Siamo un paese fragile?

Simone De Santi

11/06/2020

Sembra che l’uomo abbia iniziato ad occuparsi di fragilità da quando ha cominciato a lasciare traccia di sé. Pascal suggerisce che “L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa”. Questo essere pensante dona all’uomo una forza speciale che, “se anche può essere ucciso da una goccia”, anche su tutto l’universo lo schiacciasse, sarebbe comunque migliore di chi lo uccide, perché semplicemente è consapevole di morire”. Quindi la consapevolezza della propria fragilità è di per sé una forza? Parrebbe di sì. Se avessimo voglia e tempo, e ne sentissimo l’urgenza, potremmo provare a traslare il concetto di fragilità dell’uomo, connessa alla consapevolezza che questo ne ha, al paese che abitiamo: L’Italia.

L’Italia è un paese fragile? E se sì, ne ha la consapevolezza “positiva” alla Pascal, oppure più che una piena consapevolezza ha sviluppato un modo di essere e di fare permeato di rassegnazione, di senso dell’inevitabile e di languore? In Teoria della Sicilia, il compianto filosofo Manilio Sgalambro, ci spiega che l’isola, per il solo fatto di essere circondata dal mare vive la sua vita come il preludio dell’inevitabile fine: “Ogni isola attende impaziente di inabissarsi” e poi prosegue “L'angoscia dello stare in un'isola, come modo di vivere, rivela l'impossibilità di sfuggirvi come sentimento primordiale. La volontà di sparire è l'essenza esoterica della Sicilia. Poiché ogni isolano non avrebbe voluto nascere, egli vive come chi non vorrebbe vivere”. Quindi l’isolano del filosofo siciliano più che essere consapevole della condizione di precaria fragilità che gli deriva dal vivere in mezzo al mare, sembra essere complice dell’inevitabile. Eppure Il filosofo pare avere la soluzione, nel 1996 fa cantare a Battiato che il rimedio alla fragilità, la “cura” appunto, si sviluppa attraverso l’attenzione, data, almeno pare (da qui nascono le sue interpretazioni strazianti, straziate, sgraziate e abusate in matrimoni e funerali) dall’amore.
I terremoti in Italia sono di casa, grazie alla convergenza della placca euroasiatica con la placca africana. È un fatto rispetto al quale, per una volta, non abbiamo colpa, non dipende dalla nostra incuria se il paese è fortemente esposto all’imprevedibile movimento della terra. Possiamo adeguarci, cercare di migliorare le nostre infrastrutture, costruirne di migliori, ma non possiamo eliminare il problema alla radice. Nel 1693 quello che viene ricordato come il terremoto della Val di Noto in Sicilia fece, sembra, otre 60.000 morti, e distrusse 45 centri abitati, quasi avverando la teoria di Sgalambro molto prima che la mettesse nero su bianco. Facendo un salto nel futuro, senza passare dal presente, e tralasciando i tanti terremoti che ci sono stati in passato, si arriva ai campi Flegrei (non quelli della canzone di Bennato del 1973, al termine della quale, parlando di tutt’altra cosa, ci ricorda comunque che: “forse già d'allora avevo dentro questa paura”), ma quella vasta caldera, che molti esperti dicono essere una bomba ad orologeria, potenzialmente mortale mezzo milione di persone.

Un territorio fortemente urbanizzato come il nostro si sposa male con una complessa situazione idro-geo- morfologica dove le esondazioni violente sono all’ordine del giorno, non solo per l’incuria e gli abusi edilizi che ne sono una delle cause minori. Piemonte ottobre 2000, Provincia di Messina 2009, Sardegna novembre 2013, Liguria e Lombardia novembre 2014, Livorno settembre 2017, solo per restare nel secolo che inizia con il 2. Nella prefazione di Limes n 4/2017, Caracciolo scrive “Il nostro stato unitario resta un adolescente geopolitico. Puer aeternus, fragile e perennemente incompiuto, consegnato alle altrui scelte”. La posizione geografica, che non ci siamo scelti, fa dell’Italia una gigantesca banchina nel mediterraneo, approdo naturale per i flussi migratori dal continente Africano. Un enorme hub di ingresso per l’Europa, con tutto quello che ne consegue. In questi anni abbiamo compreso come questo elemento rappresenti una fragilità politica dell’Italia nei confronti degli altri paesi Europei, specie per quanto riguarda le nostre zone di influenza naturale con particolare riferimento alla Libia, nella quale gli interessi nazionali in gioco sono essenziali. Quindi se da un lato la posizione geografica, ci consentirebbe di avere importanti vantaggi strategici, dall’altro, ci espone al ricatto di chi usa l’immigrazione come bomba umana per condizionare le democrazie Europee ed in primis la nostra. Caracciolo, sviluppa un ragionamento interessante cercando di ribaltare il paradosso fino a giungere alle non scontate conclusioni che indicano molteplici punti di forza partendo da una debolezza “storica”, tanto da intitolare il volume “A chi serve l’Italia”. Ma dalle sue parole pare che questo possa avvenire più per condizioni oggettive, indipendenti dalla nostra volontà politica, che da una consapevolezza delle nostre fragilità e dalle azioni conseguenti da intraprendere. “Ci sono infatti tre modi di contare in geopolitica: perché sei una potenza; perché servi una o più potenze; perché puoi danneggiare potenze rilevanti.” Noi probabilmente siamo solo la seconda delle opzioni.

La crisi innescata dal Covid-19 sembra avere come caratteristica l’asimmetria sia per i settori che per i vari paesi Europei, dove a rischiare di più sono i paesi del Sud, giudicati più fragili per motivi non congiunturali, ma strutturali, come il debito pubblico e la forma delle organizzazioni economico, politiche, istituzionali. Asimmetriche sono anche le conseguenze a seconda dalla grandezza delle aziende a prescindere dal comparto, per intenderci, imprese più piccole con flussi di cassa “brevi”, hanno meno possibilità di resistere rispetto ad aziende più strutturate. L’Italia ha una densità industriale concentrata in alcune grandi regioni del nord, con l’importante appendice della pianura padana che si estende e si allunga sulla costa marchigiana, fino alle porte di Pescara. Esiste una contiguità produttiva ed una cultura industriale, se pur tra mille differenze che sembrano inconciliabili (si pensi alle grandi holding cooperative del centro Italia comparate con le aziende del nord, anche prossimo, come quello Mantovano), che fanno di questa parte d’Italia un qualcosa di molto differente da tutto il resto, rendendola estremamente utile alle filiere produttive della Mitteleuropa, per dirla con Friedrich Naumann. Per intenderci questo pezzo d’Italia non fa gola alla Mitteleuropa dei Musil, dei Roth, degli Svevo e dei Klimt, ma a quella che alza i muri e che all’Europa vorrebbe sostituirsi, tenuta a bada, fino ad oggi, dall’unico fuori classe della politica mondiale, Angela Merkel.

L’Italia si configura quindi sempre più come un economia lenta, imballata, quasi priva di grandi aziende, con un tasso di crescita, ormai da un quarto di secolo, più basso degli altri paesi europei e gravata da un enorme debito pubblico destinato a crescere. Le aziende Italiane, storicamente forti nelle esportazioni, sono da sempre lasciate sole da una nazione incapace di muoversi come sistema paese (salvo le eccezioni di Eni e Leonardo, per le quali più che come sistema paese, ci muoviamo con l’astuzia tipica della nostra cultura, diciamo, del “commercio”). Per capire come funziona un sistema paese dobbiamo guardare alla Francia, e al suo modello di saturazione della grande distribuzione organizzata, che ha colonizzato interi paesi. La pubblica amministrazione non contribuisce allo sviluppo né delle grandi infrastrutture né delle piccole opere. Milioni di euro giacciono nelle p.a. in attesa che si sblocchino i centinaia di pareri incrociati, che più che garantire il corretto utilizzo delle risorse, sembrano fatti apposta per creare un reticolo impenetrabile, atto a nascondere e rendere impossibile le attribuzioni di responsabilità. Il sistema istituzionale che ne regola il funzionamento, e più propriamente la divisione degli ambiti di decisione tra stato e regioni, ha dimostrato, in una situazione drammatica, tutta la fragilità dell’architrave costituzionale su cui si basa l’Italia. Lo stratificarsi di norme, anni in cui si è rincorso, senza capire bene cosa fosse, un federalismo maccheronico e confuso, hanno fatto sì che i conflitti di attribuzione su decisione importanti, rischiassero di far implodere il paese. La sanità, ad esempio, che è ambito di intervento regionale, ha dimostrato come modelli diversi di attuazione delle autonomie organizzative, dessero risultati diversi, non garantendo quel diritto alle stesse forme di trattamento, di cui ogni cittadino della repubblica avrebbe diritto.

Per andare più in alto, o forse sarebbe meglio dire di lato, il processo decisionale dello Stato, che si sviluppa per costituzione, in un bicameralismo perfetto, negli anni ha dimostrato come sia datato e privo di funzionalità se non quella a un sistema politico incapace di sbloccarsi. Dal novembre del 2011 non abbiamo più una corrispondenza diretta tra il risultato delle elezioni e il governo del paese. Al di là di ogni giudizio politico, questa è, senza ombra dubbio, una evidente fragilità di sistema, dove tende ad affermarsi una forze centrifuga che impedisce la genesi di maggioranze omogenee, capaci di imprime una direzione fino in fondo efficace nei vari settori di intervento. Il sistema così non ha capacità di risposta, se non a tratti e spesso in forma distopica, alle varie fragilità che dovrebbero essere “curate”, per tornare all’artista Siciliano che canta le parole di Sgalambro. Quindi per tornare alla domanda iniziale se l’Italia sia fragile e se sappia fare della sua fragilità una consapevolezza, traendone forza, alla maniera di Pascal, parrebbe utile rispondere con lo psichiatra, scrittore, e poeta (ci servono tutti e tre, ma del primo non possiamo fare a meno) Vittorino Andreoli: “La fragilità è all’origine della comprensione dei bisogni” perché solo grazie alla fragilità l’uomo scopre i suoi punti deboli, riuscendo ad affrontarli. Quindi prendere atto della fragilità dell’Italia, pare essere, il punto di partenza indispensabile per affrontare le varie fragilità una ad una. Da quale partire, come partire, quando partire e con chi partire, non saprei, in fondo la teoria dell’isola di Sgalambro non si è ancora avverata, o forse sì.
 
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Simone De Santi
Simone De Santi è nato a Siena, laureato in Scienze Politiche, ha studiato, lavorato e vissuto in vari paesi tra Europa e Sud America. Manager per oltre 20 anni nel 2020 decide di cambiare vita e fare l’insegnante di sostegno per alunni con disabilità in una scuola di campagna. 
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