10/04/2012
C’è nella nostra terra (forse per pigrizia, forse per abulia, forse per ignoranza, forse – mi piacerebbe sperarlo – per pudore) un’incapacità di riconoscere le voci più poetiche che vi nascono. La remora potrebbe esser connessa – come nel caso, per esempio, dell’ostentato disprezzo nei riguardi d’ogni espressione contemporanea – al peso di un’eredità incommensurabile, che ci si sente gravare sulle spalle; eredità talmente nobile da paralizzare qualsiasi impresa competa alla nostra stagione; come se sottesa a ogni risoluzione da assumere ci fosse l’inconscio sospetto (purtroppo bisognerebbe dire certezza) che mai niente si potrà fare ai giorni nostri capace di sostenere un confronto con quel passato lontano. Lontano; lontanissimo, perché l’epoche che turbano i nostri progetti sono il Quattrocento e il Cinquecento, con gli uomini che ne furono protagonisti: Masaccio, Brunelleschi, Donatello, e poi Leonardo e Michelangelo (tanto per fare i nomi più eminenti della nostra mitologia). Epoche ch’è arduo prevedere si ripetano; e antenati cui non sarà facile trovare degni discendenti, a maggior ragione a grappolo, come allora capitò.
E però l’eredità onerosa che ci hanno trasmesso non è soltanto quella tangibile (cui è d’obbligo ogni possibile attenzione perché giunga a coloro che verranno dopo); è anche – forse soprattutto – quella morale. Se di loro si tendesse a emulare lo spirito, invece d’ammirarne con tremore le creazioni, troveremmo la voglia e la forza per tentare le nostre vie. Il loro coraggio, il loro anticonformismo, la loro tenuta etica, la loro spregiudicatezza intellettuale, la loro cultura cresciuta sull’antico e sulla tradizione: questi dovrebbero essere i valori da riscoprire e far rivivere per essere davvero degni di quell’eredità. Non è buon erede chi si limita a tenere al sicuro i beni lasciati dal padre. Lo è invece quel figlio che se ne cura e li fa fruttare. Se le doti di mente e di cuore dei grandi che ci hanno preceduto saranno, senza patemi, da noi coltivate, è molto probabile che si torni a essere, noi pure, attori (e non spettatori) della storia, finalmente riuscendo nel contempo a ravvisare i cantori recenti d’una poesia (tuttora viva e pulsante, ancorché repressa) che non siamo stati neppure in grado di riconoscere.
Venturino Venturi è senza dubbio uno di questi. Anzi – dirò con fermezza – che Venturino è uno dei non molti artisti italiani che possa vantare una dimensione internazionale. Lo asserisco a dispetto d’una considerazione di lui, talora, paradossalmente, appena regionalistica. Proprio in virtù d’un siffatto convincimento tre anni or sono un suo lirico bronzo del 1952 è entrato agli Uffizi, divenendo parte dello stringato florilegio d’opere del Novecento lì conservate (esclusi gli autoritratti, che in Galleria hanno una loro apposita configurazione collezionistica). Nell’aula severa della chiesa di San Pier Scheraggio – dimora attuale dell’espressione del Novecento – sono cinque i lavori del secolo passato: la Battaglia di San Martino di Corrado Cagli (1936), la Pomona di Marino Marini (1950), la Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio di Renato Guttuso (1951-1952), il Bianco/nero d’Alberto Burri (1969) e infine la Donna seduta di Venturino. Artefici reputati tutti – giustappunto – di caratura internazionale. La collocazione in un museo fra i più celebrati e in una così serrata selezione potrà valere per Venturino più di tante esegesi vòlte a ribadirne la levatura.
Il bronzo è pervenuto agli Uffizi grazie alla disponibilità generosa di Lucia Fiaschi. Un gesto – il suo – che m’ha rammentato il tempo in cui era stato lo stesso Venturino a donare al museo un autoritratto della fine degli anni trenta. Era il 1981: data del quarto centenario della nascita della Galleria. Per quella ricorrenza speciale Luciano Berti aveva avuto l’intuizione felice di chiedere a pittori e scultori rinomati una propria effigie, di loro medesima mano. Fra questi c’era appunto Venturino. Che subito accettò l’invito.
Andammo – Berti ed io – a Loro Ciuffenna, in macchina. Mentre si traversavano campi d’erbe giovani, sovrastati da duri calanchi leonardeschi, si ragionò delle opere di Venturino, della sua poesia di parole scabre, della sua peculiare visione del mondo e della vita, della sua non convenzionale (anzi, originalissima) adesione al pensiero e all’espressioni linguistiche delle diverse stagioni del Novecento.
Venturino ci salutò in un vano luminoso, costellato di legni sbozzati, pietre di fiume scalfite e pile disfatte di carte, sovente segnate soltanto da guizzi acuti di matita. Quella stanza parve a noi, subito, sembianza veridica dello spirito che ci s’era figurato per strada. E anche Venturino ci si propose in un aspetto parimenti conforme alle aspettative. Rammento il suo fumare ossessivo, le sigarette senza filtro stropicciate (ancora accese) fra pollice e indice, le dita imbrunite dalla nicotina, i capelli bianchi, lunghi e ondulati, il volto ruvido e dolce insieme, l’ironia triste del sorriso.
Ci mostrò la testa che aveva scelto per gli Uffizi. Salda e delicata a un tempo. Quasi fosse spiccata dal tronco d’un angelo pierfrancescano. Di forma pura e perfetta, come l’uovo della pala di Brera. Testa d’una bellezza che dichiarava la sua matrice in quel decennio magico tra il venti e il trenta. Berti e io la guardammo; felici di quell’elezione. Gli elogi che facemmo – nessuno di circostanza – dovettero a Venturino suonare sinceri, giacché, annuendo col capo, s’apriva nel viso a emozioni di misurato ma palese appagamento.
Fu nel mezzo di quei ragionamenti che in un canto dello studio m’apparve un bronzo con una figura di donna, seduta sul bordo d’uno sgabello com’usavano, a veglia sull’aia, i vecchi d’un tempo. Mi parve singolare che la postura di lei fosse tanto in sintonia con l’attitudine scivolosa che nel frattempo aveva assunto su una sedia Venturino, con le gambe dritte, distese su un gesso ch’era più alto dei suoi glutei.
Mi colpì quella scultura, rugosa di superficie e tuttavia gentile, astratta nella sintesi sinuosa del corpo e non di meno vivida d’amabili sottigliezze naturalistiche: la mano che affiorava da un panneggio bagnato, il piccolo seno che appena aggallava da sotto la veste, il collo lungo e il volto ovato di pelle liscia, levigati entrambi dalla tenerezza domestica di gesti d’affetto. In quel bronzo – che poi è quello di recente giunto agli Uffizi – parevano, come in una sigla, mirabilmente raccogliersi i tratti distintivi della poetica di Venturino. Nella densità materica di quella scultura – antica come un tufo etrusco eppure attuale, affabile e brusca, solida alla vista ma fragile nell’intimo, appartata come una dea primitiva e però familiare nell’approccio – vivono i sensi di Venturino; vi s’incarna la sua poesia, asciutta, stringata, perfino scontrosa; ma sempre, al tempo stesso, trasognata e tersa. Poesia alta. Fra le più alte del Novecento italiano.
Allo scorcio degli anni cinquanta la voce di Venturino s’era fatta sentire anche nelle stanze di San Salvi, nel luogo della sofferenza disperata, dove il silenzio era rotto soltanto da grida acute e sgraziate, dove le vicende del mondo erano viste dalle grate di finestre esigue. Stanze spoglie per non farsi male. Stanze dove un’umanità castigata aspettava la sera per chiudere gli occhi sull’esistenza. E la luce del giorno che si rinnovava era sùbito grigia d’afflizione e angoscia. Lì, in quelle stanze, Venturino, dopo lo spaesamento allucinato dell’approdo, fu toccato dalla grazia. I grandi volti, accesi di cromie vibranti, sono fra i suoi apici espressivi. L’evocazioni – ognora fiere – di Pinocchio e d’altri suoi comprimarî paiono saldare il conto con un passato d’amarezza cupa. Il turbamento di un’immeritata decurtazione del suo progetto per Collodi (intuizione lirica e geniale, davvero fuori dei parametri allora vigenti) si stempera in una quieta (e altera tuttavia) rilettura di quel frangente amaro. E le figure che rinascono sono informate a un impulso vigoroso.
Le carte che disegna a San Salvi sono potenti e libere. La quadrettatura che le solca è la memoria dell’impiantito su cui le ha posate l’artista per lavorarci. Il segno d’una pressione creativa per solito reputato involontario; e forse, invece, esito d’un inconsapevole desiderio di serbare almeno una tenue, vibratile spia d’un transito di dolore ma anche di redenzione. Conforme al messaggio di quel Cristo che per Venturino è stato il faro d’una vita, non si dà redenzione senza tribolazione; senza morte, anzi. La croce è il passaggio ineludibile per ogni salvezza. Questa riflessione è chiara (ancorché penosa) a chiunque creda che il figlio di Dio sia scandalosamente morto sul Golgota e misteriosamente risorto tre giorni dopo. Venturino conosceva il valore salvifico della sofferenza. Lo conosceva perché la sua afflizione trovava sollievo nell’esempio di Gesù, negli esiti fulgidi susseguenti alla Passione. Gesù è la luce che guida nelle tenebre e Francesco è l’uomo ch’è riuscito a render credibile l’emulazione di lui (apparentemente impraticabile). Gesù e Francesco sono le figure della consolazione di Venturino.
E qui torna ooportuna una riflessione sul suo eloquio asciutto e arcaico; saldo come in una protome di pieve romanica. Un eloquio in tutto pertinente all’essenzialità sovente scabra della parola evangelica e all’astrazione vertiginosa delle verità cristiane. Al cospetto di quanto esibiscono gli altari delle chiese d’oggi, l’arte di Venturino, con quelle virtù che gli abbiamo riconosciuto, ha la capacità di stagliarsi nitida e forte a cantare i misteri della fede. La devozione odierna si contenta d’immagini di frusto e talora financo volgare naturalismo; immagini che rimasticano la tradizione, finendo per avvilire sia essa stessa che la profondità della parola di Cristo. La rappresentazione cui Venturino tende è invece spoglia e incisiva; struggente come sanno esserlo le frasi stringate dei Vangeli o le meditazioni di lirica umiltà di Francesco. E Francesco, difatti, con la sua adesione senz’artifici alla vita, si fa sublime modello per l’artista. Il monito francescano sine glossa s’affaccia finalmente a noi come un’icona dell’espressione di Venturino: la sua illustrazione del mondo e dell’esistenza è giustappunto – francescanamente – sine glossa.
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nato a Piombino nel 1951 è uno storico dell’arte, dal 15 giugno 2006 direttore della Galleria degli Uffizi dopo esser già stato direttore del Dipartimento di Studi sul Rinascimento, Manierismo e Arte Contemporanea dello stesso museo. Dal 2000 è professore a contratto in Museologia presso l’università di Perugia. Il comune di Empoli gli ha affidato la cura della Casa del Pontormo: centro di studi sull’arte del Cinquecento nella provincia toscana. Studia soprattutto argomenti di scultura e di pittura del Quattrocento e del Cinquecento toscano e molte delle più importanti mostre su questo argomento a Firenze sono state curate da lui. Tra le mostre da lui curate Jacopo da Empoli, Empoli 2004, L’officina della maniera, Firenze 1996; Leonardo e il mito di Leda, Vinci 2001; El pan de los ángeles, Madrid e Barcellona 2008; Painting the Italian Landscape. Views from the Uffizi,...
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