L’ultimo lavoro narrativo di Patrick Fogli, “Così in terra” (Mondadori), mette insieme prodigiosamente (e non si poteva che adoperare questo termine) diversi generi: è romanzo di formazione, supereroico, fantasy; è soprattutto un accattivante racconto psicologico. Sviluppato su due piani temporali, narra di Daniel, cresciuto in orfanotrofio dall’età di cinque anni, poi diventato il maggiore illusionista di tutti i tempi. Nessuno, però, sa che i suoi strabilianti numeri non nascondono trucchi, derivano da poteri che lui possiede e che già si erano manifestati nei difficili anni trascorsi in Istituto. Come quando, solo immaginandolo, spezzò un braccio al compagno mascalzone che gli spingeva la testa dentro il lavandino. O salvò una donna dalla morte, mentre decise che un’altra potesse tranquillamente crepare. O come tutte le volte che intercettava cosa avessero in mente le persone, spostava oggetti con il pensiero, faceva sì che accadesse quanto desiderava. Divenuto una celebrità planetaria, Daniel, però, è un essere tormentato. Porta con sé il trauma irrisolto dell’infanzia che inevitabilmente lo riporta al giorno in cui, per mano alla mamma, suonarono al cancello dell’Istituto di suore. Dovevano trattenersi giusto quanto occorreva per riparare la macchina e riprendere il viaggio, ma la mamma morì durante la notte. E nulla ricorda del tempo antecedente a quel giorno. Oggi, a farsi insoffribile, è comunque la menzogna (“per nascondere una verità impossibile a volte basta una bugia”). Daniel non tollera più di doversi nascondere dietro quella bugia (la applauditissima sceneggiata dell’illusionista) poiché non sa più chi sia lui stesso. Romanzo psicologico, abbiamo detto. Ed è infatti questo il tema: essere sé stessi al di là dei condizionamenti esterni, le paure, i dubbi, le domande senza risposta. E nonostante tutto giungere ad accettarsi.
***
Sono una donna e un bambino.
È il crepuscolo, è primavera, la stagione sta per finire, il giorno sfuma a incontrare la notte e loro camminano, la strada è una striscia di terra chiara in un parco di larici e non c’è nessuno, uno degli attimi di quiete irreale in cui il mondo è libero dai suoi affanni, solo le ombre annacquate al suolo, la doppia scia di un aereo fra il verde brillante degli aghi, il bisbiglio discreto del vento e i loro piedi quasi in sincrono, uno accanto all’altro, né veloci, né lenti. Non è una passeggiata, è un viaggio verso una meta, verso qualcosa, hanno scarpe da ginnastica sopravvissute a molti chilometri – bianche quelle di lei, blu e nere quelle di lui – e jeans di un azzurro uguale e indefinito, stinto, il cielo velato di alcune stagioni.
La donna porta la stanchezza come un velo, prosegue malgrado il corpo e il bambino non chiede, non parla, non desidera, non pretende. C’è stato un attimo – un’ora fa, un minuto, un giorno? – in cui ha pensato che si sarebbero fermati, forse un’esitazione nel passo della donna, un diverso ritmo dell’incedere, un colpo di tosse, un respiro più lento o affannoso, ma non è accaduto e ora sono quasi a destinazione. La donna ha parlato pochissimo, eppure il bambino è certo che manchi poco, come è certo che sta camminando, che è stanco, ma non troppo, che mangerebbe qualcosa, ma non ha fame, e che non sa cosa sta accadendo, ma non ha paura.
Sono una madre e un figlio.
Si tengono per mano, un unico corpo in continuità.
Il bambino supera di poco il gomito della madre, le dita affondano nel palmo e non le stacca mai, tiene gli occhi sulla strada più che all’orizzonte, alle loro spalle il cielo è blu di Persia insanguinato dal tramonto e la donna ha i capelli rosso mogano che le scendono disordinati sulle spalle, la pelle chiara, l’aria assorta, la fronte appena sudata. Non stringe le dita del bambino, sa che non ne ha bisogno, sono una cosa sola, non sono mai stati separati, non lo saranno adesso, non ancora.
Il bambino non pare suo figlio.
Il castano scuro dei capelli ha una sfumatura rossastra, ma tutto il resto viene da una dimensione lontana, gli occhi azzurri non sono sfrontati come quelli della madre, la pelle è chiara, ma non eterea, sembra fatto per resistere, non per spezzarsi.
Lui non la guarda mai, lei non lo guarda mai, il sentiero incrocia un budello di asfalto che arriva da destra, una bicicletta rompe la staticità del quadro, attraversa l’immagine come una macchia di colore, scompare in un sibilo.
La casa è oltre la strada e non è una casa, è un castello, direbbe il bambino, invece è un palazzo signorile di tre piani barricato dietro un cancello alto e impenetrabile, tende pesanti e socchiuse alle finestre e l’aspetto quieto e minaccioso di un grande animale addormentato.
Molti anni dopo, in uno di quei momenti in cui ogni cosa sembra perduta e ogni passo l’ultimo prima del precipizio, il bambino ripenserà a questo momento, cercherà di fissare l’istante in cui ogni cosa ha sterzato per sempre, l’attimo, l’ultimo, in cui la vita poteva ancora apparire una linea retta incontro a un orizzonte sereno e non sarà in grado di ricordarlo, non saprà nulla della mano che lo conduce, della strada che ha percorso allacciato a quelle dita, e dubiterà di tutto, anche dell’eco dei giorni a venire, conscio che una delle specialità dell’esistenza è creare ricordi impastando realtà, desideri, paure e speranze.
La memoria è la migliore illusionista del mondo, concluderà insoddisfatto, incapace di attenuare un dolore così lontano da non avere confini.
Ora, invece, mentre il giorno dissolve indolente alle sue spalle, tiene le dita di sua madre e percorre inconsapevole gli ultimi passi della vita per come la conosce.
Al secondo piano del palazzo, dietro una di quelle tende, c’è un’altra donna. Ha qualche anno in più della madre del bambino, vive con la maledizione di crescere mantenendo il volto di una ragazzina e non avrà mai figli, indossa l’abito monacale con la leggerezza di una camicia a fiori e mentre la donna e il bambino percorrono gli ultimi tratti dello sterrato, lei cammina verso la sua stanza, una delle ultime in fondo al corridoio.
All’inizio, per suor Anna, sono una piccola perturbazione colorata alla periferia del campo visivo, qualcosa che il cervello coglie distratto, nello spiraglio lasciato libero dalle tende.
Poi, all’improvviso, si ferma e guarda.
Se qualcun altro li vedesse arrivare, giurerebbe come lei che sono comparsi dal nulla, un istante prima il viale era deserto e un istante dopo erano lì, stretti come un corpo unico.
Quando suor Anna si avvicina alla finestra, la donna e il bambino sono a metà del viale, il cancello è spalancato alle loro spalle e il primo pensiero di Anna è che non può essere aperto, le regole sono chiare, il cancello deve rimanere chiuso, è sempre chiuso a chiave, gli ospiti non possono uscire, la casa è un ecosistema protetto, la presenza del mondo esterno non è prevista. Poi nota la donna. Ora sono più vicini, riesce a distinguere un abbozzo di lineamenti, il colore dei capelli, i vestiti, si accorge che ha sollevato appena la testa e per un attimo ha guardato nella sua direzione. Non può averla vista, eppure è certa che abbia cercato i suoi occhi e che dopo quell’istante il passo sia diventato incerto, forse pesante, una ruota che ha girato per troppo tempo e comincia a rallentare, una frattura di cui sembra accorgersi anche il bambino, che volta appena la testa a cercare la donna, forse scambiano qualche parola, la donna continua a tenere gli occhi all’ingresso, il bambino la imita subito e Anna avverte che qualcosa è cambiato per sempre, una fessura che cede e diventa voragine, allora si volta, abbandona la scena, corre giù per le scale, ignora chi le chiede qualcosa e fila dritta al portone d’ingresso.
Lo spalanca e la donna e il bambino sono lì, oltre i gradini che scendono dalla soglia, il bambino alza gli occhi e la scruta, Anna accenna un sorriso, li raggiunge, la madre ha le labbra socchiuse e immobili, un leggero affanno. Senza lasciare la mano del bambino, posa a terra lo zaino, deglutisce, parla.
«Vogliamo solo riposarci» dice. «Solo riposarci un po’.»
[da Così in terra di Patrick Fogli, Mondadori, 2022]
Torna Indietro