03/03/2010
Non tragga in inganno il titolo che Antonio Cardini ha dato alla raccolta di suoi saggi che, pur riferiti ad un arco di tempo compreso tra la metà dell’Ottocento e il 1990, non pretendono affatto di offrire una compiuta “Storia di Siena dal Risorgimento al Miracolo Economico” (Nerbini, Firenze 2009, pp. 320, € 23,50). Finito il tempo delle metanarrazioni a tema unitario, è onesto tentar di capire qualcosa d’una città che ha nutrito a lungo l’ambizione di essere un soggetto attivo e autonomo di storia saggiando periodi, progetti, filoni culturali o schizzando il ritratto di protagonisti in momenti cruciali. Colgo soltanto alcuni spunti sul Novecento.
Agli albori del secolo, nel novembre 1902, il sindaco di Chianciano scrive sconsolato che in quella “popolazione laboriosa e indifferente a gare di partiti” comincia “ad espandersi il mal seme del socialismo, sparso con arte subdola ed audace da un ricco signore del paese”. Grande ascolto stanno riscuotendo le “dottrine collettiviste”. Un impasto di generoso populismo e di ardente millenarismo cementa i primi movimenti di massa che attraversano le campagne.
Siena, che dalle campagne trae la gran parte della sua ricchezza sta a sé come un’indispettita e insidiata Signora. Fragili, e costretti in una scala artigianale, sono i nuclei “industriali” – come le officine dei F.lli Romei – che non si saldano in una robusta realtà. Significativo è quanto scrive il “Libero cittadino”il 14 dicembre 1912, in una rapida indicazione che è già il nucleo di un’ideologia: “Fortuna che Siena con la sua arte, le sue bellezze, e i suoi monumenti e la sua storia gloriosa costituisca un centro di attrattiva tale, un così allettante richiamo che è un moltiplicarsi di forestieri e un prosperoso crescendo in questa unica risorsa della città nostra!”. È una formula che pare scritta ieri: ci attribuiamo sovente l’invenzione di chissà quali ricette e poi scopriamo che tutto era stato già detto, con altri accenti, magari, e diversi intendimenti, ma avviando una riflessione di lunga lena. Da questa esaltazione del patrimonio artistico, e di un’eredità da coltivare strenuamente, scaturisce una linea che avrebbe trovato nel podestà Fabio Bargagli Petrucci, di formazione nazionalista, il suo interprete più autorevole. La politica del fascismo tendeva, del resto, a scoraggiare l’urbanesimo o a controllarlo con avvedutezza. L’episodio del risanamento di Salicotto non esplicita soltanto un modo nuovo di affrontare il problema del restauro di un intero quartiere, ma materializza una modernizzazione avara e guardinga. Niente a che vedere con la modernizzazione affrontata durante il ciclo espansivo 1848-73: e basterà citare la strada ferrata, come più tardi la costruzione dell’acquedotto del Vivo, portata a termine nel ’14, imprese entrambe progettate da una borghesia che agì sull’onda dell’entusiasmo patriottico postunitario.
Cardini dal confronto delle statistiche trae una conclusione netta: “La mancata base industriale non risale tanto alla metà dell’Ottocento o agli anni tra Ottocento e Novecento, quanto proprio al periodo fascista”. Allorché, non casualmente, si assiste a un eccezionale sviluppo del Monte dei Paschi e a un notevolissimo incremento dei settori del commercio e del turismo. L’inaugurazione, a metà degli Anni Trenta, dell’Hotel Excelsior, tra le polemiche invettive strapaesane di Mino Maccari, gridate dal “Selvaggio”, è il simbolo del prevalere di un’opzione che, ineluttabilmente, finisce per sovrastare ogni altra. “Città e campagna, banca, turismo e agricoltura, disegnano – prosegue Cardini – la fisionomia dell’economia senese sotto il fascismo, in una deindustrializzazione che assomiglia più a una scelta che a un’imposizione subita”. Fu per molti aspetti una scelta dettata da una lettura storicistica dei fattori ambientali e da una mentalità di antiche origini. A ben vedere c’è un’evidente continuità tra le motivazioni fondamentali di questa scelta e le volontà che si affermarono, tra accesi contrasti e vivaci scontri, dopo la caduta del fascismo. Applicando un’abusata metafora si potrebbe sostenere che fu la sinistra (sociale e politica) a raccogliere le bandiere che la nuova borghesia non era in grado di far proprie. Fu la sinistra, che non aveva, alcun interesse di volgare speculazione edilizia da far valere, a depurare il mostruoso e distruttivo piano fantasticato da Arturo Viligiardi (1931-1932) dai suoi cascami retorici e medievaleggianti e a favorire l’elaborazione di uno strumento efficace di salvaguardia della forma urbana. Così esaltò una visione della città di matrice aristocratica, attaccata alla sua vocazione finanziaria e terziaria, aperta al flusso di un turismo qualificato e di una crescita guidata delle sedi di alta formazione. Ovviamente sottolineare la continuità dell’ossatura dei programmi del dopoguerra con elementi non secondari delle strategie maturate in età fascista non significa ignorare che non siamo di fronte ad una semplice replica. Né risolvere rozzamente il tema delle continuità, oggi così controverso. Su di esso converrà tornare con gli approfondimenti necessari, anche per chiedersi fino a quando si persevera nell’accreditare a Siena, con un eccesso di enfasi identitaria, i tratti di una vocazione peculiare, di un paradigma esemplare. Mario Delle Piane, che fu assessore all’Università, vagheggiò una “città degli studi”. Ranuccio Bianchi Bandinelli, all’altezza del 1967, lanciava la formula più comprensiva e generica di una (difficilmente precisabile) città del nuovo umanesimo.
È un fatto che appare molto incisivo il peso che l’Ateneo esercita anche nella selezione del ceto dirigente della città. Nel 1911 un periodico faceva l’elenco degli uffici pubblici ricoperti da docenti dell’Ateneo e dimostrava facilmente cumuli impressionanti: Filippo Virgilii ne aveva 19, Emilio Falaschi 17, Pietro Rossi 14, Fabio Bargagli Petrucci 13, e così via. Altro che casta! Fino a quando questo stretto rapporto dura? Forse – ma non così invadente – fino a trent’anni fa, direi: mi prendo la responsabilità di questa ipotesi. Ora il rapporto tra Università e città si è del tutto sfaldato.
A parte i legami con il potere, dal punto di vista della storia delle idee non è forse infondato dire di una linea liberalsocialista – dal giovane Carlo Rosselli, a Piero Calamandrei, a Mario Bracci, allo stesso Mario Delle Piane – assai feconda. Ma bisogna andarci piano nel costruire tradizioni troppo coerenti. Le personalità eminenti emergono sulle altre e possono indurre a mettere in ombra apporti altrettanto importanti. L’ultimo capitolo della raccolta è incentrato sulle traversie recenti del socialismo senese. Le asprezze frontiste e massimaliste che vi prevalsero non riuscirono a conferire autonomia critica ad una compagine che dette voce a aspirazioni progressiste. L’alleanza con i comunisti, necessaria e ingombrante, fu un tormento mai risolto. Il Pci fu un partito troppo più abile e organizzato nel saldare città e campagna, intellettualità cittadina e millenarismo contadino. Il Psi avvertì con crescente disagio di essere considerato “l’erede minore” di una tradizione che aveva contribuito con slancio a fondare. Talvolta reagì più rivendicando posizioni di potere che argomentando una giustificata egemonia ideale.
Tratto da Il Corriere di Siena del 28 febbraio 2010
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