Era dai tempi de “Il taglio del bosco” cassoliano (oltre mezzo secolo fa) che non capitava di leggere così tanti e affascinanti dettagli sul tema. Il taglio del bosco, appunto, con le sue regole, la fatica, la poesia. Succede ancora oggi con il romanzo di Sandro Campani, “I passi nel bosco” (Einaudi). I personaggi sono così tanti che l’autore ha ritenuto di fornire una pagina iniziale con nomi e ruoli, alla maniera d’una locandina di cinema (in tal caso comprese le comparse); ma il protagonista principale pare essere il bosco. Siamo in un paese dell’Appennino tosco-emiliano. Sono i giorni del taglio del bosco, un rito, un’occasione che riunisce gli abitanti della piccola comunità, alcuni per lavorare, altri per curiosare o più semplicemente per ritrovarsi, bere insieme un bicchiere. Ecco, allora, sfilare un assortito campionario di umanità. Per prima la vedova Betti, proprietaria dell’albergo diffuso e anche del bosco appartenuto al defunto marito Fausto. Il taglio è per lei una dolorosa ricorrenza, l’evocazione di un dolore, di una pena ingarbugliata con l’edera e i rovi che, senza la cura del suo Fausto, infestano le piante. C’è poi Francesco, il notaio, in cerca del figliolo delinquente. Daniele (detto Danielone) ex promessa del ciclismo e buono a nulla. Emilia, la chiacchierona che porta a spasso il cane Baby. Oreste giardiniere tuttofare. Kon-Tiki, gestore del Lago Vecchio dove, due domeniche al mese, si organizzano gare di pesca. Baffo Fantini che lavora in una stalla, ma soprattutto beve. E altre figure che si ritagliano su questo microcosmo largo quanto uno sbadiglio. Personaggi che, già detti così, fanno un romanzo. Però maggiormente presente, almeno nei discorsi, è colui che è il più assente, Luchino. Uno di loro che da lì se n’è andato: per codardia? coraggio? noia? avventura? Ciascuno ha una propria versione e ciascuno, ora, chiede all’altro se lo abbia visto tornare per l’occasione (c’è chi sussurra di sì, è stata notata la sua Peugeot 206). Perché Luchino è comunque un eroe (magari negativo), rappresenta un termine di paragone per essergli migliore o peggiore, uguale o diverso. Un esempio da imitare, o forse no (chi c’ha provato è finito male). Insomma, ognuno ha un conto in sospeso con lui. Mai era stato così presente come dal giorno in cui aveva passato la montagna. E tutti, parlando di lui, non si accorgono che finiscono per parlare di sé stessi.
***
Io temo l’odore dei salici, amo quello delle querce; riconosco i passi di Luchino sulle foglie. Nessuno se lo immaginava, invece io sapevo che sarebbe ritornato: tipico suo, da somaro. Ho riconosciuto la sua camminata; non le sue scarpe: i suoi piedi. Ho pensato che lui fosse scalzo, e infatti arrivando lo era; ma non solo scalzo, era nudo: dove avessero buttato la sua roba, quando l’avevano pestato, chi lo sa. Dio santo, com’era messo: si era coperto di spine, mi ci è voluta un’ora per staccargliele dai punti più impensati.
Arriva nel sole, con gli occhi storditi, sta in piedi per i quattro venti, mi basterebbe un soffio per farlo cascare in terra, è storto e insanguinato, per un po’ mi resta anche il dubbio che non abbia capito chi sono. Cosa ci facevo lì al fiume? Leggevo un libro, e fumavo; al lago d’estate vado meno, troppa gente. L’ho sentito prima di vederlo, nudo e scalzo, sulla rena che scottava, sugli spungioni e gli stughi, le foglie di salice, e da quella volta – la prima – per me l’odore dei salici è quando Luchino ritorna.
Anche stavolta l’ho sentito, giù alle briglie.
Ieri l’altro di mattina presto sono scesa all’albergo dalla Betti. Appena luce, noi due ancora da sole, stavamo guardando da dove cominciare, quali guide lasciare nel taglio, e io mi sono accorta di tre salici affacciati sulle briglie, e mentre ne sopportavo l’odore – perché le foglie dei salici hanno un odore più grosso di quello che mostrano, c’è dentro troppo caldo e troppo suono, dovrebbero essere di carne, per giustificare quell’odore – si è sentito il rumore della macchina, la sua. La Betti a quel punto mi ha detto che Luchino sarebbe venuto, che aveva chiamato il giorno prima. (Io non mi stupisco che lui non mi abbia avvertita, non lo fa mai).
Abbiamo preso la riva dalle briglie, poi la carrata che va giù in diagonale, segnando le piante a modo nostro: nel pezzetto in costa abbiamo segnato le guide da lasciare in piedi; nel resto del bosco abbiam fatto a rovescio, segnando le piante da buttare giù, quelle malate, o troncate dalla neve quest’inverno. Qualcuno avrà da brontolare per il metodo, ma se davvero saremo in cinque in una giornata facciamo – e in settimana, col trattore, si porta su tutto con comodo.
Quando abbiamo finito nel bosco e siamo state là per salutare Luchino, era già rintanato: aveva lasciato la macchina in cortile, aveva preso la chiave di una casupola dell’albergo diffuso, e si era andato a riposare.
«Dài, se torni per cena lo saluti», ha detto la Betti, ma io ho lasciato stare.
Immaginavo già la processione, come ogni volta che torna, e volevo lasciarla sfuriare; tutti si chiedono per quanto resterà stavolta: anche quelli – e io ho l’idea precisa di chi siano – che gli fecero quello scherzo al fiume. I più coglioni vengono a cercarlo al bar, ondeggiano col busto, picchiettano le mani sulle cosce, e dicono: «Allora, Luisa?» E intendono: Allora? Luchino? Ma lui al bar non c’è: non passa mai. Loro vanno all’albergo diffuso, dalla Betti, e là riconoscono la macchina, che macchina avrà questa volta Luchino? Una Peugeot 206; anche se l’ha cambiata, si capisce che è la sua: dall’incuria, dai ninnoli sopra il cruscotto, dalla confidenza con cui l’ha parcheggiata storta, non lo saprebbero dir bene, ma si capisce.
Entrano, domandano alla Betti. Si fanno fare un caffè, guardando intorno; anche se non domandano, la Betti risponde: «Non c’è, è giù alle briglie». Allora chi ne ha voglia aspetta e beve due birre, e al bagno esterno, pisciando, ascolta il torrente e gli sembra impossibile che arrivi fino al mare, passando proprio qui da questo buco.
All’ora di pranzo lo vedono salire, bello bello, con Beniamino che gli cammina al fianco tirandosi dietro una frasca, o una spada giocattolo che lui gli ha appena portato – Beniamino ha otto anni, e per lui Luchino è Salgari. Li segue il gatto immancabile, venti passi dietro di loro, miagola a intervalli costanti per dire: Non dimenticate, anch’io faccio parte della spedizione. Ce l’hanno sempre attaccato alle gambe: solo da loro due si fa prendere; con gli altri, Betti compresa, il gatto è scontroso e inculento. La Betti lo scalcia, odia tutte le cose con il pelo; ma se Beniamino si sta alzando, in camera di sopra, lo capisci perché il gatto vien giù per le scale a precederlo. Ha la coda mozza, e cammina ancheggiando, perché al movimento per essere fluido manca il resto della coda. Gli occhi non sono mai compassionevoli né furbi: quel gatto sa che uno sguardo impassibile è ciò che può salvargli il portamento. Li segue nel sentiero sporco e scomodo per lui, ma si stacca appena vede il rischio d’essere importunato da altri esseri umani.
«Oh ve’, Luchino», dicono quelli, sempre un po’ canzonatori: vorrebbero mascherare il sussulto che hanno nel rivederlo, mettendo su quella confidenza sbadata – lui gli ripete la formula in faccia, «Oh ve’», e il loro nome. Oppure fanno un cenno con il mento, e la sua risposta è un sorriso. Sorride meglio di loro: i loro sorrisi sono falsi. Vengono a controllarlo, a slecchinarlo. Qualcuno immagina che lui resterà. Ma io so che ritornerà via, e loro saranno di nuovo stupiti e sollevati, in fondo, e potranno chiedersi a quel punto dove andrà, che è una domanda meno impegnativa rispetto a quest’altra: Cosa farà, questa volta, se resta?
[da I passi nel bosco di Sandro Campani, Einaudi, 2020]
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