È un commovente apologo il romanzo d’esordio di Su Bristow, “Pelle di foca”, pubblicato in Italia dalle edizioni e/o per la traduzione di Silvia Castoldi. Attinge dalla leggenda, ma – pur non abbandonando mai il registro favolistico – potrebbe perfino dirsi romanzo d’attualità. Per come sia racconto di diversità, di chiusure e aperture mentali, di ancoraggi al passato e cambiamenti. La leggenda è una di quelle che si raccontano lungo le coste settentrionali della Scozia a proposito delle selkie, le foche che, una volta all’anno, raggiungono la riva, si tolgono la pelle e solo per alcune ore divengono splendide ragazze. In una notte di luna piena, questo spettacolo si palesa agli occhi di Donald, un giovane e solitario pescatore (il padre era morto in mare, la madre era l’ostetrica del villaggio). Le foche divenute donne “sembravano bambine appena uscite dal bagno, più nude che mai, come l'interno bianco dei rametti di abete quando si toglie la corteccia.” Donald, di nascosto, le osserva danzare, nasconde tra gli scogli la pelle di una di loro, cosicché quando le altre sono pronte per ritornare in acqua, lei non può seguire le compagne. Donald la possiede, la conduce a casa sua nascondendone la pelle in fondo a un baule. Saranno sposi e avranno dei figli. Alla ragazza viene dato il nome Maihri (così si chiamava la sorella morta di Donald). Maihiri sembra felice, ma spesso guarda il mare e piange. Finché un giorno, mentre il pescatore è in mare con la barca, uno dei figli trova la pelle e la mostra alla madre. Quando il pescatore torna, lei è scomparsa, per sempre. La presenza di questa estranea (non parlava, non sapeva come portarsi il cibo alla bocca) aveva suscitato nel villaggio cattiverie, pettegolezzi, ironie che già Donald aveva sperimentato su di sé, spesso bullizzato e deriso: “Era strano stare con lei. Gli altri gli davano addosso in continuazione, con le parole, gli sguardi, i giudizi, ma Maihri non gli chiedeva nulla, non capiva neanche cosa pensasse. Per la prima volta da quando aveva memoria, Donald aveva incontrato qualcuno più sperduto di lui”. Donald amava questa creatura in modo protettivo, responsabile, nonostante-tutto. Ma sappiamo bene come funziona. La gente teme la diversità, perciò deve subito definirla come altra da sé. Si era così arrivati alla conclusione che Maihiri – per la quale era stato inventato un passato, una provenienza, un prima – fosse scema. La sua stranezza, peraltro, incuteva paura, trasmetteva inquietudine (certi suoi sguardi erano terribili). Aveva poi dei poteri sorprendenti, come quello di saper rasserenare bambini e vecchi, semplicemente sfiorandoli. Maihiri, in realtà, sapeva raggiungere l’anima delle persone. Il romanzo di Su Bristow è, insomma, una storia d’amore a tutto tondo. Quando – verrebbe da dire – l’amore è questione di pelle; anzi, di ciò che sta sotto la pelle: l’essere, la persona, il suo mondo, la sua anima.
***
[…]
Si trovava proprio sul tratto di mare illuminato, nitido come una strada che in quella notte calma e senza vento conduceva dritto verso la Terra della giovinezza. Là dove vanno le anime dei morti, dicevano i pescatori; non in chiesa, naturalmente, ma al bar, nelle sere di burrasca, quando le barche erano ferme a riva; al bar a bere idromele e a riposare nei dolci campi rigogliosi di orzo. Mentre fletteva le dita indolenzite e irrigidite, Donald dubitò che fosse vero. I pescatori annegati restavano in fondo al mare, pensò; suo padre e tutti gli altri che avevano salpato da quella costa e non erano più tornati a casa. Carne per granchi, ormeggio per patelle e anemoni, ecco cosa diventavano. Tirò di nuovo la cima e passò alla nassa successiva.
C’erano delle foche quella sera sull’isolotto di scogli, a non più di cinquanta metri di acqua nera e rocce sommerse di distanza. Si erano fermate lungo la spiaggetta che riemergeva solo con la bassa marea. Sembrava che si stessero godendo il chiaro di luna, anche se in realtà faceva decisamente troppo freddo. Sotto gli occhi di Donald altre due si trascinarono fuori dall’acqua con movimenti sgraziati e pesanti e si spinsero lentamente sulla sabbia. Oscillavano, dondolando la testa e urtandosi nella loro goffa avanzata.
La luce della luna copriva tutto d’argento, proiettando dubbi e ombre. Perciò Donald si strofinò gli occhi e guardò ancora, ma loro continuarono a oscillare, si alzarono in piedi e uscirono da quelle pelli spesse, aiutandosi a vicenda a liberarsene. Sei, sette, forse nove giovani donne, snelle e aggraziate, che tenendosi per mano iniziarono a danzare come se la luna le avesse attirate verso l’alto, fuori dal mare, quasi sospese nell’aria, inebriate dalla gioia.
Galleggiando in silenzio accanto agli scogli Donald le fissò. Ormai si erano alzate tutte, lasciando le pelli di foca sulla sabbia come scogli umidi. Correvano e saltavano, completamente nude, ansando di risate rauche e inseguendosi lungo la spiaggia. Donald non riusciva a smettere di guardare. Un’altra storia da bar: foche che sono anche esseri umani, e vengono a riva di tanto in tanto in luoghi invisibili agli uomini. Ma lui le stava vedendo, se le stava bevendo con gli occhi, in tutta la loro esultanza. Forse allora era vera anche la storia della Terra della giovinezza, e tutti gli altri racconti illusori da ubriachi. Ma Donald non dedicò loro neanche un pensiero. Solo quello che vedeva in quel preciso momento era vero e reale.
Quasi senza riflettere aveva preso i remi e aveva cominciato ad avvicinarsi, mantenendosi dietro gli scogli anche se questo significava perderle di vista per un po’ e remando senza neanche uno schizzo, come aveva imparato nelle lunghe notti trascorse a pescare da solo. Serpeggiando tra un masso e l’altro trovò un punto adatto per scendere dalla barca e trascinarla in secco. Erano ancora fuori vista. Centimetro dopo centimetro avanzò lentamente sulla riva, avvertendo lo scricchiolio delle scarpe e il rumore del pietrisco che si spostava sotto le suole. Ma alla fine trovò la spiaggia deserta.
Si rese conto di aver trattenuto il respiro solo quando vide il mucchio delle pelli, che giaceva ancora nel punto in cui loro se le erano tolte, e lasciò uscire l’aria dai polmoni in un unico, potente sibilo. Gli occhi non lo avevano ingannato: era tutto vero. Nessun segno di vita; anche se in quel momento, sforzandosi di captare altri suoni oltre il battito del proprio cuore, udì delle risate a una certa distanza. Con la cautela di un cacciatore strisciò verso le pelli e si accucciò, attento a cogliere il minimo movimento. Non ce ne furono. Le pelli giacevano immobili, abbandonate, screziate e scintillanti alla luce della luna.
Donald allungò una mano e toccò la più vicina. Era calda, come se conservasse ancora in parte la vitalità della proprietaria. Reso più audace, la tirò verso di sé e fece scorrere la mano lungo la grana liscia. Era impossibile avvicinarsi a una foca abbastanza da poterla toccare, a meno che non fosse morta o impigliata in una rete, ma le pelli erano utili per ripararsi dal freddo. E poi, chi poteva sapere quale magia racchiudessero quelle che aveva davanti? Di certo si trattava di un dono, un dono solo per lui. Guardandosi intorno Donald la raccolse e la spinse tra due scogli. Poteva tornare a prenderla più tardi; in quel momento la sua mente era altrove.
Si erano spostate tra le betulle e i sorbi che crescevano sopra la linea della marea, in un punto che il corpo massiccio e ingombrante di una foca non avrebbe mai potuto raggiungere. Stavano raccogliendo le bacche di sorbo, le mangiavano e sputavano i semi; appendevano i grappoli alle orecchie delle compagne, staccavano le foglie e se le passavano sui seni e sulle cosce. Probabilmente quelle pelli pesanti schermavano una gran quantità di sensazioni, pensò Donald. Le ragazze sembravano bambine appena uscite dal bagno, più nude che mai, come l’interno bianco dei rametti di abete quando gli si toglie la corteccia. Donald non aveva mai visto una ragazza senza vestiti, non sapeva nemmeno se quelle che aveva davanti potessero passare per esseri umani; ma il suo corpo non aveva dubbi. Rimase immobile, rigido, col sangue che gli rimbombava nelle orecchie, in preda alla voglia di piangere di fronte a quella meraviglia.
E poi una di loro lo vide.
Lanciò un acuto grido di allarme, quasi un latrato, e tutte le altre posarono gli occhi su di lui. Un attimo dopo gli passarono davanti, saltellando e scivolando sugli scogli nascosti, mentre Donald restava immobile con le braccia tese, quasi sperando di trattenerle. Lo urtarono nella fuga, e lui le seguì incespicando fino alla spiaggia, dove già stavano tornando a fondersi con le pelli di foca per poi trascinarsi verso l’acqua, senza più alcuna grazia nei movimenti. Quando Donald raggiunse la riva, l’ultima scivolò giù dagli scogli e fu accolta dai lievi vortici delle onde.
Donald rimase lì, esultante e disperato nello stesso tempo. Vide le loro teste voltarsi a guardarlo, ma sapeva che non sarebbero tornate. Continuò a fissarle per qualche minuto, rivedendo con gli occhi della mente le loro splendide forme danzanti. Poi un lieve rumore alla sua destra lo spinse ad alzare lo sguardo. Si bloccò.
Ne era rimasta una. Camminava lungo la battigia, torcendosi le mani ed emettendo brevi grida di desiderio verso l’acqua scura. Le teste delle sorelle scintillavano in attesa ad alcuni metri di distanza.
Donald capì in un attimo cosa era successo. Fece un passo avanti, a braccia tese, e lei indietreggiò, con gli occhi scuri spalancati. Se avesse continuato ad arretrare si sarebbe scontrata con gli scogli tra i quali era nascosta la sua pelle. Donald si mise a correre e le fu addosso quasi all’istante. Sembrava priva di peso, leggera come una bambina. Caddero insieme sulla sabbia dura e ondulata.
Si dimenava sotto di lui come un’anguilla, ma Donald mantenne la presa con forza. Avvertì il contatto dei seni schiacciati contro il suo torace, della sua gamba tra le cosce di lei. Per un attimo gli occhi neri si piantarono dritti nei suoi, e Donald fu assalito da un’enorme ondata di terrore, quello del pescatore che si aggrappa invano alla vita mentre il mare affamato lo inghiotte. Una puzza di creature annegate gli invase le narici. Chiuse gli occhi e tenne duro. Poi le difese di lei crollarono. Gridò una volta sola quando lui entrò in lei, dopodiché non emise più alcun suono.
Quando Donald riprese il controllo di sé e si guardò intorno, non c’erano più teste oscillanti nell’acqua. Lei giaceva immobile, col viso girato, ma appena lui iniziò ad alzarsi si voltò e cercò di fuggire. Donald la afferrò per il polso e la trascinò verso la barca, evitando il punto in cui aveva nascosto la pelle.
Una volta a bordo remò con forza verso riva. All’inizio aveva paura che lei saltasse in acqua, ma anche se teneva lo sguardo fisso sulle onde scintillanti in cerca delle sorelle sembrava che non potesse più raggiungerle.
Ben presto giunsero sani e salvi a terra, e in quel momento Donald tornò lucido e si strappò di dosso la camicia. Cercò di convincerla a infilare le braccia nelle maniche, poi rinunciò e gliela avvolse intorno. E così, incespicando nel buio, arrivarono al cottage, dove sua madre aveva messo una lanterna alla finestra per guidarlo verso casa.
Donald spalancò la porta e lei era lì, seduta davanti al fuoco a mescolare il contenuto della pentola grande.
Donald cominciò immediatamente a parlare. «Guarda cosa ha portato a riva il mare... credo che ci sia stato un naufragio. L’ho trovata così, lungo la costa. Non parla; forse è per lo shock. Hai dei vestiti da darle?».
Sua madre guardò tutti e due, e all’improvviso Donald pensò a quello che vedeva lei: suo figlio che stringeva per il polso una ragazza seminuda, con gli occhi sgranati alla luce del fuoco e le gambe macchiate di sangue. Non osò incontrare lo sguardo della madre. Ci fu un lungo momento di silenzio, poi lei si alzò, posò un braccio attorno alle spalle della ragazza e la condusse in camera da letto, mormorandole parole dolci e rassicuranti. Si voltò e disse: «Vai a prendere dell’acqua e mettila sul fuoco. Subito!». Dopodiché gli chiuse la porta in faccia.
[da Pelle di foca di Su Bristow, trad. di Silvia Castoldi, edizioni e/o]
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