Roberto Ridolfi e l’acqua del Chianti

Massimiliano Bellavista

29/01/2020

Sulla sovraccoperta de “L’acqua del Chianti” di Roberto Ridolfi edito nel marzo 1981 si scrive che «Sulla prosa di Ridolfi sono d’accordo tutti, da Montale a Emilio Cecchi. Indro Montanelli, sul Corriere della Sera, ne scrisse di queste pagine, terse, senza una sbavatura, saporose d’antico e pur modernissime, non c’è rimasto che Ridolfi a saperne scrivere». Non solo: il Dizionario della letteratura italiana contemporanea, nel 1973, lo indica come «uno dei prosatori più limpidi della nostra attuale letteratura». Ma di lui si sa ormai poco, e, se di Ridolfi, discendente di una delle più nobili famiglie fiorentine, capita di leggere qualcosa è essenzialmente per via della sua monumentale opera di storico. E qui viene la questione che anima questa puntata dei sommersi: L’acqua del Chianti, che raccoglie alcuni elzeviri di Ridolfi comparsi in quegli anni sul Corriere, è stata per chi scrive una rivelazione, il preciso indicatore che, negli ultimi trent’anni, sottacqua c’è finito non un autore, sulla opportunità del cui naufragio potremmo anche tranquillamente sbagliarci, ma tutta una fetta prestigiosa della cultura italiana. E questo, ci pare, è un dato oggettivo. In altre parole, dov’è finita quella illustre tradizione di scrittori e giornalisti capaci di firmare quel tipo e quel livello di elzeviri? È forse finita come la setta dei poeti estinti? Con il termine ‘elzeviro’ si allude ovviamente al famoso articolo di apertura della Terza pagina, riservato in via esclusiva agli scrittori affermati e alle loro libere riflessioni, all’eccellenza e all’eleganza delle loro parole e della loro scrittura.

Tutti questi scritti avevano nomi caratteristici. Emilio Cecchi coi suoi ‘Pesci rossi’ e Montale con le sue ‘Farfalleo leVariazioni’, poco sopra citati, furono insigni elzeviristi, lo fu anche Papini prima di loro con le ‘Schegge’, mentre quelli di Ridolfi si chiamavano ‘Ghiribizzi’ o ‘Palinfraschi’; nel contesto giornalistico attuale se va bene per elzeviro si intende poco più che una recensione.  Umberto Folena, editorialista di Avvenire, in un volume recentissimo, del dicembre 2019, dell’elzevirista, ovvero di colui «cui è permesso discettare un po’ su tutto con garbata ironia», dice apertamente che «Il problema, non da poco, è che oggi gli elzeviri non si scrivono più. È pura, favolosa archeologia. L’elzeviro come divertita divagazione, un andare felicemente a zonzo tra fatti e idee seguendo l’estro, tra giochi di parole e spunti brillanti senza mai prendersi troppo sul serio… alla fine il lettore si ritrova con un sorriso sulle labbra e qualche piccola idea in più nella zucca». Già, un problema davvero non da poco, che testimonia un evidente decadimento della nostra cultura. Eppure il libro che abbiamo in mano è solo del 1981.

Gli elzeviri si aspettavano, si leggevano con impazienza, si criticavano aspramente: sembra di parlare dei dinosauri, se si leggono in questo libro le pagine dedicate al modo con cui Ridolfi dialogava con i lettori, rispondendo alle loro moltissime lettere. Dice a un certo punto: «Ci sono poi lettere a dir poco bizzarre: tanto bizzarre che, a prima vista, viene fatto di prenderle come corbellature. Per esempio uno della Riviera Ligure testualmente scriveva: Sono un assiduo lettore della terza pagina del Corriere, specie degli elzeviri. M’è entrata nella testa l’idea che qualcuna delle seguenti firme sia uno pseudonimo e che si tratti in verità di una sola persona: Carlo Laurenzi, Indro Montanelli, Roberto Ridolfi. Se è così, non sarebbe meglio che gli articoli portassero tutti la stessa firma?». Incredibile davvero concepire una lettera del genere ai nostri tempi, come pure è arduo prestar fede alle proprie orecchie laddove Ridolfi narra la storia peculiare di un suo affezionato lettore, per il quale «L’amico Corriere era scuola e vita; i suoi redattori e i suoi collaboratori, anche se li conosceva soltanto di nome, erano per lui gente di casa».

Ecco l’antidoto all’oblio. Le parole, le parole senza cui non si pensa, non si può pensare, trovano in Ridolfi e nella sua prosa un rifugio naturale. Gli elzeviri insomma, a leggerli ora, sono delle autentiche riserve naturali per parole. Glielo aveva ben detto del resto anche Michele Prisco, altro illustre sommerso di cui presto ci occuperemo e già vincitore del premio Strega, che parlando implicitamente di Ridolfi senza mai nominarlo lo definiva sul Corriere come l’ultimo di una gloriosa stirpe, quella appunto degli elzeviristi, ma destinata certamente a soccombere vittima delle moderne ‘rivoluzioni culturali’. Così l’esimio scrittore del suo articolo «Se ne accorse subito. E di lì a qualche tempo […] accettò l’inattesa proposta d’andare in una grossa azienda provata ad organizzarvi l’ufficio stampa. S’impiegò». Parole profetiche quelle di Prisco, come oggi ben si vede, sennò nemmeno le citeremmo. Ma quanto al caso di Ridolfi, il nostro in realtà non fece mai quel passo e per orgoglio non mise ma in vendita la sua penna.

Ma veniamo al libro: Il primo capitolo, da cui ci viene il nome del volume, segue il magro corso della Greve, il suo costeggiare cautamente il colle di Percussina e lambire il poggio di Marignolle, ove l’autore risiedeva.  Poi alla Certosa di Monte Acuto il fiume riceve l’Ema, il fiume dantesco, in verità un fiumicello ‘alla mano’ come lo definisce Ridolfi e da quel momento fino alla congiunzione con l’Arno a Scandicci è un gustosissimo viaggio quello che dipana di fronte al lettore.  C’è un modo davvero diverso di descrivere i paesaggi chiantigiani, basti pensare ai paralleli improbabili e divertenti con il Nilo, con il Danubio o con il Po delle pagine di Bacchelli, accomunate a queste dalla presenza in entrambe di un mulino. Ma non finisce qui, più avanti si trova la sorprendente Pisa della giovinezza di Ridolfi, e c’è il Galluzzo, descritto in maniera davvero divertente nel susseguirsi degli anni e dell’urbanizzazione, smontando umoristicamente riga per riga e verso per verso le solenni rime del Pascoli «bramerebbe sempre il suo Mugnone/o il suo Galluzzo, in cui vivea mendico, dando per ogni bruco una canzone». Si descrive in altre parole l’effetto che i danni dell’espansione di Firenze e dell’industrializzazione hanno prodotto sul paesaggio, ‘sporcando’ al contempo paesaggio e memoria, e la parabola, racchiusa in due pagine, tutta tesa tra le rime dantesche dedicate al Galluzzo e il gracchiare di Canzonissima dai televisori è davvero esilarante.

Ma ci sono anche pagine di vita quotidiana dedicate ad eventi personali non belli «Non molte notti or sono, un valente manipolo di ladri forzuti m'ha scassinato la casa e sgomberato le stanze del piano terreno, portando via una grande, pesantissima tavola quattrocentesca, con lo stemma dei miei scolpito in altorilievo sui fianchi, e insieme ad essa altri mobili antichi ed altre stemmate anticaglie: erano i resti di un grande vascello che affonda, e quegli stemmi, la sua vecchia bandiera. Il danno è grosso, almeno per me; eppure tanto non me ne duole quanto dello scempio della mia biblioteca […] Più d'una settimana è passata da quella notte, ma ho voluto lasciare ogni cosa come i barbari l'hanno lasciata; sono rimasti i vuoti, sono rimaste le ferite nel legno, che pur dovrò prima o poi decidermi a far medicare; rimarranno per sempre quelle dell'anima. […] Da allora non sono stato più capace di aprire un libro, di scrivere qualche parola sopra un foglio se non finalmente queste di disperazione, forse di addio. Si direbbe che io avessi scritto finora a dettatura di questi libri ed essi, per l'orrore, si siano ammutoliti ad un tratto. […] Questa biblioteca ho vegliata quando avevo piena la casa di soldatacci tedeschi ed io, io solo, ero rimasto a vegliarla; le schegge d'acciaio sfrondavano gli alberi che la circondavano, piovevano sulla ghiaia del giardino, battevano sui muri esterni. Essa m'ha a sua volta vegliato quando, infermatomi gravemente, m'ero fatto portare tra i libri perché dove m'era piaciuto di vivere mi sarebbe piaciuto morire. Quelle giornate e quelle nottate sono forse il punto più alto e patetico del mio umano cammino. Insomma, qui ho goduto la pace, qui ho patito la guerra, e non soltanto le guerre dello spirito».

Insomma, questi e altri libri di Ridolfi, legati alla sua vita ed ai suoi elzeviri sono certamente degni di tornare a galla nella nostra memoria: del resto anche lui era ben conscio, quasi alla fine della sua esistenza, di appartenere ad un’altra epoca, più fortunata, della scrittura, rispetto alla imperante sciatteria attuale. Ma diceva anche che le mode passano, e fanno spesso dei giri su sé stesse, per poi tornare quando meno te lo aspetti al punto di partenza. Insomma, per concludere con le sue parole «Il mondo cambia e bolle ben altro nel pentolone: a chi lo dite! Ma non per questo dobbiamo diserbare i garofani di Sanremo…».
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Massimiliano Bellavista

Massimiliano Bellavista
Massimiliano Bellavista è consulente di direzione, blogger (www.thenakedpitcher.com) e docente di Management strategico presso l’Università di Siena. Vincitore di premi letterari, suoi racconti e poesie sono pubblicati su riviste e antologie. Scrive una rubrica fissa per la rivista stroncature.com. Tiene regolarmente seminari di scrittura e in merito alla valorizzazione ed alla comprensione del libro antico come bene letterario e culturale. A Siena anima la scuola di scrittura Recensio. Riguardo alle sue opere di narrativa, poesia e management, pubblicate in italiano ed in inglese, tra le più recenti ricordiamo: Le reti d’impresa (Franco Angeli, 2012); Anatomia dell’invisibile (Tabula Fati, 2017); L’ombra del Caso (Il Seme Bianco 2018) e The Naked Pitcher (Licosia 2018); Dolceamaro (Castelvecchi 2019); Marketing e management degli impianti sportivi (Azzurra 2019); Vertical Farming (Licosia 2019)
 
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