Se l’acqua ride. La storia di Ganbeto che vuole fare il barcaro

Luigi Oliveto

09/07/2020

Siamo alla metà degli anni ’60 del secolo scorso, nella Bassa Padovana, con il boom economico foriero di cambiamenti radicali: usi, abitudini, comodità. Tanto per dire, quasi tutti in paese si stanno costruendo il cesso dentro casa, addirittura con uno strano e inutile oggetto, il bidet. La televisione in bianco e nero sfarfalla nei dopocena, ai lavori incerti o di fatica si preferisce quello nelle grandi fabbriche in città. Ma a incantare Ganbeto, un ragazzino quattordicenne, è il lavoro del nonno Caronte, che con la sua barca a fondo piatto chiamata Teresina continua (ancora per quanto?) a trasportare pietre, grano, ghiaia percorrendo fiumi e tratti di mare. Ganbeto non ha dubbi: «Poche cose restavano chiare, nella sua mente: che Pellestrina è un'isola magnifica. Che il mare ti entra dentro più dei fiumi. Che, soprattutto, non avrebbe mai fatto altro nella vita: il barcaro era l'arte per la quale sentiva di essere nato». Ecco la vicenda narrata da Paolo Malaguti nel suo ultimo romanzo “Se l’acqua ride” (Einaudi). In estate, quando Ganbeto sale sulla barca del nonno come mozzo, per lui è un’avventura e una scoperta di mondi che non hanno eguali. La quiete e i rischi della navigazione, i paesaggi che si vedono, le campane di Venezia sentite dal mare, gli attracchi, le soste, i personaggi incontrati nelle osterie, le ragazze belle e appena intraviste (forse belle perché appena intraviste). E poi quella lingua parlata dal nonno e dai suoi omologhi, arcaica, colorita, tanto essenziale quanto evocante. Resta il fatto, però, che Ganbeto è figlio di un’epoca di transizione. Di ciò dovrà prenderne dolorosamente atto, nonostante la sua ostinazione, il suo pensarsi invincibile. La vita è così, ad ogni svolta qualcosa di noi va lasciata. E’ una storia intensa. Bravissimo Malaguti a raccontare con estrema asciuttezza quanto, a momenti, solleciterebbe lacrime.
 
***
 
[…]
Era già passato un po’ di tempo dall’inizio dell’estate, ma la fine era ancora lontana: un’eternità di vita davanti, prima dell’autunno. Avevano scelto una piarda tranquilla per gettare le ancore. Il nonno Caronte aveva pensato di passare lì la notte, l’ultimo carico era stato consegnato la mattina, il ritorno poteva essere lento, e lo sarebbe stato.
Quando dopo cena rimanevano un po’ sopracoperta, suo nonno se ne stava seduto come in trono, e suo padre, steso su un fianco, si sistemava appena più sotto, sulla coperta da prora. Ganbeto invece, se il burcio era carico, preferiva stravaccarsi sui sacchi, se era grano, o direttamente sulla scaia con cui si fa il cemento, o sulla rena ancora tiepida per il sole da poco tramontato, ma umida, rinfrescante.
Se la piarda correva vicino a una macchia, nella penombra partiva presto il concerto delle rane, a volte arrivava un’intera luminaria di lucciole che pareva infestonare il burcio come per le processioni della Vergine. E poi passava sempre qualcuno, sull’argine, che fermava la bici e scendeva volentieri a far quattro ciacole, sentire da Caronte come andavano le cose nel mondo, e bere un goto di rosso.
Quel giorno però giusto al tramonto era arrivato improvviso uno scravasso, con tuoni che rotolavano come barili, e allora si erano ritirati subito nel palcheto. Suo padre, stanco per aver aiutato i cariolanti nel lavoro di scarico, dopo pochi istanti già russava.
Ganbeto provava un po’ di imbarazzo a rimanere così, al chiuso e nello stretto, con suo nonno: all’aperto si poteva permettere di lasciare andare lo sguardo intorno, se ne stava nel buio ad ascoltare il parlottio lento e uguale dei grandi, e non di rado si addormentava cullato dall’impercettibile rollio del burcio.
Suo nonno si era acceso il mezzo toscano, seduto con le gambe a penzoloni tra palcheto e paiòlo, e si era messo a contemplare l’ampia stiva vuota. Era passato un tempo indefinibile, Ganbeto stava quasi per decidersi ad andare a far compagnia a suo padre nel mondo dei sogni, quando all’improvviso la voce del nonno arrivò alle sue orecchie. Il vecchio gli dava le spalle, era immobile e l’unico segno di vita, oltre a quel borbottio, veniva dalle volute di fumo azzurro che si levavano sulla sua testa, nel basso ambiente illuminato a malapena dal canfìn.
Caronte non gli parlava spesso. Fin dal primo giorno sul burcio più che altro gli aveva lanciato ordini, rimproveri, battute sferzanti, ma niente che potesse essere assimilato a una conversazione vera e propria.
– Una sera, pensa che ero ancora morè… sarà stato el venticinque… Il paròn del burcio me ga portà in osteria, l’era la mia prima volta… era di novembre, da le parti de Brondolo. In osteria c’era un vecio barcaro.
Il nonno si interruppe, spessi pennacchi di fumo sostituirono le sue parole, sfaldandosi fra le travi sulle loro teste. Ganbeto non capiva se Caronte stesse cercando di ricordare, o se quel silenzio fosse dovuto alla matassa troppo densa e improvvisa di memorie assiepate dietro la fronte rugosa.
– El nome del barcaro l’era Bepi S’ciona. A un bel momento Bepi S’ciona mi dice «vieni con me, bocia». Il paròn mi fa «vai, niente domande». Fuori da l’osteria l’era scuro, caligo fitto, non si vedeva un’ostia.
Caronte aveva seguito Bepi S’ciona nella stiva vuota del suo burcio. Lí Bepi gli aveva indicato, senza parlare, delle macchie ampie e scure, che disegnavano strane forme lungo il fasciame e sul paiòlo. Poi si era messo a frugare nel cassòn, tanto che il nonno aveva temuto che ne estraesse un coltellaccio per farlo a tocchi e buttarlo ai pesci, come nelle fole.
Invece Bepi aveva tirato fuori un elmetto taliano, di quelli dell’altra guerra, e aveva parlato: nel ’18, come tutti i barcari in volta tra Po e Sile, anche lui dava una mano all’Italia portando roba sul suo burcio. Quell’autunno, però, a lui e agli altri era arrivato l’ordine di navigare vuoti fino alla Piave. Erano saliti a bordo due fanti, ognuno con un rampino, e via, a pescare i morti che scivolavano bianchi sull’acqua gialla e spumosa. Taliani, kakàni, tanti senza barba, che parevano puteleti in divisa.
Quelle macchie sulla banda morta, aveva rivelato alla fine Bepi S’ciona, erano il sangue rimasto dopo che i morti erano stati scaricati. Non era più stato capace di lavarlo via.
Ganbeto ascoltava rapito. Difficile dire se il fascino maggiore fosse dato dalla consapevolezza che anche suo nonno era stato un ragazzo, e per di più un morè come lui, o da quella storia di morti senza nome e senza tempo. Caronte tirava dal toscano ormai ridotto a un mozzicone. A un certo momento ebbe un sussulto, batté le nocche sul fasciame della Teresina, e borbottò, segnandosi in fretta: – Ave pater mater dei sicuterio principio.
Si girò infine verso Ganbeto con lo sguardo acquoso, distante, e concluse: – Andemo a dormir, bocia, che doman se lavora.
 
[da Se l’acqua ride di Paolo Malaguti, Einaudi, 2020]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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