17/11/2010
Proprio mentre fervevano i preparativi della grande parata militare che nel pomeriggio del 14 luglio 1944 avrebbe celebrato nel Campo l’avvenuta Liberazione della città, l’arcivescovo Mario Toccabelli si recò in Comune, in compagnia di monsignor Enrico Petrilli, per incontrare il Governatore americano ed esporgli le questioni che più lo angustiavano. Tra le tante premurose osservazioni che sottopose all’autorevole interlocutore non dimenticò una questione che gli stava particolarmente a cuore: il dilagare dei balli, organizzati in pubblico e in privato e così contraddittori, ai suoi occhi, con i dolori e le lagrime di quei giorni. Il Governatore cercò di mitigare la polemica. “Mi risponde – annota nel diario il severo pastore – che i balli sono una cosa buona in tempo di guerra; distraggono; che se la Francia li aveva proibiti ha dovuto pentirsene; che impediscono il male, perché chi vuol far del male non si presenta in una sala pubblica da ballo”. Toccabelli non restò affatto convinto dalle rassicuranti lodi. Del resto a preoccuparsi del dilagare di una tale moda non era solo un uomo di Chiesa propenso per carattere a duri richiami all’ordine. Oggi può sorprendere, eppure accenti non dissimili si leggono su “Il Campo”, settimanale di laica intonazione, che l’11 luglio 1945 dedica un articolo non meno allarmato al tema: “In mezzo a questo marasma politico e sociale che fa tremare le vene agli uomini di governo, c’è gran dovizia di piste da ballo e di ritrovi serali e notturni dove la nostra gioventù spensierata si diverte pazzamente e dà continuo spettacolo della sua leggerezza che oltrepassa ogni limite e sperpera incoscientemente il denaro”. E di locali dove lanciarsi in danze sfrenate c’era davvero un visibilio: la Lucciola, la Corte di Cecco, la Fontana del Buonumore, l’Elefante, la Trieste, e il fantastico Giardino dei Tigli alla Lizza, che alla sera sembrava uno dei ritrovi amati dagli impressionisti, fresco di verde e punteggiato di luci.
Traggo la citazione dal libro “Siena: immagine e realtà nel secondo dopoguerra (1943-1963)” di Massimo Granchi (Betti editore, pp. 212, euro 20): una ricerca documentatissima e ricca di originali analisi, che ricostruisce con passione e puntualità le vicende del ventennio che corre dalla caduta del regime fascista all’esplosione del boom economico. A prima vista la periodizzazione prescelta può lasciar perplessi ed è in effetti insolita. Più lineare è senza dubbio il periodo che va dalla fine del conflitto ai primi segni del miracolo, fino, dunque, al cruciale ’56: dieci difficili anni all’insegna di una tumultuosa e fervida ricostruzione. Aver preso le mosse da più lontano e aver analizzato le forme assunte a Siena dal fenomeno del boom dei febbrili anni Sessanta consente all’autore di cogliere i nessi di continuità non sempre rilevati e le basi stesse di una ripresa che fece tesoro dell’eredità ricevuta. Tanto più che nel suo saggio Granchi mira a mettere in luce il rapporto tra l’immagine che la città coltiva, e propaganda, di sé e le scelte reali che via via vengono fatte o i mutamenti registrati. E per far questo gli torna utile sfogliare, ad esempio, la pagine di un organo come “La Balzana”, nata nel 1926 e rilanciata nel ’53 dopo una lunga interruzione, o una rivista come “Terra di Siena”. La prima testata, edita dal Comune, riflette la visione che il ceto dirigente esalta della città e valorizza le strategie seguite per incentivarne lo sviluppo, mentre la seconda, pensata in chiave turistica, accorda spazio alle testimonianze di letterati e visitatori che guardano Siena dall’esterno, il più delle volte con sguardo innamorato. Tyrone Power, a Siena per girare “Il principe delle volpi”(1949), non esita a definirla “the jewel of Tuscany”. Tra immagine e realtà si stabilisce un gioco di rimandi che obbliga a distinguere i moduli del discorso pubblico dall’agenda delle priorità fissate in sede amministrativa. L’immagine non è uno specchio fedele degli atti, e le politiche non sono quasi mai meccanicamente conseguenti alle idee enfatizzate.
“Il podestà Fabio Bargagli Petrucci – osserva Granchi – si impegna per rendere Siena un importante centro turistico ed artistico di interesse nazionale” e per farne un esempio della “rinascita italiana secondo lo spirito del regime”. Un’opzione di questo genere consuonava perfettamente con i piani di risanamento e con i numerosi (quanto discutibili) interventi di restauro in stile, motivava la prima legge speciale del 21 giugno 1928 e sarebbe culminata naturalmente nel farraginoso piano regolatore del ’32, per fortuna solo enunciato. Nel secondo dopoguerra il problema del rapporto con il passato viene affrontato da una diversa prospettiva, egualmente incentrata sulla salvaguardia del patrimonio accumulato, ma tesa ad un’interpretazione storica complessiva, al riparo da qualsiasi intento monumentalistico. Il piano regolatore che entrò in vigore nel 1959 segna una data fondamentale nella storia della città: consente di gestire la necessitata espansione con avvedutezza e misura. Sono quanto mai pertinenti le chiare parole spese per Siena da Carlo Cassola in un articolo di solito trascurato apparso sull’olivettiana “Comunità”: “L’importanza artistica e panoramica di Siena non è data […] dai suoi monumenti, ma piuttosto dal suo tessuto urbanistico, rimasto pressoché intatto dal secolo XIV a oggi. Per cui Siena o la si salva intiera o la si sfigura del tutto”. C’era un bel po’ di semplificazione ideologica nell’immagine di una Siena intatta dal Trecento, ma quanto servì per la buona causa della conservazione! E la chiusura del centro antico al traffico veicolare privato del 1965 rafforzò una linea che si oppose all’invadenza distruttiva dei nuovi consumi. Nel tramandare la consacrata immagine della quale Siena va fiera un ruolo essenziale spetta alla fitta sequenza di simboli, cerimonie e feste.
L’immaginario sovrasta e soccorre il materiale, per dirla con termini abusati. E non solo il Palio svolge una funzione principe: “La Torre del Mangia – fece notare Aldo Cairola – è un simbolo (o-in assoluto-il simbolo ) di una città e della sua storia”. Ma simbolo di che? Giuliotti e Tozzi nella rivista che s’intitolò, appunto, “La Torre” la declamarono come “simbolo di potenza, di regalità e di dirittura”: “giudicatrice e punitrice, sull’imbestiamento del secolo”. Giovanni Papini la presentò come “simbolo architettonico della superbia”: solitaria a vedetta e difesa. Secondo Henry James essa, serena e democratica, “simboleggia ancora una dichiarazione di indipendenza di fronte alla quale la nostra, buttata giù a Filadelfia, sembra aver fatto poco più che cedere irrimediabilmente al tempo”. Era, ed è, “the incorrupt declaration of Siena”, che non si stanca di sfidare in eterno, dall’alto, la nostra miserevole dipendenza da migliaia di tremende cose. Nessuno ha saputo interpretare più perspicuamente dell’autore di “Italian Hours” un progetto che fonde in unità ardimento strutturale, evidenza estetica e civica fierezza.
Articolo pubblicato su Il Corriere di Siena del 17 novembre 2010 (pag. 10)
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