28/05/2010
La fotografia si sta conquistando una collocazione d’onore tra le fonti necessarie per scrivere di storia o più semplicemente per evocare i fasti dell’altro ieri. E bene fanno le istituzioni preposte alla tutela dei testi e alla promozione della ricerca ad acquisire – e inventariare come si deve – fondi di collezionisti sagaci e di agenzie o studi. È recente la notizia dell’acquisizione da parte della Fondazione Monte dei Paschi della raccolta, messa insieme con decenni di appassionate perlustrazioni per mezza Europa, di Ferruccio Malandrini: certo la più cospicua, e non solo per quanto riguarda Siena. Per una decisione confortante una realtà che suscita sgomento: l’archivio della Foto Grassi è andato per la massima parte disperso. Residua uno spezzone, al quale si attinge sempre con profitto, ma è poca cosa rispetto alla mole che sicuramente aveva. Chi non ricorda l’onnipresente Ugo Brandi armato della sua Rolleiflex? Dalla biottica più usata dai professionisti del reportage si ricavavano negativi 6 x 6 che erano l’ideale per opportuni ingrandimenti e molteplici tagli a uso giornalistico. Anche Mario Appiani si fece le ossa – meglio l’occhio – alla scuola di Brandi per presto muovere verso marcate ambizioni autorali. Il passaggio tra l’apprendistato e la costituzione di un proprio laboratorio fu il breve sodalizio con l’estroso Galliano Passerini, che si piccava di sfornare foto artistiche e coltivava una gran voglia di novità. Si trattava di abbandonare un mestiere esercitato per finalità probamente documentaristiche e dedicarsi ad un lavoro governato da una spigliata soggettività interpretativa. Fu il rotocalco a esigere immagini forti e capaci di suggerire in fulminea sintesi il significato di un evento o i caratteri di un ritratto. Il magnifico “Europeo” di Arrigo Benedetti fece scuola.
Mariolino si mise in proprio negli ultimi mesi del 1968: anno più cruciale non si potrebbe immaginare. Ora una sontuosa antologia in due volumi incofanettati a dovere, curata con sapienza da Giorgio Petreni e Senio Sensi, ottimamente stampata dall’editore Carlo Cambi (“Siena allo specchio. 1968- 1980”) consente di ripercorrere con dovizia di esempi un intenso ventennio di attività. Ed è un piacere sfogliare i due volumi, guardando una ad una le foto di un album pubblico che le dettagliate didascalie arricchiscono di essenziali e utili riferimenti. Non avrebbe guastato qualche notizia in più di natura tecnica: sapere le macchine impiegate, le ottiche preferite, le modalità di stampa. Mario usava in prevalenza l’Hasselblad, parente sofisticata della più tradizionale Rolleiflex, o la Nikon per il 35 mm. Evidente è la frequenza del grandangolo: l’inquadratura non voleva essere composta e estranea ai movimenti di quanto accadeva, ma voleva catturare il dinamismo della scena e trasmettere una partecipata visione personale. Basta soffermarsi su alcune immagini del primo volume – trascuro quello interamente dedicato al Palio – per rendersi conto del valore di scatti che son desinati a restare nel tempo. Per capirne strutture e apporti non giova abbandonarsi, come troppo sovente si fa, alla morsa (inevitabile) della nostalgia: che serve solo a sovrapporre alle immagini un velo tutto soggettivo di superfluo amarcord. La fotografia rivendica piuttosto una sua pertinenza sociologica anche quando è mossa da un’originale impronta creativa. La Ford decapottabile del sor Emilio Bassi fermata davanti al Santa Maria della Scala ha una solennità monumentale. La riproduzione di un panforte Nannini al posto della ruota di scorta già fa intravedere la commistione tra turismo e pubblicità che avrebbe dilagato. Nel Campo, ripreso dall’alto, continuano a giocare frotte di ragazzini, che scorrazzano in bicicletta senza inibizioni: siamo lontani dalla lieta e talvolta chiassosa invasione oggi in voga. Tra le Scuole materne che fiorirono in quantità all’inizio degli Anni Settanta figura quella tenuta dalle suore domenicane.
La scritta “Benvenute mamme”, le brandine per l’ora di riposo, l’ordine osservato nell’allineamento attestano una pedagogia. La panoramica di San Miniato restituisce onestamente l’idea di un quartiere pensato per essere immerso nella campagna e per assumere una distinta qualità urbana, ahimé compromessa dall’esiguità delle risorse. Un vecchio treno a vapore si fregia di uno sbuffo nerissimo abbandonando in lontananza una stazioncina che sembra un reperto di archeologia ferroviaria: qui l’accentuazione prospettica contribuisce a dare un respiro inusitato, grazie all’angolazione inconsueta. È una città molto combattiva e dovutamente cerimoniosa la Siena che sfila in queste pagine. Ma anche in una cerimonia Mariolino sfugge alla retorica dell’ufficialità. La celebrazione del 25 aprile del 1973 nel Campo, con tanto di banda e una miriade di gonfaloni municipali, emana un pacato sentimento civile: la gente chiacchiera in distratti capannelli mentre il povero oratore declama le formule abusate. La routine impera. La liturgia delle feste cateriniane non deflette dal suo impettito e militaresco rigore: monache e soldati in compatte schiere. Cortei operai e manifestazioni di protesta abbondano. E la visita dei leader storici è un avvenimento. Commuove Pietro Nenni che esce dal Metropolitan con l’immancabile basco, sorretto o piuttosto sfiorato, come fosse un santo in processione, da Liciano Marelli e attorniato da Giovannino Buccianti e Loris Savelli. Le mie didascalie sono più lunghe e più nominative di quelle ben cadenzate e asciutte stese per accompagnare le immagini. Il rischio – si sa – in imprese del genere è scadere nell’aneddotica. In questo caso è evitata o assai attutita, perché si tende a privilegiare momenti significativi e non spunti macchiettistici. Giorgio Napolitano che commemora ai Rinnovati, nel trigesimo, Ranuccio Bianchi Bandinelli, mentre con compunzione Fabbrini, Ciacci e Bardini più che ascoltare sembrano dialogare con l’oratore, è un pezzo forte. Il bel ritratto classicheggiante dell’archeologo, disegnato da Augusto Mazzini e trasportato a mano in Teatro da Ancilli e Palei, la dice lunga sull’etica del comunismo senese, sul suo rispetto per la cultura, sul suo senso della tradizione e la sua disciplinata devozione alle artigianali coreografie di massa.
Non mancano ritratti che fissano fisionomie e mestieri in pose statuarie o atteggiamenti confidenziali. Si vedano l’accigliata Margherita Zalaffi o Robertino, che offre cordiale il suo celebre aperitivo alla Conca d’oro. Il bianco e nero di Mario Appiani serba una fresca incisività che consegna le foto ad uno sperimentato passato prossimo: il tempo per eccellenza della fotografia, che, come afferma Roland Barthes, trasmette il fremito di ciò che è stato, non celebra ciò che fu.
Articolo pubblicato il 27 maggio su “Il Corriere di Siena”
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