“Benedetti siano gli istanti, e i millimetri, e le ombre delle piccole cose”. La frase di Fernando Pessoa contenuta nel “Libro dell’inquietudine” è una delle citazioni poste in esergo a “Le cose che ci salvano” di Lorenza Gentile. Romanzo che – rischiando l’onta per manifesta ingenuità – pagina dopo pagina sviluppa una pedagogia del ‘piccolo è bello’. E nel piccolo non possono stare sprechi, smanie consumistiche, oltraggi all’ambiente. La protagonista, una ventisettenne di nome Gea, vive in un condominio sui Navigli di Milano nella casa che era stata della nonna, ma la grande città le è estranea. La sua esistenza sta tutta entro i confini del quartiere, e non desidera altro. Già è molto rispetto al posto sperduto in cui è cresciuta con un padre perennemente assillato dalle sciagure che da un momento all’altro potevano piombare addosso. Il quartiere dà un senso di protezione e una concreta percezione di umanità. Per quanto lei viva da sola, tale non può dirsi: “Nella mia vita ci sono la signora Dalia, che fa da portinaia a tutto il condominio; Trofeo, il mio vicino sessantenne che non apre mai bocca; Angelina, proprietaria della tavola calda Il Nulla, e suo figlio Eugenio, che vuole diventare autista di corriera; senza dimenticare i negozianti del quartiere e tutte le persone che incrocio nei miei giri, con cui scambiamo un sorriso e talvolta un “Buondì!”. Sono gentilezze importanti, scintille che accendono la giornata. In quei momenti mi sento tutt’uno con la vita e il futuro mi fa un po’ meno paura.” Gea ha messo pure in atto una “economia circolare di quartiere”, distribuisce gli oggetti che ripara e che restituisce a nuova vita, così come dispensa ristori per lo spirito attraverso poesie, citazioni, pensieri, magari racchiusi tra pieghe di origami. Ha manualità, è una tuttofare con tanto di salopette multitasche, e da questa attitudine ricava quanto basta alla sua sussistenza. Ma darà ancora più consistenza al suo modo d’essere e di agire quando la vecchia bottega di rigattiere appartenuta a Dorothy, donna di spiccata personalità, dovrà essere sgomberata e posta in vendita. Dopo anni di chiusura, poter rialzare quella saracinesca rossa sormontata dall’insegna “Nuovo mondo” (quasi un ossimoro per una bottega di robe vecchie) diverrà per Gea ragione di vita. Perché salvare cose è salvare sé stessi, e anche un po’ di mondo.
***
Buttare è sprecare un’opportunità, spesso la migliore. A cosa possono mai servirmi un mix assortito di cavi connettori, due lampadine a incandescenza fulminate, una bussola da carteggio, un fischietto, una confezione di guanti in lattice, diciotto residui di sapone, trentacinque rotoli di carta igienica finiti, un tavolino rococò a cui ho aggiustato una gamba, un telo impermeabile, una torcia a energia solare, un bastone da passeggio intagliato, un paralume senza lume, un tagliacarte con inciso sopra un fiore?
Be’, è proprio questo il punto: tutto può tornare utile prima o poi. Se salvi una cosa, questa un giorno può salvare te.
C’è chi per voltare pagina va dall’altra parte della Terra, io sono venuta a Milano. Cinque anni fa, per chiedere consiglio a mia nonna. Ero sola al mondo e lei era l’unica che mi poteva aiutare, ma la sera prima che arrivassi si è coricata presto per un lieve mal di testa e non si è più rialzata, lasciandomi senza nient’altro che la mia tristezza, la borsa degli attrezzi e la piccola oca di ceramica che tenevo in tasca.
Il quartiere era proprio come quando lo avevo visto da bambina: le botteghe, il pavé, il tram, il ponticello, la chiesa. Era perfetto e mi ha dato il benvenuto, così non oltrepasso mai i suoi confini. Non sai mai cosa può capitarti, fuori.
A nord la circonvallazione ci separa dal centro. È fatta ad anello e viene percorsa in lungo e in largo da ogni tipo di umanità. C’è chi corre in ufficio con lo zaino del computer e, a volte, lo sguardo di chi vorrebbe essere altrove, lo sguardo di chi si chiede: “Chi me lo fa fare?”. Non avere scelta potrebbe essere un sollievo, perché quando ti senti artefice del tuo destino ogni cosa diventa una battaglia: se perdi, sei sbagliato tu. Sono persone, queste, che vorrei abbracciare, a cui vorrei dire: ne so qualcosa.
C’è chi passa le giornate sulla circonvallazione trascinandosi dietro borse di tutti i tipi con dentro la propria vita perché non ha più dimora; gente risucchiata dalla metropoli e poi sputata via. Sono soli e abitudinari come fantasmi. Hanno sempre una storia da raccontare. Lo so da Angelina, perché quando passano dalla sua tavola calda, Il Nulla, lei rimane ad ascoltarli. È un modo per farli tornare a esistere, le ho fatto notare un giorno, e lei era d’accordo.
A volte, quando trascorro un’intera giornata senza che qualcuno mi abbia guardato negli occhi, me lo chiedo, se sono ancora al mondo. Se un albero cade nella foresta e nessuno lo sente, fa rumore? Io penso di no: il mondo non può esistere, se non c’è nessuno a percepirlo. E così anche noi esistiamo soltanto quando qualcuno ci guarda, quando qualcuno ci ascolta, se qualcuno riconosce che siamo lì. È anche per questo che mi piace passare dal Nulla per aiutare Angelina. Non parlo molto, forse, ma ascolto, e così mi sento viva.
Sulla circonvallazione intasata dal traffico si muovono anche tante persone a metà, bruchi che ancora non sanno se diventeranno farfalla. Un giorno avranno lo sguardo da “chi me lo fa fare”? Si trascineranno dietro un carrellino con tutte le loro cose? O passeranno le sere a osservare lo skyline da un attico in centro? Torneranno da dove sono venuti? Me li ritroverò sul pianerottolo?
Il quartiere dove abito è tranquillo. A est e a ovest è delimitato dai due Navigli, un aspetto da non sottovalutare. L’acqua ti ricorda che puoi sempre salpare. Io sto ferma e la guardo scorrere, mi regala un senso di leggerezza e di libertà, come se un giorno potessi ricominciare da capo, smontare il passato come una vecchia credenza e ricavarne una nuova.
Chi mi sorprende a pescare nel canale sembra trovarlo strano, ma non è forse più paradossale mangiare la zuppa congelata del supermercato in cui otto tipi di pesce e crostacei sono stati importati da India, Cina, Perù, Grecia, Argentina, Indonesia e assemblati in un posto ancora diverso insieme a solfiti e altri additivi? Magari varrebbe la pena di far valere il mio punto di vista, ma non oso. Le persone mi piacciono, e io vorrei piacere a loro, perciò rimango zitta quando mi guardano storto, e sorrido, come scusandomi di essere un tipo singolare.
Nella mia arca di Noè non ci vorrei un supermercato, a essere sincera. Perché comprare lì uno shampoo, per esempio, che ha dentro la paraffina, che è un derivato del petrolio, quando possiamo utilizzare una pappa di farina di ceci e acqua tiepida? Perché acquistare un vaso da fiori fabbricato oltreoceano quando basta un flacone vuoto di detersivo, e intendo un flacone recuperato per strada, perché non c’è motivo nemmeno di comprare il detersivo, dal momento che esistono aceto, sapone di Marsiglia e bicarbonato?
Passiamo il tempo a fare lavori che non ci piacciono per poi acquistare cose di cui non abbiamo bisogno. Alla fine, basta un po’ d’ingegno. Lavorare meno e ingegnarsi di più, diceva sempre mio padre.
Di lavori è pieno il mondo, io faccio la tuttofare nel nostro palazzo. La gente spesso non si fida. Non è considerato un mestiere da donne. Di solito i tuttofare sono uomini nerboruti in tuta da lavoro. Be’, la tuta la indosso anch’io, una salopette di jeans a cui ho cucito tasche sulle gambe, e chi scopre quante cose so aggiustare, montare, smontare, pulire, riadattare in genere mi richiama.
Per vivere bene basterebbe poco. Oltre all’ingegno ci vorrebbe un po’ di buon umore. Ma il buon umore non lo si può fabbricare, ed è difficile da trovare in giro.
[da Le cose che ci salvano di Lorenza Gentile, Feltrinelli, 2023]
Torna Indietro