27/06/2011
Fu il progetto di rendere edificabile la valle di Follonica a scatenare le polemiche che avrebbero evidenziato l’urgente necessità di elaborare il Piano Regolatore Generale comunemente detto Piano Piccinato, entrato in vigore, dopo non poche e non innocue traversie, nel maggio 1959. La domanda per un’intensiva lottizzazione del terreno compreso tra San Francesco e Santo Spirito fu avanzata dalla proprietaria, marchesa Ginevra Chigi Zondadari Bonelli, nel maggio 1952, rispolverando una delle idee più bislacche del Piano predisposto dal podestà Fabio Bargagli Petrucci e per fortuna mai andato in porto. In esso si prevedeva che in quella zona sorgessero “comode costruzioni civili ed il desiderato villaggio degli artisti”. Si sa che Siena è sempre stata molto ottimista quanto a disponibilità di autoctoni ingegni creativi. La ripresa dell’audace ipotesi a tinte corporative non era però finalizzata a dar ricetto a pittori e scultori, ma puntava a formulare una rapida (e rovinosa) soluzione per lo sviluppo edilizio di cui si avvertiva il bisogno. Il Comune fu preso alla sprovvista e il sindaco trattò l’affare come una pratica d’ordinaria amministrazione. La commissione edilizia dopo un attento esame formulò prescrizioni che riducevano drasticamente le cubature, ma non si gridò allo scandalo. Il soprintendente Enzo Carli, insediato da poco, non stette al gioco: osservò che ci si trovava in presenza di un vistoso piano di ampliamento e che come tale richiedeva di essere analizzato alla luce della legge 1497 del 1939. L’assessore ai lavori pubblici Ugo Bartalini nell’inviargli le carte si raccomanda che “la questione venga presa in esame e risolta, al più presto, data l’urgenza di iniziare i lavori”. Il Comune si liberava così dal peso d’una decisione difficile e passava la palla, tramite la Soprintendenza, al Ministero della pubblica istruzione, che allora aveva competenza in materia. Il responsabile della Direzione generale antichità e belle arti, Guglielmo De Angelis d’Ossat, spedì a quel punto – di sua iniziativa? – come ispettore abilitato a riferire della vicenda nientemeno che Luigi Piccinato, allora docente a Venezia e considerato uno degli urbanisti di più alto valore, esponente di spicco di una cultura di timbro olivettiano e d’impronta mitteleuropea. La sua bocciatura del tentativo di grossolana speculazione fu netta e severa: il piano, sentenziò nel rapporto del marzo 1953, avrebbe distrutto “irreparabilmente” la fisionomia stessa della città: “La difesa di Siena – aggiunse – comincia fuori di Siena: comincia proprio nell’impostazione più larga delle maglie più esterne del suo Piano regolatore, piuttosto che in disposizioni e decreti o divieti o limitazioni per la salvezza di quell’edificio o di quel quartiere o di quel monumento…”. In queste righe c’è già “in nuce” la filosofia che avrebbe presieduto alla difficoltosa elaborazione del Piano avviata nel 1954 e conclusa cinque anni più tardi, tra esiziali rallentamenti e deleteri vuoti normativi. L’episodio costituisce la preistoria di un’operazione della quale tanto si parla a vanvera ed è passo passo ricostruito con puntualità documentaria da Stefano Maggi nel volumetto promosso dalla Fondazione Monte dei Paschi e edito da Protagon: “Il Piano regolatore di Siena del 1956. Alle origini della città fuori le mura” (pp. 200, Siena, 2011). Son passati più di cinquant’anni ed era l’ora che, dopo una bibliografia già ricca di saggi e testimonianze, fosse avviata una ricerca suffragata da una corretta esplorazione archivistica. Gli intenti della collana, “Protagonisti e momenti”, nella quale il titolo è apparso sono divulgativi, ma in questo caso l’autore va ben oltre il livello richiesto, anche se resta al di qua di una compiuta e esaustiva analisi storica. Sicché il libro può essere letto con utilità sia da chi desideri avere un’informazione sommaria sia da chi si accinga a occuparsi di questi problemi e sia un po’ all’oscuro dei nodi e degli obiettivi perseguiti nel passato prossimo: il tempo più complicato da capire e da conoscere. Eppure il presente nel quale agiamo è il prodotto, talvolta diretto, di visioni o decisioni che hanno preso forma diversi anni fa. A Siena il tema dello sviluppo provocato dal miracolo economico fu affrontato con lucida tempestività. Maggi rammenta gli interventi cruciali, ripercorre animose polemiche giornalistiche, abbozza una plausibile cronologia. Ovviamente c’è da proseguire un lavoro proficuamente scandito. Intanto si può già dire che il Piano di Luigi Piccinato, Piero Bottoni e Aldo Luchini, viene in quest’indagine finalmente esaminato nella sua tormentata processualità ed esce così, almeno un po’, fuori dalla ferma aura mitica nella quale spesso è avvolto. Il risultato finale – è doveroso riconoscerlo – fu positivo grazie al concorso di molti fattori. Il ceto dirigente locale ebbe grandi meriti ed essenziale fu il contributo – la regia – di uomini come Mario Bracci e Ranuccio Bianchi Bandinelli, ma non minore fu il ruolo ascrivibile a chi dal centro, da Roma, in sede di Conferenza dei servizi presso il Ministero dei lavori pubblici o altrove, si dette da fare per stralciare previsioni o cancellare indicazioni ereditate dalla magniloquenza immaginata da Viligiardi e tutta protesa a facilitare accostamento e circolazione del traffico veicolare entro l’antico tessuto urbano. La strada a margine del centro storico che da via della Sapienza si sarebbe spinta fino alle Due Porte fu bocciata. Così lo sfondamento di via Garibaldi verso la Lizza. Così lo spostamento dello stadio dal Rastrello a Marciano. Così tante altre pasticciate invenzioni di brutale chirurgia. Cesare Brandi, da senese in esilio ed avverso all’amministrazione socialcomunista, sorvegliava da Roma con attiva insofferenza: molte correzioni si devono alla sue impuntature teoriche e al suo disdegno per ogni caduta demagogica. Chi si sprecò invece in demagogia a buon mercato fu buona parte delle dirigenze di Contrada, obnubilate ad arte da argomentazioni di potenza demografica e subordinate di fatto, talvolta in buona fede, a disegni di distruttiva speculazione. Se si fosse edificato indiscriminatamente entro le valli intraurbane o a casaccio subito accanto al perimetro delle mura, ai Tufi ad esempio, sarebbe scomparsa la forma stessa della città, esempio tra i più complessi in Europa di quell’urbanistica organica medievale che chiedeva scrupolosa interpretazione storicistica, e tutela consapevole e intelligente. Piccinato fu uno dei protagonisti, con Bruno Zevi, di un movimento, l’Associazione Per l’Architettura Organica (APAO), che ebbe risalto internazionale e vedeva in Siena un modello reso possibile da un graduale costruire a misura delle esigenze vitali. Ci si può chiedere fino a che punto si possa parlare di dissenso da parte delle Contrade in quanto tali rispetto ad un linea in realtà così confacente alla loro stessa natura o se non si debbano, piuttosto, individuare i gruppi di interesse che usarono settori del popolo dei rioni per spregiudicate manovre e manovrette. E andrebbe pure approfondito il dibattito politico che accompagnò l’azione amministrativa e interferì con la redazione dello strumento pianificatorio, così come fondamentali sarebbero riferimenti più circostanziati al quadro nazionale entro cui si collocò l’esperienza senese. “Lo sviluppo urbano – conclude Maggi soffermandosi su una prospettiva che i flussi dell’inurbamento generati dalla crisi della mezzadria e le conseguenti pressioni di crescita misero subito in crisi – doveva avvenire tramite piccoli nuclei separati che non si dovevano saldare l’uno con l’altro per non soffocare l’area urbana”. Questo schema di orientata costellazione a piccoli “borghi”, come allora si diceva, non ha retto – o ha retto poco – alla prova dei fatti: era molto debitore di un datato ruralismo fascista. L’idea che si addensasse quasi spontaneamente nell’area tra piazza Matteotti e la Lizza un nuovo centro cittadino a distinto prolungamento e moderna duplicazione della parte antica della città era ingenuamente fiduciosa. E lo stesso Piccinato con le dodici varianti – tra le quali quelle strategiche di San Miniato, Costafabbri, Isola e Taverne – richieste fin dal 1962 e approvate solo agli inizi degli Anni Settanta introdusse modifiche radicali. Lo stesso sistema della mobilità in conseguenza della chiusura, nel 1965, di gran parte del centro al traffico fu sollecitato verso approdi del tutto diversi da quelli immaginati. Insomma il Piano fu un processo da esaminare partitamente, non un testo compatto da giudicare in blocco. E la sua non lineare applicazione è importante più della definizione. Ma, anche dopo aver acquisito nuovi dati e aggiunto capitoli o dettagli al racconto fin qui tramandato, non si può non riconoscere al Piano che prese nome da Piccinato una qualità eccezionale e di aver funzionato egregiamente anzitutto come scudo di salvaguardia. Le preoccupazioni estetiche prevalsero sulla dimensione sociale: eppure questa priorità ha prodotto benefici incalcolabili, anche economici. Nella seconda parte del Novecento l’adozione del Piano del 1959 è stato di certo il capolavoro di un ceto dirigente – non dico classe politica, come oggi va di moda – che agì con supremo disinteresse e seppe ascoltare con ammirevole sensibilità lezioni che venivano da lontano. Non era prigioniero di un asfittico municipalismo, non subalterno ad una piccola borghesia chiusa nei suoi egoistici calcoli a corto raggio, e non si fece neppure attrarre dalla ricerca d’un consenso a buon mercato. Purtroppo non sempre trovò il coraggio per dire no. Troppe concessioni furono rilasciate e non solo nei dodici mesi – a partire dall’aprile 1958 – nei quali i vincoli del Piano restarono, non per caso, lettera morta. Nell’insieme la lotta che si svolse in un quinquennio di fuoco ebbe una conclusione felice. Ci aveva visto giusto Bianchi Bandinelli quando, alla vigilia del conferimento unanime da parte del Consiglio comunale degli incarichi, il 6 novembre 1954, scrisse a Piccinato tirando un respiro di sollievo: “Comincio ad avere concrete speranze che riusciamo a salvare Siena nel generale disastro delle città italiane! E molto del merito sarà tuo!”.
Articolo tratto dal “Corriere di Siena” del 23 giugno 2011
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