È raro leggere libri in cui la potenza dei sentimenti narrati trovi una lingua di pari forza. Accade nel romanzo “Splendi come vita” di Maria Grazia Calandrone (Ponte alle Grazie) dove una scrittura sicura, avvezza alla spoliazione che deriva dall’esercizio poetico, mantiene sempre teso il filo del racconto, il suo tormento. “Splendi come vita” è vicenda autobiografica – storia d’amore e disamore – ma scava a tal punto nella carne da diventare dolorosamente universale. È l’estate del 1965, una bambina di pochi mesi viene abbandonata su un prato di Villa Borghese a Roma. È il frutto di un adulterio, gli amanti non reggono l’impatto della ‘colpa’ e decidono di suicidarsi nel Tevere (vedere i giornali dell’epoca che riferiscono il fatto). La bambina, Maria Grazia, troverà una famiglia adottiva: madre insegnante, padre parlamentare e giornalista. La madre elettiva, che si chiama Consolazione, è bionda, accorta e premurosa. Ma, ad un certo punto, viene presa da “uno scrupolo decisamente precoce”, e quando Maria Grazia ha soli quattro anni, le dice della sua adozione. Per la piccola non ci sono problemi: “sembra che io abbia reagito alla Notizia gigantesca con maturità esemplare, abbracciando lei viva e presente (lei che sola, in effetti, constatavo, con salutare senso pratico) e rispondendo che Non ha importanza, Mamma sei tu.” Da quel momento, però, va in crisi la madre, fino a non credere più nell’amore della figlia, e – spiega l’autrice – “frattura su frattura, equivoco su equivoco, si arriva a una distanza siderale fra le due, a un quotidiano dolore, a un quotidiano rifiuto”. Subentra così il dramma della perdita e del rifiuto, il viluppo di un legame comunque irremovibile. Ecco, dunque, il “racconto di una incolpevole caduta nel Disamore”: attraversato, perlustrato tutto fino a quando quella figura di madre è “vista” – da donna a donna – come essere autonomo, con il suo universo di sentimenti, di gioie e di affanni. E finalmente le si potrà confidare di vederla – ora sì – splendere come vita.
***
Sono figlia di Lucia, bruna Mamma biologica, suicida nelle acque del Tevere quando io avevo otto mesi e lei appariva da ventinove anni nel teatro umano.
Sono figlia di Consolazione, bionda Madre elettiva, da me fragorosamente delusa.
Non sembrano premesse favorevoli a scagionarsi dalla constatazione d’essere vivi.
Ma la vita ci ignora, ignora soprattutto i pregiudizi e l’ovvio. Tutto cicatrizza, a nostra insaputa. Le ferite si aprono e si chiudono come valve nel fondo del mare della dimenticanza, gli episodi sommersi lampeggiano, mentre la nostra superficie agisce, compra una giacca di velluto liscio color granata, fa benzina.
Mentre scendiamo dall’autobus con le buste della spesa
il mare, sotto, muove la sua misura gigantesca, manovra le sue leve nell’olio azzurro del Tempo.
E noi, in alto, splendiamo.
E le parole vanno via da noi, semi sparsi come costellazioni nell’aria trasparente del mattino.
Le parole ricordano tutto, quello che non sappiamo di ricordare. Per ciò, affidiamo loro la memoria. Per poi dimenticare, ancora e ancora, ripassare il raschietto sulla cera dei giorni.
E le parole vanno via da noi, dalla cera impassibile dei nostri volti, e attivano le leve submarine di altri esseri umani, uguali a noi. Che splendono, talvolta, come noi splendiamo. Senza saperlo.
E tu, che leggi
ridi, rovescia in riso
la medaglia dell’Innominabile!
E mettimi di lato, mettimi tra quelli che, per sopravvivere, sono diventati sensitivi.
A causa di un’improvvisa scossa di assestamento delle mura domestiche. Ovvero di un’inezia dalle proporzioni colossali.
Dopo quel giorno, niente è come prima e il non amato (cioè il non vivo, il mostriciattolo) deve fiutare l’aria, osservare le scariche di temporale che si preparano, nell’ombra delle camere da letto.
Egli vuole, tutto sommato, continuare a vivere.
Sotto i letti, massimamente. Le ombre si accumulano in maniera massiva sotto i letti dei bambini non amati. E un umido risucchio catacombale, nel quale fruscia il vuoto artiglio del Nulla, pronto a scattare e chiudersi sulle tenere carni. Un vivaio verminoso.
Se ti muovi, ti vedono.
Ognuno gira nudo e solo sulla ruota siderale degli esposti, tanto più nudo e solo quanto più imbozzolato nella concrezione rasposa delle coperte.
Sei abbandonato e solo.
Se ti muovi, ti vedono.
Il Disamore avvolge i letti dei bambini fra le spire di un pianto non pianto.
I bambini non amati non piangono.
Chi chiamerebbero, col loro pianto?
Sono caduta nel Disamore a quattro anni, quando Madre rivelò Io non sono la tua Mamma Vera.
Quella di Madre fu una decisione anticipatoria, d’amore ansioso: aveva letto sul giornale la notizia del suicidio (un altro! che cortocircuito nella mente di Madre!) di una diciottenne che, nel predisporre le carte per il proprio matrimonio, aveva scoperto d’essere stata adottata e si era tolta dalla vita. La ragazza doveva aver sentito sabotate le radici della propria identità. Il futuro che stava fondando, in lei valeva meno del passato. Le persone sono strane.
A quattro anni, non ero probabilmente prossima al matrimonio, né avevo intenzione di richiedere documentazione alcuna circa la mia propria ascendenza: quello di Madre fu uno scrupolo decisamente precoce, ma ho sempre compreso con sincera adesione il conflitto che la indusse in errore.
Negli anni Sessanta, i genitori si muovevano secondando la natura della quale disponevano per nascita, più raramente per cultura analitica, e agivano come meglio sapevano agire. In mancanza d’istinto parentale o lungimiranza emotiva, non consultavano lo squadrone di psicologi che oggi tende a ispezionare e circondare con cuscinetti d’ipotesi e risoluzioni profumatamente pagate (forse solo per ciò sollecitando gli auscultati a risolvere le proprie incertezze) i nostri disagi domestici e le oscillazioni nostre.
Nella leggenda famigliare, tramandata dalla memoria stessa di Madre, sembra che io abbia reagito alla Notizia gigantesca con maturità esemplare, abbracciando lei viva e presente (lei che sola, in effetti, constatavo, con salutare senso pratico) e rispondendo che Non ha importanza, Mamma sei tu.
Un’investitura talmente corretta da suonare inverosimile.
Pensai soltanto a sopravvivere, dicendo a Madre quel che immaginavo Madre volesse sentirsi dire, perché lei non avesse a ripudiarmi?
O pronunciai quelle parole per lei, gliele dissi per farLa felice?
Oppure Madre fu pietosa con sé e ricordò quel che avrebbe voluto sentirsi dire, ma che io non le dissi?
O era tutto vero, il fatto andò com’è stato trascritto dalla memoria di Madre e io l’amavo talmente che la Sua presenza l’aveva vinta sopra la potenza minatoria d’ogni Fantasma?
Vera è l’ultima ipotesi, l’amorosa.
Posso affermarlo come si afferma la Pura Verità, perché ormai ho consuetudine coi miei modi interiori e ricordo con viva e smagliante esattezza l’interminata ossessione della mia infanzia, invece terminata. Ossessione che dilagò al di là del tempo consentito alle provvisorie (e talvolta provvidenziali) fissazioni infantili: il terrore che Madremammavéra morisse.
Quando Madremammavéra prendeva sonno, afferrata dall’ombra, controllavo col dito inumidito il suo respiro. Che notti ambigue! La bambina a vegliare una madre, vivida e autonomamente respirante.
Ricordo circoli numerici rigenerantisi come fenici e urobori, e ripetuti rituali propiziatori, quando Madremammavéra tardava nel rientrare dal lavoro. Professoressa di Lettere. Ne eravamo talmente orgogliose! Un lavoro conquistato spesando, da sola, se stessa e la propria Madre, con cicli di ripetizioni diurne e sessioni di studio notturno sostenute da una macchina Madre, mettimi tra quelli
Sono caduta nel Disamore a quattro anni, quando Madre rivelò Io non sono la tua Mamma Vera.
Quella di Madre fu una decisione anticipatoria, d’amore ansioso: aveva letto sul giornale la notizia del suicidio (un altro! che cortocircuito nella mente di Madre!) di una diciottenne che, nel predisporre le carte per il proprio matrimonio, aveva scoperto d’essere stata adottata e si era tolta dalla vita. La ragazza doveva aver sentito sabotate le radici della propria identità. Il futuro che stava fondando, in lei valeva meno del passato. Le persone sono strane.
A quattro anni, non ero probabilmente prossima al matrimonio, né avevo intenzione di richiedere documentazione alcuna circa la mia propria ascendenza: quello di Madre fu uno scrupolo decisamente precoce, ma ho sempre compreso con sincera adesione il conflitto che la indusse in errore.
Negli anni Sessanta, i genitori si muovevano secondando la natura della quale disponevano per nascita, più raramente per cultura analitica, e agivano come meglio sapevano agire. In mancanza d’istinto parentale o lungimiranza emotiva, non consultavano lo squadrone di psicologi che oggi tende a ispezionare e circondare con cuscinetti d’ipotesi e risoluzioni profumatamente pagate (forse solo per ciò sollecitando gli auscultati a risolvere le proprie incertezze) i nostri disagi domestici e le oscillazioni nostre.
Nella leggenda famigliare, tramandata dalla memoria stessa di Madre, sembra che io abbia reagito alla Notizia gigantesca con maturità esemplare, abbracciando lei viva e presente (lei che sola, in effetti, constatavo, con salutare senso pratico) e rispondendo che Non ha importanza, Mamma sei tu.
Un’investitura talmente corretta da suonare inverosimile.
Pensai soltanto a sopravvivere, dicendo a Madre quel che immaginavo Madre volesse sentirsi dire, perché lei non avesse a ripudiarmi?
O pronunciai quelle parole per lei, gliele dissi per farLa felice?
Oppure Madre fu pietosa con sé e ricordò quel che avrebbe voluto sentirsi dire, ma che io non le dissi?
O era tutto vero, il fatto andò com’è stato trascritto dalla memoria di Madre e io l’amavo talmente che la Sua presenza l’aveva vinta sopra la potenza minatoria d’ogni Fantasma?
Vera è l’ultima ipotesi, l’amorosa.
Posso affermarlo come si afferma la Pura Verità, perché ormai ho consuetudine coi miei modi interiori e ricordo con viva e smagliante esattezza l’interminata ossessione della mia infanzia, invece terminata. Ossessione che dilagò al di là del tempo consentito alle provvisorie (e talvolta provvidenziali) fissazioni infantili: il terrore che Madremammavéra morisse.
Quando Madremammavéra prendeva sonno, afferrata dall’ombra, controllavo col dito inumidito il suo respiro. Che notti ambigue! La bambina a vegliare una madre, vivida e autonomamente respirante.
Ricordo circoli numerici rigenerantisi come fenici e urobori, e ripetuti rituali propiziatori, quando Madremammavéra tardava nel rientrare dal lavoro. Professoressa di Lettere. Ne eravamo talmente orgogliose! Un lavoro conquistato spesando, da sola, se stessa e la propria Madre, con cicli di ripetizioni diurne e sessioni di studio notturno sostenute da una macchina di tortura che, come vedremo, le costerà la vista: alcool spruzzato negli occhi e stuzzicadenti a tenere dischiuse le belle palpebre, fatte pesanti dal sonno.
Una donna del millenovecentosedici che, abbandonata dal Padre, aveva preso in carico sua Madre, la Nonna (Archetipo tutelare che, nel futuro remoto, mi salverà) e l’aveva tenuta nella propria casa per tutta la vita. In fatti, l’Archetipo viveva con me, ancora non visto, mentre percorrevo il corridoio senza mai calpestare la commessura tra i lastroni in graniglia di marmo, l’orecchio teso a intercettare il moto dei contrappesi dell’ascensore, così Madre sarebbe immediatamente tornata.
[da Splendi come vita di Maria Grazia Calandrone, Ponte alle Grazie, 2021]
Torna Indietro