Quando ho saputo che Paolo Ciampi aveva scritto un libro sull’Indiano - che per i più dei comuni mortali fa solo rima con ‘ponte’ e soprattutto con ‘traffico’ (il quale è un’assoluta certezza a Firenze la mattina come a Roma l’attesa biblica sul GRA) e per i restanti fiorentini è il Caronte che con i suoi stralli in acciaio unisce i quartieri di Peretola (a nord dell’Arno) e dell’Isolotto (a sud dell’Arno) - ho subito pensato che si fosse messo in un’impresa difficile ma meritoria. Meritorio era far sapere del Principe indiano morto troppo presto e troppo giovane (appena ventuno anni) a Firenze il 30 Novembre1870; meritorio rendere noto ancora una volta che Firenze non è fatta solo di Piazzale, Boboli e Uffizi; meritoria in generale di questi tempi era la scrittura di un libro fuori dagli schemi. Quando poi però ho iniziato a leggerlo, gentilmente inviatomi dall’autore stesso con un cortese biglietto firmato di suo pugno, sono rimasto assai stupito. Per quelli che amano la letteratura e in generale lo scrivere, quella che segue è una storia degna di essere raccontata almeno tanto quanto il libro di Paolo Ciampi è assolutamente meritevole di essere acquistato, perciò ascoltatemi se potete per un momento. Le coincidenze sono incredibili. E questo libro in questi giorni è stato un compagno interessante, ma anche sornione e beffardo, rivelatore di strani incroci di destini. E interessi letterari. Il libro per cui alcuni han tirato in ballo autori come Pessoa o Tabucchi, ma che a me come stile adottato onestamente, se proprio si devono fare degli accostamenti, fa più pensare a Joyce e a Svevo, sospeso com’è, anzi oscillante, tra un flusso di coscienza a volte erratico e un monologo interiore più argomentativo, ha prima di tutto una genesi particolare. L’autore ne racconta il dietro le quinte, a cominciare dall’annuncio che ne fa pubblicamente, durante un evento letterario. Ne seguono una gestazione e una scrittura, come si apprende dal testo, piuttosto discontinue e irregolari, costellate da molti dubbi e ripensamenti. E molte visite al Monumento funebre del Principe.
Da uno scrittore come lui, che ha elevato il concetto di viaggio a suo personalissimo Canone letterario, è singolare e interessante leggere che A forza di scrivere di viaggi, sai, comincio a coltivare qualche perplessità. L’inquietudine dell’altrove si misura con l’inquietudine dell’ovunque: si va lontano e niente è davvero diverso. Avanza il sospetto che non sia questione di chilometri, ma di distanza interiore. Il Principe e la sua statua quindi non paiono gli attori del libro, ma piuttosto una sorta di confessionale laico, dove l’autore depone i suoi dubbi e i suoi propositi senza attendersi assoluzioni ma solo ascolto. All’annuncio pubblico del libro, segue ora quello interiore. Mi è venuto in mente di scrivere di un viaggio che nemmeno parte, un viaggio di chi rimane sempre nel solito posto, e magari vede andare e venire gli altri. Come nelle vecchie camere oscure, dove la fotografia si veniva definendo agitando delicatamente i liquidi nella bacinella, onda dopo onda, così nel volume il personaggio di Rajaram Chuttraputti di Kolhapur, giovanissimo principe ereditario che stava tornando in patria di ritorno da un viaggio politico e di istruzione in Europa (si potrebbe definirlo un Grand Tour all’indiana, dove quindi non era l’Italia ad essere centrale bensì Londra, capitale dell’impero) diventa sempre più nitido capitolo dopo capitolo. All’inizio è una statua (tra le altre cose, i lavori di restauro sono terminati proprio lo scorso settembre. Fate come Paolo, prendete la bici e andate a vederlo al parco delle Cascine), alla fine del libro un Uomo, uno Spirito, forse anche in qualche modo un Convitato di pietra.
Ora, più o meno quando Paolo annunciava il progetto del libro e si metteva in caccia del suo Indiano, io ancora non lo conoscevo di persona, ma seguivo le tracce di Angelo De Gubernatis. Complice un tramonto da druido (una delle tante belle immagini uscite dalla penna ben appuntita di Paolo), stavolta non fiorentino ma triestino, a un certo punto mi capita in mano un suo libro, piuttosto raro a trovarsi, del 1878, dal titolo un po’ macabro Usi Funebri in Italia e presso gli altri popoli indoeuropei. Che c’entra? C’entra che la cosa mi ha fatto fare un salto sulla sedia perché nel libro di Paolo, l’eclettico professore, saggista, studioso e letterato pieno di sè, anarchico e un po’ paranoico Conte De Gubernatis (nel 1906 sarà addirittura candidato al Nobel per l’Italia) è la ‘spalla’ del nostro Principe. Si chiamava Angelo de Gubernatis, nel 1861 fu il primo a laurearsi in Lettere nel Regno d’Italia appena proclamato, l’anno dopo partì per Belrlino per studiare il sanscrito. Era una scelta a dir poco originale, ma gli procurò una cattedra a Firenze. (…) Si interessava a tutto il De Gubernatis, forse a troppo. Si accendeva di passione e, dopo poco, in genere si spegneva. Solo l’amore per l’India non gli venne mai meno.
Le sue prime lezioni furono pubblicate in opuscoli che inauguravano in Italia il filone di studi indologici, e questo personaggio dalla cultura vastissima, ma che spesso non curava a sufficienza le sue opere, sempre preso da un altro interesse, è lo specchio dell’Europa, dell’Italia e della Firenze di quegli anni che il Principe Indiano trova durante il suo viaggio, sospesa tra positivismo e spiritualismo, facile agli entusiasmi ma anche e sempre più presa da dubbi e interrogativi sul futuro. Insomma De Gubernatis è un’ottima scelta per l’esito del volume. Quello che non mi immaginavo è che, quando ci siamo conosciuti a inizio 2020, in pieno lockdown, Paolo ed io avessimo nella nostra testa un amico comune. Proprio lui, il Conte. E non lo sapevamo. Non ce lo siamo mai detti, non c’è ne è stata l’occasione. Per lui, era l’eminente studioso e amante dell’India, per me, preso in quel momento dalla scrittura di un noir, l’eclettico studioso dei riti funebri. Nel libricino trovato a Trieste, De Gubernatis scrive Nell’Altharveda la causa della malattia è sempre qualche maleficio occulto di uomini e di dei. E qui le strade mie e di Paolo convergono. Il libro di Paolo dedica le pagine più belle a questa lenta convergenza verso la morte, una sorta di Via Crucis che inizia a manifestarsi il 13 Novembre 1870 Un po’ di febbre, niente di che. Normale in fondo per un Indiano che ha attraversato mezza Europa e ora dal Tirolo, si appresta a fare ingresso in Italia. Però la febbre va e viene, lo debilita a poco a poco, sottilmente, svuotandolo di energie. Poi c’è il viaggio, la visita a Venezia. E finalmente Firenze. La febbre ora torna, prepotente, il peggioramento è improvviso.
Scrive De Gubernatis nel mio libretto Il takman, la febbre, invocata come dio del giallo, affinché risparmi chi lo scongiura. Ed è curioso che per tal febbre intermittente viene pure usato nello scongiuro un metro che si alterna, un metro terzano. E quando la febbre diviene quartana, deve pure riuscire quartano il metro... Quando si consideri che la febbre è chiamata dal medico Sucruta, il re delle malattie (…) non vi è quasi malattia che nella credenza indo-europea non sia supposta contenere un demonio. Ed è davvero un demone spietato quello che uccide il Principe. In pochissimi giorni. Proprio come profetizzano i demoni delle scritture sanscrite del libercolo che ho in mano. È una scena bellissima da leggersi, surreale, onirica, ottimamente ‘girata’ più che descritta, quella che Paolo Ciampi dedica al corteo funebre, lo strano corteo che si forma sotto l’Albergo in Piazza Ognissanti. Gli otto domestici indiani che rabbrividiscono nel gelo della notte. Da sola vale il libro. Come prescrivono i rituali indiani, c’è bisogno di bruciare il corpo su di una pira. Cosa di certo non semplice da far capire alle autorità all’epoca. E poi c’è bisogno di due fiumi, perché è alla confluenza degli stessi che va innalzata la pira così da liberare l’anima per il suo viaggio. Solo che Firenze notoriamente ne ha uno. E la promozione fatta sul momento del Torrente Mugnone a ‘collega’ dell’Arno, è sospesa tra l’ironico e il grottesco, ma testimonia anche l’umanità e la disponibilità dell’Italia di allora, a tutti i livelli, popolari e istituzionali, che ne esce in questo senso assai meglio di quella di oggi. Anche questa parte vale la pena di un’attenta lettura. Me lo immagino quella notte di tanti anni fa il De Gubernatis lì a guardare la scena non sapendo se crederci davvero, peraltro come molti altri che vi assistettero. Il libro che ho in mano è di otto anni dopo, chissà che non avesse quella scena ben in mente quando lo scriveva.
E così la storia finisce grossomodo dove è iniziata. Davanti a un monumento che nel frattempo è diventato amico. Ad uno scrittore che lo guarda e nel frattempo è anche lui cambiato, cresciuto. In fondo come diceva qualcuno, ogni storia è un viaggio e una meta e ogni libro una strada per arrivarci, e ciò che contraddistingue un buon scrittore è il sapere accompagnare il lettore senza lasciarlo indietro e o farlo uscire di carreggiata. Lo stesso qualcuno aggiungeva che però questa è una capacità rara e che aveva visto molti incidenti nella sua vita. Credo che Paolo sia riuscito perfettamente nell’intento di accompagnarci a destinazione. Senza incidenti, anzi con grande piacere che certamente si attinge dalla lettura del suo Maragià. E sono abbastanza certo che quella non sarà la meta definitiva, ma la stazione di partenza di un nuovo viaggio che presto scriverà. Chiuso ermeticamente in zona rossa pur di partire sarei disposto anche a portargli le valigie.
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