Se muore un fratello, la testimonianza di Enrico Vanzina

Luigi Oliveto

20/09/2019

La morte di Carlo Vanzina, avvenuta un anno fa a seguito di una grave malattia, è stata occasione per riparlare del suo cinema. Un cinema popolare che, come si è scritto ripetutamente, ha raccontato il cosiddetto paese reale e, forse, ha anche suggerito, al paese reale, atteggiamenti e mentalità. Lui che era persona discreta e di tratto, nei suoi film seppe rappresentare così bene la volgarità da creare ingorghi ai botteghini, tante erano le persone che quelle rappresentazioni andavano a vedere per trovarvi (ridendo) la legittimazione, persino l’orgoglio, della propria sbracatezza. Insieme al fratello sceneggiatore Enrico, ritrasse, dunque, una certa Italia, in alcuni casi la prefigurò. Una filmografia quantitativamente straordinaria (73 film e 3 mini-serie Tv in 40 anni di attività) spaziando nei diversi generi. Dunque, non soltanto cinepanettoni. Ha osservato a questo proposito Paolo Mereghetti che i Vanzina hanno pure cercato di recuperare quell’idea di ‘cinema medio’, professionale e rispettoso dei gusti del pubblico, tradizionale ma anche piacevole e attento ai cambiamenti del costume, che l’Italia aveva perso con la fine della stagione d’oro della sua commedia”. Mereghetti cita, ad esempio, alcuni titoli: “Tre colonne in cronaca” (un giallo), “La partita” (un cappa e spada ambientato nella Venezia del XVIII secolo), la rivisitazione di “Febbre da cavallo - La mandrakata”, “I mitici - Colpo gobbo a Milano” (dove ci si rifà allo spirito dei “Soliti ignoti” e di “Sette uomini d’oro”) o, per venire a pellicole più recenti, le commedie bonarie di “Non si ruba a casa dei ladri” e “Caccia al tesoro”, non tralasciando quello che, sempre a giudizio di Mereghetti (e per quel che possa contare, anche nostro) è il loro film meglio riuscito, “Il pranzo della domenica”. Ragione di questa nota non è, comunque, il cinema di Carlo ed Enrico Vanzina, ma l’affetto che li univa e che ora trova pubblica testimonianza nelle pagine di “Mio fratello Carlo”, scritto da Enrico ad un anno dalla morte del fratello. Un doloroso strappo che ha spezzato un legame quasi simbiotico, durato sessant’anni. Nel libro si ripercorre la storia di questo loro legame, fino a quando a Carlo viene diagnosticato un melanoma e tutto si restringe a quel dramma, alla malattia, alla morte che “avvolge distruggendo le nostre cellule ma anche appropriandosi dei nostri pensieri più luminosi”. Enrico si è ritrovato così a dover scrivere un dolente atto d’amore nei confronti del fratello. Non solo per elaborare il proprio lutto. Era una sorta di impegno, in qualche modo già annunciato nelle parole del commiato: “Enrico saluta come ha fatto tutti i giorni della sua vita Carlo. Sei stato il fratello migliore del mondo. Eri la mia metà. Mi lasci disperato e tagliato a metà, con il cuore a metà. Ma ti prometto di continuare, come mi hai chiesto tu, quella leggera e fantastica avventura nel cinema che abbiamo vissuto insieme. Conservo nell’anima il ricordo del tuo umorismo, del tuo immenso talento e della tua bontà. Dammi la forza per andare avanti.” Qui non c’entra niente la celebrità. E’ una storia di umana disperazione, con tutti gli stati d’animo che si vivono in questo tipo di storie: sconcerto per una prognosi maligna, rabbia, speranza in una cura, in un luminare (in tal caso si va da New York alla piccola Siena dove la ricerca immuno-oncologica vanta risultati d’avanguardia), richiesta del miracolo, arrendevolezza dinanzi al destino. E’ storia di esistenze comuni. Oggi a raccontarla è una persona che a sintesi di un amore fraterno – si legga l’esergo del libro – ha scelto una frase di Israel Zangwill, scrittore, drammaturgo, umorista: “Ci vogliono due uomini per fare un fratello”.
 
***
IN UFFICIO A ROMA
(marzo 2018)
 
Quando ripenso a mio fratello Carlo, mi torna sempre in mente una sua frase, concisa come era conciso lui nel modo di parlare, pronunciata con la sua grazia fascinosa, con il suo timbro infallibile da regista abituato a correggere le intonazioni degli attori, una frase leggera e allo stesso tempo profonda, semplice ma densa di umanità, buttata lì con disinvolta sapienza drammaturgica.
Era un giorno di marzo del 2018. Carlo era già molto malato. Lottava, con fatica ma con lucida consapevolezza. Ogni mattina, tirando fuori una forza interiore che non riesco ancora oggi a definire, veniva comunque in ufficio a lavorare. Era già debole, dimagrito, con le sopracciglia e i capelli, sempre meno folti, imbiancati dalle cure immunologiche. Ma voleva testardamente terminare, insieme a me, la scrittura di Weekend a 5 stelle, il film che sognava di fare e che poi Marco Risi, il suo migliore amico, avrebbe girato al posto suo con un titolo diverso: Natale a 5 stelle.
Come spesso capita quando si sceneggia un film, mentre si cercano battute, dinamiche di una scena o talvolta ispirazione, nel grande salone dove stavamo scrivendo – un luogo carico di magnifico disordine, libri, soggetti, fotografie, ritagli di giornale, appunti sparsi alla rinfusa – calò un improvviso e infrangibile silenzio. Un silenzio che bucava addirittura il silenzio, per quanto mi parve assordante. E lungo, lunghissimo. Era uno di quei momenti che Carlo e io avevamo vissuto mille volte nel corso della nostra lunga carriera insieme. Sempre insieme. Mai, però, mi ero trovato a vivere con lui un intervallo di pausa così intenso. Qualcosa di simile agli attimi che precedono un terremoto, quando tutto si congela, il tempo si ferma, l’aria diventa spaventosamente rarefatta e immobile. Capii che stava per succedere qualcosa di speciale. E infatti successe.
Carlo si alzò dalla sua sedia. A piccoli passi, fissandomi con un sorriso appena accennato, venne verso di me, che ero seduto dalla parte opposta del nostro grande tavolo di lavoro. Mi raggiunse. Restò un attimo fermo, poi con un gesto dolce, quasi pudico, mi sfiorò i capelli con il palmo della mano. E mi disse: «Stai tranquillo. Ho avuto una vita meravigliosa».
Fu come una fucilata al cuore. O forse all’anima.
Era il suo ultimo addio, prematuro. Sapendo, o temendo, quello che gli sarebbe successo a breve, volle rassicurarmi.
E lo fece alla maniera di Carlo Vanzina. Con leggerezza. Una leggerezza che aveva sempre preteso nei nostri film, i migliori o i peggiori, un suo modo di intendere la vita. La vita tutta. Quella che inventavamo per lo schermo e quella vera, quella privata, quella spesso un po’ monotona e scialba di tutti i giorni. Perché la leggerezza era il suo marchio di fabbrica esistenziale.
Avrei voluto piangere. O scappare. O nascondermi in una delle stanze accanto dell’ufficio, per non fargli percepire la mia disperazione. Ma dentro di me, improvvisamente, si fece largo un sentimento diverso. Lo fissai con ritrovata tranquillità. Con ammirazione. Quasi con riconoscenza. Nel momento più intenso della nostra carriera insieme, Carlo mi aveva regalato la sua più bella battuta di sempre. Stai tranquillo. Ho avuto una vita meravigliosa. In quella che sicuramente era la scena da risolvere più difficile della sua vita, aveva tirato fuori il talento del grande scrittore, quando con poche parole illumina il senso di una storia.
La nostra.
Poi, vennero giorni più tristi. Più dolorosi. Nei quali non si trattò più di inventare battute, ma di affrontare e combattere la morte.
 
[da Mio fratello Carlo di Enrico Vanzina, HarperCollins, 2019]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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