28/12/2012
Non si contavano tra teatri e teatrini: era un pullulare di circoli dopolavoristici e stanzoni per filodrammatiche. In una città vogliosa di ribalte, pronta per vocazione a recitarsi e a novellare, era giocoforza ingannare il tempo in luoghi di animata socievolezza. Silvio Gigli cominciò a farsi le ossa di attore in quella Siena povera e allegra, e si mise subito in bella luce. Figlio di un maestoso vetturino e di una donna naturalmente dotata di un’impagabile eleganza, l’indiavolato monello – nato nell’agosto 1910 in via de’ Maestri, Contrada della Tartuca – voleva ad ogni costo riuscire. Fondò addirittura la Filodrammatica della Mens Sana, che dava vernacolari pièces in una cripta usata per palestra e per recite popolari.
La vera svolta, racconta Luca Luchini nella sua informatissima biografia (Silvio Gigli da Siena, edizioni il Leccio per Fondazione Chiantibanca) si ebbe allorché il nasuto giovinottino incontrò Fernando Giannelli, padre di Emilio, il disegnatore più arguto e amabile dei nostri giorni. Si stava scegliendo il cast per Nerbo legato, che doveva andare in scena nientemeno ai Rozzi il 7 dicembre 1929. La commediola in vernacolo, che intrecciava a suon di equivoci e fraintendimenti vicissitudini amorose e palieschi intrighi, riscosse un successo strepitoso. Gigli vi interpretava un ruolo marginale, ma il trampolino di lancio funzionò egregiamente, e da allora incarnò una galleria di personaggi destinati a calorosi apprezzamenti. Diventò, poi, autore e, quando nel ’32 si conquistò tramite concorso un posto di impiegato all’ospedale di san Niccolò – sbrigativamente: il manicomio –, non esitò a darsi da fare per innestarvi esperimenti di recitazione. Più tardi Gigli confidò di ripensare con amarezza agli spunti ricavati con sadico esercizio indagando assurde manie e sconnesse visioni. Tra i tollerati lazzi del teatro goliardico e le aperture consentite dal pur sorvegliatissimo Guf, Silvio Gigli imboccò una sua strada. E all’Eiar fece i primi passi di indiscusso protagonista del composito universo della comunicazione. Vi era approdato grazie ai consensi ottenuti ai Littoriali. Lasciò nel ’40, senza staccarsene mai in realtà, il mondo dell’infanzia e con cinquanta lire in tasca tentò l’avventura.
Paolo Cesarini lo presentò a Sergio Pugliese e gli si spalancarono le porte d’una carriera clamorosa. Le trasmissioni che ideò e condusse hanno fatto la storia del costume, a partire dai bozzetti della serie Il Terziglio concepita insieme ad un giovanissimo Federico Fellini. Col quale fu accomunato dall’ostinato affetto per la “piccola patria”, all’insegna di quei “valori di sana provincialità” – secondo una notazione di Sergio Zavoli – che davano ingenua sicurezza e alimentavano inestinguibili antagonismi. L’Italia dei cento – e molti più – campanili si affrontava con innocue risse. Ognuno alla ricerca di un primato, di un premio, di una consolatoria soddisfazione. Gigli si gloriava di esser entrato nella città dell’Arno “primo civile con i soldati indiani” e di aver contribuito come direttore a rimettere in piedi Radio Firenze, da dove il 21 settembre 1944 l’atteso cinguettio annunciò non soltanto la ripresa di un’attività interrotta. Già nel dicembre Gigli inventò Botta e risposta, il primo quiz di massa che avvinse gli italiani. E fu dall’esordio – 16 dicembre – un trionfo strepitoso. Forse è la rubrica che resta più legata all’estro di Silvio, calzante a pennello con la sua simpatica saccenteria, fitta di barzellette senza punture sarcastiche, immersa nell’affabile cordialità di una serata da trascorrere in famiglia. La radio esaltò le qualità innate. Collocato da McLuhan tra i mezzi caldi, quelli cioè che non sollecitano l’ascoltatore a impegnative intromissioni per completare o arricchire, il medium radio si affida alla magia della voce. E la voce di Gigli, rauca e affabulante, affannosa e sempre in presa diretta, comunicava eccitanti sorprese, immaginosi dettagli, amplificava le emozioni tramutandole in leggendaria epopea.
Chi rammenta o riascolta le radiocronache del Palio di Siena – una novantina forse, non si è mai riusciti a stabilire una cifra esatta, malgrado l’esemplare ricerca di Andrea Mugnai – constaterà quanto labile vi sia il confine tra verisimiglianza e immaginazione. Gigli fu il Carosio della festa. Che per lui fu miniera di aneddoti, di scherzi salaci, di saporose beffe, di futuristici artifici. Anche il suo scoppiettante Giringiro, che ci accompagnò per i capricciosi tragitti di un divertito pellegrinaggio nazionale, di tappa in tappa, ebbe il ritmo allegro di un cantabile varietà: niente processi, niente sospetti di doping. Silvio Gigli è uno di quei personaggi che stupiscono per la mirabolante poliedricità. Fu, tra l’altro, un formidabile talent scout : con L’ora del dilettante scoprì, ad esempio, Salvatore Accardo e Corrado; in un popolare programma di “voci nuove” portò alla ribalta talenti della canzone italiana come Gianni Morandi, Loretta Goggi, Domenico Modugno. Ma alfine bisogna decidersi: se lo strumento per eccellenza della sua narrazione fu la radio, l’impronta del suo stile gli derivò – è doveroso aggiungere – dalla Toscana un po’campagnola e arditamente cittadina, fiera di sé, sentenziosa, impertinente, faziosa e pedagogica. Un autore al quale fu molto devoto – cerchia dei senesi esclusa – era Enrico Novelli (Yambo) e basta a individuare una cifra culturale e una diposizione d’animo. È vano vivisezionarlo in ruoli catalogabili. Recitò cento parti fino all’ultimo – morì ai primi dell’ ’88 – esibendo un’ironia non graffiante, evitando ogni conflitto con l’ordine costituito. Quando nella sua Siena si mise alla testa di una lista civica, con oneste intenzioni di indipendenza, non incassò i voti sperati. E più tardi fu scalzato dalle responsabilità conferitegli nell’ambito degli organismi preposti al turismo dall’implacabile lottizzazione democristiana. Tra i mille attestati di riconoscenza che ricevé quello cui teneva di più fu il Premio Toscana della Lingua Italiana, assegnatogli dall’Accademia della Crusca nel 1965. Lo sentiva come un molto postumo risarcimento all’affronto subito dall’omonimo Girolamo, del quale i Cruscanti avevano dato alle fiamme nel 1715 in piazza della Signoria il Dizionario cateriniano. L’ombra della grande storia evocata a nobilitare sfottiture e dispute mai archiviate.
Articolo pubblicato su “Il Corriere Fiorentino” del 9 dicembre 2012 (p. 20)
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