Serve un nuovo requisito in Italia per essere stuprate. Non c’è nel codice penale. Lo ha introdotto il Tribunale di Busto Arsizio il 26 gennaio 2022: i riflessi pronti. Chi non reagisce subito - prima di venti secondi - all’aggressione, all’approccio sessuale vuol dire che è consenziente. Le donne-tartaruga sono spacciate. A meno di non avere una tessera salvavita. Una targhetta dove indicano: gruppo sanguigno; allergie, donazione (o meno) di organi e riflessi lenti in caso di violenza sessuale.
Il 26 gennaio 2022, Barbara, 45 anni, hostess di volo, è seduta davanti al Tribunale di Busto Arsizio. Chiede a un’amica: “Mi scatti una foto? Ti prego di prendere bene la panchina rossa”. Sì, il simbolo della lotta alla violenza di genere. Vuole immortalare l'attimo. Ricordarsi per bene la rabbia che prova in quel momento. Ha denunciato il sindacalista che le ha messo le mani dappertutto. Le ha palpato il seno e non solo. L’ha baciata sul collo, mentre lei gli stava chiedendo assistenza per una causa di lavoro contro la Compagnia aerea per la quale lavora. Il Tribunale si è appena pronunciato: un collegio tutto femminile (tutte magistrate) ha riconosciuto che Barbara ha detto la verità. Infatti ha assolto il molestatore. Come? Ma se lei ha detto la verità, perché lui è stato assolto? Perché - conclude il Tribunale - lei ha impiegato troppo tempo a reagire agli assalti del sindacalista. Venti o trenta secondi, testimonia l’assistente di volo in aula. Per il Tribunale di Busto Arsizio un tempo eccessivo perché il sindacalista potesse capire che Barbara non ci stava. Una reazione troppo lenta per definire i baci sul collo (non richiesti) molestie. Per associare alla violenza sessuale le mani sul seno, le mani dentro i pantaloni.
La sentenza del 26 gennaio 2022 sostiene che nei comportamenti del sindacalista assolto (in primo grado) non si possano ravvisare elementi tali da caratterizzare la “condotta” dell’imputato come reato: non avrebbe imposto gli approcci sessuali a Barbara “con violenza o minaccia o abuso di autorità”. In realtà - precisa la sentenza di assoluzione - non esiste alcun “dubbio sulla valenza sessuale degli atti compiuti dal sindacalista, consistiti in baci sul collo, toccamenti del seno e mani sul fondoschiena per tirare l’elastico degli slip dell’assistente di volo, che gli provocarono un’evidente erezione. Carenti risultano tuttavia - insiste il collegio del Tribunale di Busto Arsizio - gli elementi della violenza, della minaccia o dell’abuso di autorità”.
Le magistrate di primo grado precisano ancora: “La condotta del sindacalista, infatti, non ha implicato alcun costringimento fisico della vittima, né si è concretizzata in atti idonei a superare la volontà contraria della persona offesa per insidiosità o repentinità: si ricorda, infatti, che la stessa hostess ha precisato come i toccamenti e i baci, principiati da mero massaggio sulle spalle, siano poi stati protratti per un tempo di circa trenta secondi, in cui ella aveva continuato a sfogliare e a leggere i documenti, senza manifestare alcun dissenso”.
Prima di procedere con questa sentenza-capolavoro è necessaria una precisazione sul linguaggio, che è uno specchio della cultura diffusa: le magistrate dicono che l’approccio fisico fra il sindacalista e la hostess inizia da un “mero” massaggio alle spalle. L’utilizzo dell’aggettivo “mero” non è neutro: è pericoloso. “Mero” si usa per sminuire l’importanza di quello che si descrive. Non dare importanza a un massaggio alle spalle, non considerarlo come una molestia sessuale è grave. Il massaggio alle spalle implica un contatto ripetuto, profondo: se è richiesto, sollecitato e, quindi, consensuale, non è classificabile come violenza sessuale. Ma se il massaggio alle spalle arriva non richiesto rappresenta un abuso. Un’invasione della fisicità. Cosa c’è di difficile da comprendere in un concetto così semplice?
Quello che è evidente a molti, non lo è per le magistrate del Tribunale di Busto Arsizio che dimostrano, almeno in questa sentenza, una scarsa dimestichezza con le dinamiche della violenza contro le donne. La conferma di questa “scarsa dimestichezza” arriva dal concetto che motiva l’assoluzione del sindacalista: secondo il collegio, infatti, non si può desumere neppure che la hostess sia stata costretta a subire le molestie sessuali dal “contesto ambientale” nel quale l’approccio si è verificato. “Il contesto ambientale” - si legge nella sentenza - “certo non era tale da vanificare ogni possibile reazione della vittima: si trattava, infatti, di un ufficio sito in una struttura pubblica, quale l’aeroporto di Malpensa la cui porta non è certo che fosse stata chiusa a chiave, sicché la hostess era nelle condizioni di allontanarsi”.
In sostanza - concludono le magistrate dopo circa un anno di processo e varie udienze - se la hostess è stata palpata, baciata non è che se l’è proprio cercata, ma non ha reagito come ci si aspetterebbe da una vittima di violenza. Questo significa che a un certo punto c’è stata. E a nulla sono valse le testimonianze di tante altre assistenti di volo che, in passato, hanno subito “trattamenti” analoghi da parte dello stesso sindacalista. Anche loro palpeggiate, molestate, pur senza aver denunciato. Come, però, Barbara si è fatta avanti e ha portato il molestatore in giudizio anche le altre hostess non si sono tirate indietro. Hanno parlato. Tanto che nella sentenza (di assoluzione) di questo si dà conto. Il collegio osserva “in via preliminare che le dichiarazioni rese da Barbara sono da ritenere pienamente attendibili. E, invero, nel corso della corposa istruttoria il narrato (ciò che Barbara ha raccontato di aver subito, nda) ha trovato plurimi riscontri esterni. In particolare, in termini del tutto analoghi, dai soggetti con cui la persona offesa si è con data: il marito, le colleghe. Del resto, che il sindacalista fosse un soggetto incline a inopportuni approcci sessualizzati sul luogo di lavoro e, più in generale, nei confronti delle colleghe è circostanza riferita anche dalle testi: ciò rende il racconto di Barbara ulteriormente credibile”.
Ma poi il collegio assolve il sindacalista perché:
1) la hostess ha impiegato 20-30 secondi a reagire alle molestie;
2) la hostess non è scappata, anche se non sapeva per certo se la porta fosse chiusa a chiave.
Mai sentito parlare di choc? Di gelo? Paralisi da paura? Per capire meglio come questa sentenza risulti intrisa di pregiudizi conviene raccontare la storia dall’inizio, aggiungendo qualche dettaglio. Forse quelli che hanno convinto il Procuratore di Busto Arsizio ad accogliere la richiesta di appello presentata dalla legale dell’assistente di volo, l’avvocata Maria Teresa Manente. La richiesta di appello è stata accolta a pochi giorni dall’assoluzione del sindacalista dalle accuse di violenza sessuale.
Il giorno che Barbara non vorrebbe aver mai vissuto è intorno a primavera. Il 12 marzo 2018, l’assistente di volo ha un appuntamento fissato con il sindacalista di Fit Cisl, sindacato dei trasporti. L’assistente di volo da tempo ha contrasti con la propria Compagnia di volo: “Come lavoratrice-madre da anni subivo vessazioni, discriminazioni. In Italia siamo fermi agli anni Sessanta per i diritti delle lavoratrici-madri: subiamo mobbing, ostacoli nell’avanzamento di carriera, negazione dei nostri diritti e anche di quelli dei nostri figli. Io non faccio eccezione”. A questa situazione si fa riferimento anche nella sentenza di assoluzione del sindacalista: si parla della situazione conflittuale fra l’assistente di volo e la Compagnia di cui è dipendente. È una situazione che si è creata per i problemi a ottenere l’esclusione dal lavoro notturno, per discriminazione, per una contestazione disciplinare.
“A marzo 2018 ero ormai satura di una situazione di tensione con l’azienda che andava avanti da tempo e che si era aggravata con la nascita della mia seconda figlia. “Perciò” - racconta la hostess - “quando una mia collega mi segnala la possibilità di un colloquio con un sindacalista molto bravo, la prendo al volo”. Più che al volo, Barbara si aggrappa a questa possibilità anche con una certa speranza: “Ammetto che quando mi si è presentata questa occasione ho pensato: ‘Magari è la volta buona che incontro una persona che mi fa venire fuori da questo ginepraio. Io avevo già intrapreso una causa civile contro la mia azienda e mi apprestavo a intraprendere anche la seconda, tanto che ero arrabbiata. Quando mi sono presentata a questo incontro ero piena di rabbia ma anche di speranza”.
Prima del 12 marzo 2018 Barbara incrocia il sindacalista in alcune occasioni, di solito in mezzo ad altre persone. Una volta capita che gli parli anche da solo: “Negli incontri precedenti mai aveva tentato approcci di alcun tipo. Si era sempre mostrato super disponibile, carino, con le parole bravissimo. Quindi mi lascio convincere a rivolgermi a lui per le mie questioni di lavoro”. L’incontro viene fissato negli uffici dell’aeroporto di Malpensa per il 12 marzo 2018, appunto. In realtà, l’appuntamento è un po’ vago. Il sindacalista - ricostruisce Barbara - fissa il meeting per le 16-16,30, appena finisce un’altra riunione per Easy jet. La hostess assicura che lo aspetta. Non ha fretta. Ha necessità, semmai, di definire le sue questioni di lavoro. Mentre lei lo aspetta, lui continua a mandarle messaggi per rinviare: "Sono in ritardo... non ho ancora finito". Il sindacalista arriva alle 18 quando gli uffici erano ormai chiusi e dentro non c’era già nessuno. “Ha aperto con le sue chiavi, me lo ricordo bene,” - dice Barbara - “era già buio perché all’inizio di marzo alle 18 è già notte. Ho spesso pensato che tutti quei ritardi non siano stati propriamente casuali”.
Queste, però, sono solo sensazioni. Al contrario, Barbara è certa che in quella stanza a piano terra, di un edificio di Malpensa entra carica di rabbia. Vuole giustizia per sé, vuole combattere contro la sua Compagnia. Si è preparata, è carica a mille. Ha con sé una cartellina piena di fogli che riassumono tutto quello che ha passato negli ultimi anni. “Siamo entrati, ci siamo accomodati. C’era una scrivania. Lui era seduto con le spalle alla finestra, io con le spalle alla porta. Ho iniziato a parlare, ma lui era un’altra persona rispetto a quella che avevo visto nelle occasioni precedenti: era più menefreghista, sminuiva il problema, mi esortava a lasciar perdere le cause, a rinunciare a tutto ‘perché tanto avrei perso, perché tanto in Italia va così, perché tanto non ce la farai, perché tanto ci penso io’... le solite scorciatoie all’italiana. Mi disse: "Tanto io sono un intimo amico di uno dei tuoi responsabili, ci parlo io, andiamo allo stadio insieme, io ci parlo, gli dico che non ti deve dare fastidio, io la risolvo. La risolviamo così”.
A Barbara quella conversazione non piace. Lei ha la sua cartellina piena di fogli e di diritti da rivendicare. “Me la sono presa per quello che mi ha prospettato. Ho detto al sindacalista: "Al di là del fatto che non hai capito che i miei rapporti con l’azienda sono talmente tesi che tu non la risolvi con una partita allo stadio o con una birretta fra amici, non è questo che io sto cercando come aiuto. Io non ti sto chiedendo un’intercessione, ti sto chiedendo un aiuto in qualità di sindacalista per me in qualità di lavoratrice in difficoltà”. Mentre parla, la hostess cerca di spingere verso il sindacalista i documenti sulle sue controversie di lavoro: “Glieli volevo mettere sotto il naso per farglieli leggere, ma lui li respingeva come per dire ‘No, non mi interessano. Figurati, sono tutte sciocchezze, la risolviamo così’. Visto che lui proseguiva con il suo sistema, a un certo punto ho preso questi fogli in mano gli ho detto “Ma lasciami sfogare”, nel senso di “lasciami leggere quello per il quale sono venuta qua”. A questo “lasciami sfogare”, lui si è alzato, ha fatto il giro della scrivania, si è affacciato alla porta e ha detto: "Sfogati pure quanto vuoi, perché tanto qua non c’è nessuno". È in quel momento che la situazione inizia a degenerare”.
Con un paio di falcate il sindacalista si sposta da dietro la scrivania a dietro la hostess. “È così. Mentre ho pensato: che cosa significa questa frase? Che cosa significa “sfogati pure quanto vuoi”, in un secondo lui si è spostato dietro di me, mi ha messo le mani sulle spalle - io ero ancora seduta alla scrivania e avevo ancora i miei fogli in mano - e ha iniziato a toccarmi il collo, a baciarmi il collo e farmi altro. Io avevo questi fogli in mano e lì sono scattati quei 20-30 secondi, li ho quantificati a spanne, durante i quali il mio primo pensiero è stato: “E io adesso che faccio?”. Eccolo l’errore fatale di Barbara, secondo il Tribunale di Busto Arsizio. Non un errore, ma l’espressione del consenso: Barbara si sente mettere le mani addosso e non reagisce immediatamente. Qualcuno le ha chiesto perché è rimasta ferma? Perché invece di tirargli un cazzotto è rimasta seduta a leggere a voce alta i documenti sulla causa alla Compagnia aerea? Qualcuno le ha domandato perché se un uomo ti molesta, tu non reagisci subito? Barbara non avrebbe avuto difficoltà a rispondere. Come non ce l’ha ora. Perché la risposta è la stessa: “Sono rimasta ferma, seduta perché avevo paura. Lui mi aveva appena detto: “Siamo soli”. Non solo me lo aveva detto, io ne ero assolutamente consapevole perché lo avevo visto con i miei occhi che negli uffici non c’era più nessuno. Lui aveva aperto con le sue chiavi. E in quel momento, il mio unico pensiero era quello di uscire di lì”. Sana e non stuprata. Anche se la violenza, ormai si era già consumata.
L'INTERVISTA
O lo stupro o la vita
Il catalogo è ampio. Più alto dei vecchi Postalmarket. Ci sono le molestate dai professori a scuola. Le molestate dai professori delle lezioni private. Ci sono le ragazzine (e i ragazzini) molestati dai parenti. Poi le donne costrette a subire violenza dal capo o dal medico. Tutte si sentono come Barbara, la hostess di Malpensa molestata dal sindacalista, ma assolto dall’accusa di violenza sessuale. Tutte hanno reagito come Barbara: sono rimaste paralizzate di fronte ai molestatori. Qualcuno avverte, per favore, le magistrate di Busto Arsizio? C’è una domanda che ha bisogno di una risposta. Urgente. Dopo la sentenza del 26 gennaio 2022 del Tribunale penale di Busto Arsizio: perché una donna ci mette addirittura 30 secondi a reagire a una molestia sessuale? Anzi a una violenza? C’è una sola persona in grado di rispondere a questa domanda. No, non è una psicologa. Neppure una giornalista, né una scrittrice, né una qualunque esperta vi venga in mente. È chi ci ha messo venti - addirittura trenta secondi - per interrompere una violenza. Può essere solo Barbara, hostess di Malpensa, palpeggiata ma non vittima di violenza secondo il Tribunale (di primo grado) di Busto Arsizio. Quindi a Barbara abbiamo chiesto, con questa intervista, perché abbia impiegato, “così tanto” a reagire alle molestie.
Barbara, ha mai fatto intendere al sindacalista di essere d’accordo con il suo approccio sessuale?
“No”.
Neppure quando è entrata nella stanza dell’incontro sindacale?
“No. Sono entrata in quella stanza piena di rabbia contro la mia azienda. Pensavo di aver trovato una persona che mi avrebbe finalmente aiutata a risolvere la mia situazione o che avrebbe provato ad aiutarmi”.
Però, a un certo punto, il sindacalista le mette le mani addosso. E lei resta immobile. Perché?
“Un momento prima eravamo seduti alla scrivania, lui spalle alla finestra, io spalle alla porta. Lui ignorava le mie parole. Allora io gli dico, un po’ stizzita: ‘Ma lasciami sfogare’. Lui mi risponde in modo molto ambiguo: ‘Sfogati pure quanto vuoi’. Un secondo dopo si è alzato ed è arrivato alle mie spalle. E mi ha detto: ‘Siamo soli’. Non era facile pensare con lucidità in quel momento”.
Per il Tribunale di Busto Arsizio, che in primo grado ha assolto il sindacalista dall’accusa di violenza sessuale, però, lei aveva la possibilità di uscire dalla stanza. Non era bloccata.
“Io non sono in grado di dire se la porta alle mie spalle fosse chiusa a chiave o meno perché quando lui mi ha detto ‘Sfogati pure quanto vuoi’, io ho sentito solo un “clac”. Ma se quello fosse il “clac” di una porta che veniva chiusa a chiave, di una maniglia chiusa con forza o di altro non lo so. E anche quando gli ho detto: ‘Aprimi la porta’ per andarmene non ho guardato come mi ha aperto la porta perché mentre lui lo faceva io stavo raccogliendo il cappotto, la borsa, le mie cose rapidamente: me ne volevo solo andare da lì. Quindi non mi sono voltata a vedere come ha aperto quella porta. Non so come l’ha chiusa e non so come l’ha aperta”.
Eppure il dubbio sulla porta chiusa a chiave o meno e quindi sul fatto che lei potesse uscire liberamente dalla stanza ha influito sull’assoluzione del sindacalista.
“Lo so. Anche su questo ha fatto leva la giudice (presidente del collegio) per assolvere il sindacalista. Ha detto: ‘Lei poteva uscire in qualunque momento, perché non c’è alcuna sicurezza che la porta fosse stata chiusa a chiave. Quindi lei poteva alzarsi e andarsene’. Come se io avessi potuto alzarmi in piedi serenamente, scavalcare lui, sperare che la porta fosse aperta, sperare che lui non mi rincorresse, non mi afferrasse per un braccio. E mentre scavalcavo lui che era alle mie spalle, avrei anche dovuto ricordarmi di prendere la borsa con le chiavi dell’auto perché altrimenti dove andavo? Semplice, no?”.
Ancora, però, non ha risposto alla domanda: perché non ha reagito subito? Il Tribunale di Busto Arsizio ci ha lasciato con questo dubbio.
“Dunque, lui mi aveva detto di sfogarmi. Poi si era affacciato fuori, nel corridoio e aveva precisato: “Siamo soli”. A quel punto, l’unica cosa che sono riuscita a pensare razionalmente è stata: ‘Se urlo, non solo non mi sente nessuno, ma rischio che questo si arrabbia ancora di più. Va nel panico e quindi la situazione può solo degenerare. Se io mi giro e gli do un ceffone, questo me ne tira uno più forte, anche perché io sono una donna, lui è un uomo; io peso 60 chili, sono bassa, lui è alto, grande grosso'. Fisicamente rispetto a lui io ero messa male: ero in uno stato di inferiorità, di svantaggio evidente. Poi ho pensato anche: ‘Forse questa cosa non sta succedendo, me la sto immaginando, forse sto capendo male’”.
Invece la stava molestando davvero.
“Quando invece di massaggiarmi le spalle poi mi ha messo le mani altrove, mi sono detta: 'No, sto capendo bene'. Allora ho cominciato a leggere i documenti sul mio stato di lavoro ad alta voce: speravo che fosse sufficiente a fargli capire 'Guarda che non sono interessata. Non mi interessa quello che mi stai facendo'. Ma lui faceva finta di non capire il mio dissenso. E poi dopo un lasso di tempo - direi venti o trenta secondi, è un tempo che ho misurato a spanne - lui è arrivato con le mani dietro i miei pantaloni e mi ha tirato su gli slip come per farmi alzare. Come a dire 'Alzati. E collabora'. A quel punto, quando le mani sono scese ho detto a me stessa: 'No, Barbara fai qualcosa perché sennò qui finisce male. Lì mi sono svegliata da questo stato di trance'.
E che cosa ha fatto?
“Di nuovo ho agito prima nella mia mente. Ho detto a me stessa: ‘Barbara fai qualcosa perché sennò questo ti sdraia sopra la scrivania nel giro di un secondo’. Lì ho raccolto la forza e ho detto: ‘Che cosa stai facendo?’. E lui sempre viscido, porco, mi ha biascicato all’orecchio: ‘Ti sto facendo rilassare’. Io gli ho risposto: ‘No, tu mi stai facendo incazzare’. Lui lì ha esitato ancora un attimo, poi ha fatto un passo indietro, si è spostato, è andato al lato della scrivania e lì finalmente io l’ho potuto guardare in faccia. E ho visto che tutta questa situazione gli aveva procurato un’erezione”.
È riuscita a fuggire in quel momento?
“Bisogna avere bene chiaro com’era la situazione. Tutto si svolge con me seduta alla scrivania e lui in piedi alle mie spalle. Quando lui si sposta di lato e io riesco finalmente a guardarlo, cerco solo il modo di portare a casa il risultato che per me in quel momento era uscire da quella stanza, non innescare polemiche che potevano degenerare in situazioni pericolose. Io là dentro ero sola. Sono stata costretta a nascondere lo sdegno, la paura e gli ho detto: ‘Dai, ne parliamo un’altra volta’, anche se provavo schifo. Lui, a quel punto, mi ha risposto scocciato: ‘Sì, sì, ne parliamo un’altra volta ma con il tono di chi intende: ma chi ti incontra più che m’hai fatto perdere tempo’. Comunque a quel punto ha aperto la porta e io ho preso le mie cose. Forse l’ho anche salutato dicendogli ‘ci vediamo un’altra volta’: poi sono andata via velocemente e sono salita in auto”.
A quel punto è scappata?
“Mentre mi allontanavo da Malpensa, per un po’ ho continuato a guardare nello specchietto retrovisore. Lo so che oggi può sembrare anche inverosimile, ma ero talmente spaventata quel giorno che temevo che mi potesse seguire. Quando mi sono resa conto che ormai ero fuori pericolo, mi sono fermata in una piazzola di sosta, a metà strada fra aeroporto e casa mia, ho preso atto. Lì ho avuto un crollo, ho pianto. Ho provato a rimettere insieme i pezzi, poi sono tornata a casa”.
Ha denunciato subito?
“No”.
Quando ha deciso di denunciarlo?
“Ho deciso di denunciarlo quando ho scoperto che c’erano altre donne che avevano vissuto una situazione simile alla mia, sempre con lui. Quando sono tornata a casa, ho subito raccontato a mio marito delle molestie subite e lui, senza esitazione, mi ha detto: ‘Che cosa vuoi fare? Lo vogliamo denunciare?’. Io gli ho risposto: ‘E su quali basi?’ Non ho segni visibili, per fortuna non mi ha stuprata, ma eravamo soli. Non c’era nessuno: è la mia parola contro la sua. E io non ho alcun tipo di prova per dimostrare di aver subito quello che dico. Le mani addosso, i baci sul collo non lasciano segni evidenti. Quindi mi sono consumata per diverse settimane con la rabbia, la frustrazione di non poter fare niente e di dover subire passivamente la violenza, oltre a tutto quello che già stavo subendo come mamma lavoratrice. Mi ero anche quasi rassegnata a dovermela far passare anche perché la collega che mi aveva presentato il sindacalista - e alla quale ho riferito l’aggressione subito il giorno dopo le molestie - mi ha fatto chiaramente intendere che, se avessi deciso di denunciarlo, avrebbe difeso lui perché appartengono alla stessa sigla sindacale”.
Come scopre di non essere l’unica vittima del sindacalista molestatore seriale?
“Per un caso fortuito. Un giorno volo con una collega che mi chiede senza troppi giri di parole: ‘Ma perché ti sei iscritta alla Cisl? Non sai che il sindacalista di riferimento gode di pessima fama. Non ti dare: sul suo conto se ne sentono di ogni colore’. Io mi sono illuminata e l’ho pregata di dirmi quello che sapeva. Mi ha risposto: ‘Io personalmente non so nulla, ma ti metto in contatto con una mia amica che vedrai ha molto da raccontarti’. Così questa collega mi ha dato il numero della sua amica, un’assistente di volo di Alitalia alla quale ho mandato un messaggio. Ci siamo sentite, io le ho raccontato la mia storia, lei mi ha raccontato la sua: le nostre storie erano analoghe. Molestie dalla stessa persona. Dopo di che, questa donna mi ha dato un altro numero di telefono di un’altra assistente di volo di Alitalia: l’ho contattata. Di nuovo le ho raccontato la mia storia, lei la sua. Esce fuori un terzo contatto di un’assistente di volo Alitalia, poi un quarto (di un’assistente di volo norvegese). E mi si inizia a delineare il quadro: tutte avevamo subito molestie analoghe dalla stessa persona. A quel punto contatto una legale. Le racconto la mia e le parlo di queste altre donne. Mi dice che lo posso denunciare a prescindere, ma se le altre donne mi danno l’autorizzazione, disponibilità a venire in Tribunale a testimoniare, ce la posso fare. Io ho chiesto la disponibilità a tutte e quattro e mi hanno detto sì senza neanche finire di parlare. Così l’ho denunciato”.
Dopo quanto tempo ha formalizzato la denuncia?
“Tre mesi e mezzo dal fatto. Avevo un anno (è l’unico reato a querela di parte in Italia che ha tempi così lunghi per formalizzare una denuncia, nda): ho impiegato un terzo del tempo. Ma mi è stato confutato dalla difesa che a denunciare c’ho messo troppo tempo”.
E lui come si è difeso in aula rispetto alle accuse che lei le ha mosso?
“Lui ha ammesso il massaggio. Ha detto che io ero talmente provata dalla mia situazione lavorativa che stavo piangendo. Lui per consolarmi da queste mie lacrime a dirotto ha ritenuto di farmi un massaggio (non richiesto), limitandosi a dire che non aveva mai oltrepassato le spalle. Ha mentito, non solo sulle molestie, anche sul fatto che stessi piangendo. Io non stavo affatto piangendo. Chi mi conosce sa che per farmi piangere ci vogliono situazioni molto dure. Certo ero arrabbiata per la mia situazione al lavoro, ma non stavo piangendo”.
Lui ha ammesso il massaggio sulle spalle: ma se non voluto, anche quello deve essere considerato una molestia.
“Non per le nostre leggi. Il bacio sul collo è una violenza, il massaggio sulle spalle no, anche se non voluto. Infatti lui è stato molto attento a dichiarare di non essere andato oltre il massaggio sulle spalle. Ma mi domando: è normale che un sindacalista, con cui si va a parlare di cause di lavoro, si senta in dovere di farti un massaggio alle spalle per consolarti? Io quando ho bisogno di un massaggio vado dal fisioterapista”.
Non è normale che nessuno ti faccia un massaggio alle spalle se non richiesto.
“In base alla sentenza di assoluzione che mi sono vista piombare addosso non sembra così. Il tema sembra essere che non è il molestatore che si deve sincerare del consenso della vittima. Secondo questa sentenza del Tribunale di Busto Arsizio è la vittima che deve manifestare il proprio dissenso. Entro quanto tempo? Boh. Nella sentenza c’è scritto che venti/trenta secondi sono troppi. Allora qualcuno ci dica quale sarebbe il tempo limite, per reagire a un molestatore. Così la prossima volta (che spero non ci sia) mi regolo”.
Comunque stona anche la giustificazione che il sindacalista ha dato in aula: le ho fatto un massaggio per consolarla perché piangeva.
“A parte il fatto che non stavo piangendo, anche se fossi stata in lacrime lui le mani avrebbe dovuto tenerle in tasca. Ero solo arrabbiata perché lui non mi stava aiutando nelle cause e stavo dicendo a me stessa: pazienza, troverò qualcun altro o andrò avanti da sola”.
E comunque il sindacalista come ha giustificato le mani messe addosso alle altre sue colleghe? C’è stata un’epidemia contagiosissima di pianto fra le hostess, negli ultimi anni?
“In realtà, secondo la difesa, tutte le testimonianze e le accuse fanno parte di un complotto sindacale internazionale (una hostess accusatrice è norvegese) per far fuori questo super sindacalista. Che si autodefinisce straordinario. Ma quale sia il movente del complotto ancora non è chiaro”.
Quale è stata la reazione delle altre donne di fronte alla sua storia?
“Hanno cominciato a scrivermi da tutta Italia. Non solo per manifestarmi solidarietà ma per raccontarmi che hanno avuto esperienze simili alla mia. Simi- li non solo per molestie, ma soprattutto per reazioni: sono rimaste impietrite, congelate. Sul momento non sono state capaci di una reazione immediata, anche se questo non significa affatto che fossero d’accordo con quello che stavano subendo”.
C’è una storia che l’ha colpita in particolare?
“Quella che mi ha colpito di più è la storia di una donna che oggi ha la mia stessa età: 45 anni. Mi ha raccontato che quando andava a scuola, alle superiori, veniva molestata dal suo insegnante di ripetizioni private. Lei non aveva il coraggio di fermarlo, ma non solo: non aveva il coraggio di raccontarlo a casa e quindi ogni volta tornava a prendere queste lezioni private. Perciò le molestie si ripetevano. Alla fine si è ammalata: ha iniziato ad avere disturbi alimentari (che si è trascinata per alcuni anni) perché non riusciva a dire in casa quello che stata subendo. Si limitava a dire: ‘Io non voglio più fare ripetizioni’ con i genitori che le davano contro perché pensavano che non avesse voglia di studiare o di recuperare. Alla fine poi ha trovato il coraggio non tanto di raccontare le molestie ai genitori, quanto di opporsi con forza alle ripetizioni e ha smesso di andare a lezione privata. Così ha anche iniziato a stare meglio. Ma fino ad allora ha subito molte volte. A distanza di una trentina di anni, questa ferita per lei è ancora aperta”.
Però, lei parla di molte donne che le scrivono per raccontarle esperienze.
“Sì, esperienze anche recenti. Un’altra donna mi ha raccontato della classica visita ginecologica “protratta”: di come lei sia rimasta ferma, immobile, paralizzata, gelata di fronte al medico che abusava di lei. Tutte descrivono la stessa sensazione: il gelo, il blocco". Tante donne mi parlano delle molestie che subiscono sul posto di lavoro e che non possono provare. Il capo che tira fuori il pene mentre tu stai parlando. Un’altra mi ha scritto di aver vissuto la mia stessa situazione nella mia stessa posizione: lei seduta al computer, lui da dietro che si appoggia. Una donna è rimasta paralizzata addosso a una parete senza riuscire a muoversi. Il capo l’ha chiamata nel suo ufficio: lui si è tirato fuori il pene e ha iniziato a masturbarsi. Lei si è messa con le spalle al muro, è rimasta a guardare quello che lui stava facendo, bloccata, poi è uscita dopo che lui aveva finito. Incredula mi ha confessato: ‘Sono rimasta a guardare e non significa che guardare mi stava piacendo, significa che io non sapevo che fare’ ”.Il problema è che come fai a denunciare? È la tua parola contro la loro. Non hai altro”.
Quindi cosa si può fare?
“Lo dico sinceramente: io mi sono rotta le palle di vedere le panchine rosse, le scarpette rosse, le giornate contro la violenza. Qualche panchina di meno e qualche sentenza decente in più, magari. In Italia noi abbiamo una bella norma: per le vittime dei reati di violenza c’è il gratuito patrocinio, per tutte indipendentemente dal reddito. Questo non significa che gli avvocati di noi donne vittime di violenza lavorino gratis, ma vengono pagati con le tasse di tutti noi. Quindi, visto che i soldi per le nostre difese arrivano dalle tasse, cerchiamo di usarli meglio. Come? Non facendo sentenze strampalate, perché queste sentenze strampalate costringono a fare ricorso in secondo grado e in Cassazione e obbligano a continuare ad attingere ai soldi di tutti per il gratuito patrocinio. Poi non è vero che se una brutta sentenza riguarda tutte, almeno si sopporta meglio. Non sempre mal comune è mezzo gaudio: alle volte il mal comune fa male”.
Capitolo estratto dal libro "Violenzissima. Scuse e i pregiudizi che assolvono i violenti” (Pozzo di Micene Editore)
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