Rileggere Simenon. Torna in libreria “Il dottor Bergelon”

Luigi Oliveto

17/03/2022

Della produzione letteraria di George Simenon è innanzitutto sorprendente la quantità: settantacinque Maigret, centodiciassette ‘romanzi duri’ (senza Maigret), cinquecento racconti per larga parte confluiti in dodici raccolte. Se consideriamo che i centonovantadue romanzi furono scritti nell’arco di un quarantennio (1931-1972), si deduce una media di cinque libri all’anno. È del resto nota la sua capacità di scrittura. Poteva raggiungere le ottanta pagine giornaliere, metodicamente generate nelle prime ore della mattina. Al contempo suscita ammirazione quella scrittura così minima, scevra di aggettivi, avverbi, costrutti troppo letterari (c’è chi ha stabilito che, mediamente, si hanno 12,6 parole a frase escludendo i dialoghi). Da questa inesauribile vena narrativa scaturivano storie perfette nel restituire atmosfere, luoghi, ritratti e psicologie di modesti personaggi della provincia francese o della più fastosa borghesia parigina. Solitamente investiti da drammi sproporzionati alle loro scialbe esistenze. E proprio in questo scarto andava a insinuarsi la cruda realtà che, in quanto tale, non poteva che essere raccontata con asprezza. Tra i molti titoli, conferma una siffatta maestria del raccontare “Il dottor Bergelon” (1937), romanzo ora pubblicato da Adelphi con la traduzione di Laura Frausin Guarino. Qui il protagonista è un giovane medico, il dottor Bergelon, che accetta la iniqua proposta del chirurgo Mandalin: “La parcella della prima operazione che mi procurerà sarà tutta per lei... In seguito, a ogni paziente che mi manderà, faremo a metà...”. Affare fatto. La prima cliente sarà la signora Cosson, consigliata di andare a partorire nella lussuosa clinica di Mandalin. L’inizio dell’accordo fu solennizzato, presenti le rispettive mogli, con una cena (e una sbornia) nella casa in collina del rinomato chirurgo. A incupire il giorno seguente non saranno, per Bergelon, solo i postumi della sbronza, ma dover apprendere che per la sua paziente qualcosa era andato storto. La signora Cosson e il neonato erano morti e adesso il vedovo voleva uccidere non il chirurgo ma chi glielo aveva indicato. A seguito di questo fatto, bizzarra (o psicologicamente meno prevedibile) è la reazione del giovane dottore. Viene preso da una forte inquietudine, non dovuta alla paura di finire ammazzato, ma al desiderio irrefrenabile di cambiare vita. Avverte in lui “una sorta di trepidazione, di ansia, una speranza, un'attesa, la voglia di fare un gesto – ma quale? – , di aprire non una porta, ma una strada, un mondo, una prospettiva nuova...”. Uscire da quell’angusto mondo di provincia, tanto rassicurante quanto oppressivo. Ecco, così, una di quelle vicende umane che lo sguardo di Simenon privilegiava. La storia di qualcuno che decide di voler essere altro da ciò che è.
 
***
 
Non c’era bisogno di essere medico per fare quella diagnosi: Bergelon aveva i postumi di una sbornia. La cosa non era sgradevole in sé, soprattutto finché se ne stava a letto. Sudando come sudava, gli sembrava che tutta la sua fatica, tutto ciò che di turpe aveva dentro gli uscissero lentamente dalla pelle. Senza contare quella specie di prurito da ferita che si cicatrizza...
Di lì a poco, quando si fosse alzato, non sarebbe più stato così. Avrebbe avuto un gran mal di testa, si sarebbe sentito confuso. Anche se non gli dispiaceva quella sorta di vaghezza, né i pensieri dolceamari che la accompagnavano: non è male, di tanto in tanto, lasciarsi prendere un po’ dalla malinconia.
Istintivamente, tastò il posto accanto a sé nel letto e seppe così, senza aprire gli occhi, che Germaine si era alzata. Era l’inevitabile pecca della situazione. Non gli avrebbe mosso rimproveri, ma sarebbe stata triste tutto il giorno. Triste e dolce, il che era peggio. E lui, già lo sapeva, non avrebbe potuto fare a meno di mormorare:
«Ieri sera devo aver bevuto un po’ troppo...».
Gesto vago di lei, come di rassegnazione:
«Non importa...».
Il che non avrebbe impedito a Bergelon di girarle intorno, di spiegarsi, di cercare di dimostrarle che non era colpa sua, che tutto sommato era piuttosto un bene...
Sempre con gli occhi chiusi, aggrottò le sopracciglia. Una mosca gli si era posata sul naso. La finestra era aperta. Il sole inondava la stanza e la strada era deserta. Conosceva quell’atmosfera. Non si sentivano né la trombetta dell’erbivendolo né l’aprirsi e il richiudersi delle porte al passaggio di chi andava al lavoro, per lo più impiegati.
Inoltre, le campane annunciavano una messa: era domenica. Germaine era appena rientrata e si stava togliendo il cappotto in corridoio. Tornava dalla funzione delle sette a Saint-Nicolas, dove aveva fatto anche la comunione.
Porte che sbattevano, scarpe chiodate che raschiavano il legno dei gradini delle scale: di sicuro Émile andava al raduno degli scout, mentre sua sorella si sarebbe chiusa in bagno per un’ora buona.
Probabilmente il ragazzo esitava a svegliare il padre per chiedergli il supplemento domenicale della paghetta che questi gli dava all’insaputa della madre.
Germaine stava preparando la tavola. L’acqua bolliva sul fornello a gas perché, nelle domeniche d’estate, si faceva a meno di accendere il fuoco.
Ed ecco che, a un tratto, Bergelon sentì come una fitta e fu proprio con quella fitta quasi impercettibile che cominciò tutto. Esattamente come capita a certi malati.
«Ha avvertito qualcosa negli ultimi tempi?» domandava loro.
«Forse sì... Ogni tanto, specie la mattina a digiuno, un senso di vuoto qui, nel petto...».
«Da quanto tempo?».
Per lui erano domande di routine: facevano parte del quotidiano. Per loro i pochi minuti che passavano nell’ambulatorio, dopo aver fatto la fila sulle seggioline rivestite di velluto verde della sala d’attesa, costituivano la svolta definitiva. Quelli che erano stati solo malesseri vaghi e fitte a stento avvertite ora prendevano un nome e le persone, di punto in bianco, acquisivano la condizione di malati.
Era sudato fradicio, fu sul punto di aprire gli occhi, di pensare in modo lucido, ma alla fine preferì crogiolarsi ancora per alcuni minuti in quella sonnolenza.
Un volto... Uno di quei volti giovani, incompiuti e tuttavia già segnati, in cui l’ansia si mescola a un che di aggressivo nello sguardo... Ne andavano spesso, in ambulatorio, di quei giovani, quasi sempre per porre la stessa domanda:
«È quello?».
Li sentiva tremare. Lo spazio tra il naso e il labbro superiore si copriva di goccioline umide.
Questa volta era diverso. Cosson, il figlio dell’ex poliziotto che era morto di un cancro allo stomaco – lo aveva curato lo stesso Bergelon –, lo guardava con un’angoscia più intensa, forse addirittura minacciosa...
Si rigirò nelle lenzuola. Doveva decidersi ad alzarsi. La porta si aprì. Era Émile.
 
[da Il dottor Bergelon di George Simenon, trad. di Laura Frausin Guarino, Adelphi, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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