una scrittura altrettanto incerta, e il risultato narrativo c’è. Così che una modesta autobiografia sortisce effetti romanzeschi. Senz’altro lo aveva capito chi, con lungimiranza editoriale, ha convinto Janek a mettere per iscritto le sue vicissitudini. Va da sé che il libro racconta di riflesso pure il mondo dei cosiddetti ‘invisibili’, che, laddove si fanno visibili, destano paure, disagio, razzismo e tutto il repertorio di luoghi comuni reperibili in un qualsiasi Bar Italia. Ma – preme ripeterlo – l’interesse che suscita il libro di Janek Gorczyca sta innanzitutto nella lingua adoperata, che di per sé è già racconto, messaggio umano e politico: perché raccontare la propria vita in una lingua che non è la tua, significa voler condividere sé stessi in una reciprocità secondo cui, vivaddio, non sappiamo più chi sia straniero a chi.
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Questo sarà un breve racconto di mia esperienza sulla vita per la strada. Tutto comincia nel 1998 di ottobre, io sto in una stanza a Campo dei fiori, contratto di lavoro scaduto, permesso di soggiorno uguale, ho un milione e mezzo di lire in tasca, e penso come riprendere tutto, ma non è facile.
Per carattere mio quando mi annoio decido di cercare amici di vecchia data, e un pomeriggio vado a Montesacro, perché sapevo che c’è qualcuno che lì chiede elemosina al semaforo e anche sotto la chiesa. Infatti li trovo. Trovo tutti a piazza Primoli accampati di giorno nel parco (dove è il mercato di martedì e di sabato) e di notte dormono sotto il negozio ex Levis di fronte all’ex Gs (adesso Carrefour) sopra i cartoni. La mattina caricano tutte le coperte sui carrelli di spesa e vanno nel parco. Vivono di elemosina sia per la strada che davanti alla parrocchia. Gente del quartiere gli dà una mano. Il vino è onnipresente, la sera gli portano cena da tavola calda tutto quello rimasto da pranzo nel posto dove era proprietario Mimmo (adesso è in mano dei cinesi). Comunque decido di fermarmi qualche giorno. Subito la gente che mi sta aiutando si interessa di me per varie ragioni, il mio italiano, il mio comportamento. Parlando esce fuori che mestiere mio è il fabbro. Mi accompagnano in una officina vicino, da Gino. Lui sorpreso dal mio italiano mi assume.
Una sera di martedì passa comunque Comunità con panini e con occasione conosco Christian che all’epoca ancora studiava in università. Dopo pochi giorni conosco Marta perché venuta a trovare una amica, Alina, e nasce un sentimento. Marta anche lei rischia di rimanere per strada ma troviamo un posto per lei da una paesana sua a Due Ponti e in breve anche lavoro fisso come badante a Valle Aurelia. Insomma decido di vivere sta avventura che poi è diventata storia vera.
Di notte dormo su cartoni, mattina vado a lavorare. Gino è comprensivo. Lì nell’officina posso farmi la doccia. A novembre conosco guardiano di campo sportivo e così trovo possibilità che ogni mercoledì mattina la doccia la possono fare tutti che dormono con me. Così dura tutto fino a gennaio 1999. Mio datore mi indica la Torre ossia Villa Farinacci, che era residenza del capo di fascisti di Roma, adesso è monumento, e mi dice di occupare dicendo che così siamo più coperti e non diamo tanto nell’occhio. Detto fatto, una sera dopo aver fatto sopralluogo, ci trasferiamo. Ci aveva indicato uno mentre dormivamo nel parco, che faceva il fotoreporter, veniva con cane, un pastore maremmano che era un trovatello, veniva nel parco e così abbiamo una amicizia, e così mi ha detto come fare a occupare Villa Farinacci, che prima era vuota, era centro sociale che hanno sgombrato. Quando facciamo sopralluogo, vediamo un cancello, ma facendo io il fabbro per me non era un problema. Cambio la serratura, facciamo la pulizia, ci andiamo a dormire lì. Dal primo giorno rinuncio di nascondermi. A distanza di anni mi domando che cosa mi ha spinto di fare questa scelta difficile. Sentimenti? Ne ho pochi. Carattere ribelle? Mancanza di senso di responsabilità? Più probabile voglia di vita un po’ sbandata.
All’inizio siamo sette persone, una coppia di polacchi, una altra di ucraini e altri due polacchi, Dario e Josef. Ci organizziamo con letti, materassi, e con aiuto di volontari di un’altra parrocchia, che ci dà una cucina a gas. Abbiamo due cani e di conseguenza visto che vicino c’è un parco per cani comincio a fare amicizia con gente del parco. Acqua la portiamo dalla fontanella. Ovviamente la vita per strada comporta anche un’altra cosa. Per non pensare troppo si beve dalla mattina fino a sera tardi. Io stranamente ci riesco nonostante tutto a mantenere lavoro. Ogni giovedì mi incontro con Marta e anche ogni domenica. Ci sentiamo tutti i giorni per telefono e forse questo mi fa mantenere equilibrio.
Dopo un mese circa arriva una cosa inevitabile: visita della polizia. Ci portano tutti in ufficio stranieri, all’epoca a via Genova, ma dopo identificazione ci rilasciano. Per me è un avvertimento, così comincio a stringere più amicizie possibili con gente dei palazzi vicini. Ci riesco, e questo è un altro punto a favore del futuro.
In quel periodo mi sento importante, ormai ho preso questa strada di fare occupazione. Anche la gente del quartiere era contenta, che c’eravamo noi e non veniva gente per drogarsi scavalcando. Avevano anche fatto un buco della rete che io ho riparato. Un giorno arrivano cinque ragazzi italiani adolescenti, quattro ragazzi e una ragazza che si chiamava Debora, e mi chiedono se possono farsi un rifugio, io dico sì. Così il gruppo si va a ingrandire. In questo periodo siamo tutti in una sala che era la pizzeria quando Villa Farinacci era diventata un ristorante, La Torre. I ragazzi si prendono due stanze sopra dentro proprio la torre.
Purtroppo con l’arrivo di primavera cominciano sgomberi. Prima arrivano tre connazionali miei che li sgomberano da sotto il ponte vicino all’Aniene. Li accogliamo. Dopo, una sera quando ho finito lavoro incontro altri due che conoscevo. Sono andati in Polonia ma non hanno trovato niente e nessuno e sono ritornati tutti e due. Erano alcolizzati ma hanno smesso. Del resto io bevo tutti i giorni ma mi salva il lavoro e mia resistenza. Prendo anche loro, così diventiamo dodici. Uno di questi si chiama Stanislao e trova lavoro a Romagnoli Piscine. Stanislao lo avevo conosciuto nell’accampamento sulla Nomentana dopo Grande Raccordo, quando sono uscito dalla galera. Dopo siamo diventati amici fino alla fine sua.
Per qualche tempo tutto fila liscio, Comunità porta panini ogni martedì sera, ma a parte questo non sono in grado di dare una mano per lavoro o qualsiasi tipo di aiuto più efficace. Infatti mi sto domandando tutto sto tempo che questi stavano sotto pioggia al freddo sotto un pezzo di tetto e dormivano sopra cartoni, non potevate trovare un’altra soluzione? Per me due panini a settimana e domande cretine tipo «come stai» sono una umiliazione.
[da Storia di mia vita di Janek Gorczyca, Sellerio, 2024]
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