E pensare che a qualcuno le anguille suscitano repulsione. Non è così nel romanzo d’esordio dello svedese Patrik Svensson (“Nel segno dell’anguilla”) dove esse sono oggetto di un affascinante racconto. In effetti qualcosa di magico e misterioso questa creatura lo possiede. A cominciare dal luogo in cui nasce, il Mar dei Sargassi, un mare nel mare – scrive l’autore – che “non è facile dire dove abbia inizio e dove finisca, sfugge alla misura del mondo.” Un mare che, come nei sogni, rende difficile capire quando vi si entri e vi si esca, “si sa solo che ci si è stati.” Ecco, allora, che Svensson sviluppa una storia di formazione nel segno di un animale che è pesce e serpente, che per sua natura guizza e sfugge alla presa, è anfibio, intraprende lunghe migrazioni. Il libro racconta di un padre e di un figlio che nelle notti estive vanno, giustappunto, a pescare anguille elaborando strategie e ingegnosi sistemi di lenze. In quelle notti al chiaro di luna, i due parlano di pesca. Ma non è tanto significativo ciò che si dicono, quanto ciò che, pur non detto, va costruendo tra i due un rapporto, una conoscenza reciproca: “O meglio, non mi ricordo proprio che parlassimo. Forse perché in effetti non lo facevamo mai. Forse perché ci trovavamo in un luogo dove il bisogno di parlare era limitato, un luogo che per natura poteva essere meglio apprezzato in silenzio. Il riflesso della luce lunare, l’erba frusciante, le ombre degli alberi, lo scorrere monotono del torrente e i pipistrelli come asterischi svolazzanti. Bisognava stare zitti per diventare una parte del tutto.” Padre e figlio si scoprono vicendevolmente mentre la natura si rivela loro con i suoi misteri, le sue leggi di vita e di morte. L’anguilla è stata da sempre materia di studio di biologi e pensatori (persino Freud le dedicò uno studio). Nelle pagine di Svensson – attraverso un racconto che mette insieme scienza, memoria, affetti – diventa metafora della nostra esistenza. Quella dei singoli e dell’intera umanità, oggi quanto mai vulnerabile. Non è un dettaglio sapere che a causa dell’inquinamento le anguille sono a rischio estinzione. Forse anche noi.
***
È stato mio padre a insegnarmi a pescare le anguille. Nel torrente che delimitava i campi vicino a quella che era stata la sua casa d’infanzia. Ci arrivavamo in macchina al tramonto, in agosto, svoltando a sinistra dalla strada principale, dopo aver superato il torrente, per imboccare una stradina che altro non era se non una traccia lasciata da un trattore, e poi scendere per un ripido pendio fino a costeggiare l’acqua. A sinistra c’erano i campi, il grano maturo sfiorava la fiancata dell’auto con un rumore graffiante, a destra l’erba alta e frusciante. Oltre l’erba c’era il corso d’acqua, un torrente largo circa sei metri, che scorreva quieto snodandosi nella vegetazione come una collana d’argento al calar del sole.
La macchina procedeva piano, vicino all’acqua che spingeva impetuosa intorno alle rocce e oltre il vecchio salice. Avevo sette anni e avevo già percorso quella strada molte volte. Quando la traccia delle ruote finiva contro una parete impenetrabile di vegetazione, papà spegneva il motore, e calavano il buio e il silenzio, a eccezione del dolce mormorio dell’acqua. Indossavamo stivali di gomma e pantaloni impermeabili, i miei gialli e i suoi arancioni; prendevamo dal baule due secchi neri con l’attrezzatura da pesca, una torcia e un barattolo con i vermi e poi ci avviavamo.
Sulla riva l’erba era bagnata, fitta e più alta di me. Papà stava davanti per battere la traccia, e quando passavo la vegetazione si chiudeva ad arco sopra la mia testa. I pipistrelli volteggiavano sull’acqua, silenziosi come neri punti di domanda contro il cielo.
Dopo forse quaranta metri mio padre si fermava guardandosi intorno. «Qui va bene» diceva.
Un pendio ripido e fangoso portava al torrente. Se si inciampava, c’era il rischio di cadere e scivolare dritti in acqua. Cominciava a far buio.
Papà spostava l’erba con una mano e scendeva lentamente in diagonale, poi si girava e allungava la mano verso di me. Io la prendevo e lo seguivo con la stessa studiata prudenza. A bordo d’acqua schiacciavamo l’erba in modo da formare uno spiazzo dove appoggiare i secchi.
Imitavo mio padre mentre in silenzio ispezionava l’acqua, seguivo il suo sguardo e immaginavo che quello che vedeva lui fosse quello che vedevo io. Naturalmente non c’era modo di sapere con certezza se avessimo scelto un buon posto. L’acqua era scura, qua e là gruppi di canne ondeggiavano in modo minaccioso, ma sotto la superficie tutto ci era precluso. Non potevamo sapere, ma sceglievamo di avere fede, come alle volte si deve fare. Pescare significa proprio questo.
«Sì, qui va bene» ripeteva papà girandosi verso di me, e io prendevo una lenza a più ami dal secchio e gliela passavo. Lui piantava la canna nel terreno e avvolgeva velocemente il filo, prendeva l’amo fra le dita e impietosamente toglieva dal barattolo un verme bello grasso. Si mordeva le labbra mentre lo studiava alla luce della torcia e, dopo averlo infilato sull’amo, lo teneva sospeso davanti a sé fingendo di sputarci sopra come portafortuna, sempre due volte, prima di buttarlo in acqua con un ampio movimento. Si chinava a toccare il filo, controllava che fosse teso e che la corrente non lo allontanasse troppo. Poi si stiracchiava, diceva «bene», e risalivamo il pendio.
[…]
Quando eravamo giù al torrente, non mi ricordo che parlassimo d’altro se non di anguille e del modo migliore per catturarle. O meglio, non mi ricordo proprio che parlassimo.
Forse perché in effetti non lo facevamo mai. Forse perché ci trovavamo in un luogo dove il bisogno di parlare era limitato, un luogo che per natura poteva essere meglio apprezzato in silenzio. Il riflesso della luce lunare, l’erba frusciante, le ombre degli alberi, lo scorrere monotono del torrente e i pipistrelli come asterischi svolazzanti. Bisognava stare zitti per diventare una parte del tutto.
Può anche darsi però che io mi ricordi male. La memoria è traditrice, sceglie cosa tenere e cosa eliminare. Quando cerchiamo di ricostruire una scena del passato non è per niente detto che ci ricordiamo gli aspetti più importanti o rilevanti, piuttosto ci ricordiamo quello che sta meglio nel quadro. La memoria crea un dipinto in cui i diversi dettagli devono completarsi a vicenda. Non utilizza colori che stridono con lo sfondo. Quindi diciamo pure che stavamo in silenzio. Non saprei comunque di che cosa avremmo potuto parlare.
Abitavamo a un paio di chilometri soltanto dal torrente, e quando arrivavamo a casa la sera tardi ci toglievamo stivali e pantaloni sulle scale, e io andavo dritto a letto. Mi addormentavo subito; il mattino dopo, appena passate le cinque, mio padre mi svegliava. Non c’era bisogno che dicesse granché. Mi alzavo in fretta, mi infilavo nei vestiti e pochi minuti dopo eravamo in macchina.
Il sole stava sorgendo, giù al torrente. L’alba tingeva la parte inferiore del cielo di un arancione carico, e l’acqua sembrava scorrere con un suono differente, più limpido, più cristallino, come se si fosse appena svegliata da un dolce sonno. Intorno a noi si sentivano anche altri rumori. Un merlo che cantava, un’anatra selvatica che si tuffava goffamente in acqua. Un airone sorvolava silenzioso il torrente con quel suo lungo becco che sembrava un pugnale alzato.
Attraversammo l’erba umida e di nuovo ci facemmo strada in diagonale lungo il pendio fino alla prima lenza. Papà mi aspettava, e insieme studiammo il filo teso, cercando segni di movimenti o altre attività sott’acqua. Mio padre chinandosi saggiò il nylon con la mano. Poi si raddrizzò e scosse la testa. Recuperò il filo e tenne sospeso l’amo davanti a me. Il verme non c’era più, probabilmente rubato dalle lasche, scaltre.
Ci spostammo alla lenza successiva, ugualmente vuota. Idem la terza. Il filo della quarta, invece, era teso di lato in mezzo alle canne e quando papà provò a tirarlo, era incastrato. Lui borbottò parole incomprensibili. Prese il filo con entrambe le mani e tirò più forte, senza che questo si muovesse di un centimetro. Poteva essere stata la corrente a trascinare amo e piombino tra le canne. Ma poteva anche essere che un’anguilla avesse abboccato all’amo e fosse rimasta impigliata insieme al filo nella vegetazione e adesso se ne stava lì ad aspettare il momento opportuno. Tenendo la mano stretta sul filo si riuscivano a percepire deboli movimenti, come se la cosa che si nascondeva sotto la superficie, all’altra estremità, stesse facendo forza.
Papà cercava di assecondare il movimento e poi tirava, si mordeva il labbro e imprecava per la rabbia. Sapeva che c’erano solo due modi per uscire da quella situazione, e in entrambi i casi ci sarebbe stato un perdente. O lui riusciva a stanare l’anguilla e a tirarla su, oppure doveva tagliare il filo lasciando l’anguilla sul fondo, incastrata fra le canne, con l’amo e il piombino a farle da zavorra.
Questa volta però non sembrava esserci alternativa. Papà si spostò di lato, provando con un’angolazione diversa, tirando così forte che il nylon si tese come una corda di violino. Ma non servì a niente.
«No, così non va» disse alla fine, e provò con tutte le sue forze finché il filo si spezzò con uno schiocco secco.
«Speriamo che se la cavi» commentò, e continuammo ad andare su e giù dal pendio.
Alla quinta lenza papà si chinò e tastò piano il filo con i polpastrelli. Poi si raddrizzò e fece un passo di lato. «La prendi tu?» chiese.
Afferrai il nylon e tirai dolcemente, sentendo subito la forza che mi rispondeva. La stessa forza che papà aveva percepito soltanto con le dita. Mi resi conto che conoscevo già quella sensazione, così tirai con più vigore, e il pesce cominciò a muoversi. «È un’anguilla» dissi ad alta voce.
Un’anguilla non tenta mai movimenti repentini, come potrebbe fare un luccio, per esempio, ma si muove strisciando di lato, il che crea una specie di resistenza risucchiante. Ha una forza sorprendente rispetto alle sue dimensioni ed è un’ottima nuotatrice nonostante le pinne ridotte.
Cercai di tirare in su il più lentamente possibile, mantenendo teso il nylon, nel tentativo di prolungare l’attimo. Ma il filo era corto, e non c’erano canne in mezzo alle quali l’anguilla potesse trovare rifugio, così poco dopo la tenevo sollevata fuori dall’acqua e osservavo il suo corpo lucente, bruno-giallastro, muoversi nella luce del primo mattino. Provai ad afferrarla dietro la testa, ma era praticamente impossibile tenerla ferma. Mi si attorcigliò intorno al braccio come un serpente, su fino al gomito, e percepii la sua forza più come un’energia statica che non come un movimento. Se mi fosse sfuggita la presa in quel momento, sarebbe scappata nell’erba e poi di nuovo in acqua prima che riuscissi a riprenderla saldamente.
Alla fine liberammo l’amo, e papà riempì il secchio di acqua del torrente. Feci scivolare dentro l’anguilla, che iniziò immediatamente a nuotare in circolo lungo il bordo; papà mi mise una mano sulla spalla e mi disse che era proprio bella. Poi ci muovemmo verso la lenza successiva, salendo e scendendo con passo lieve dal pendio. E mi lasciò portare il secchio.
[da Nel segno dell’anguilla di Patrik Svensson, trad. Monica Corbetta, Guanda, 2019]
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