Si intitola “La figlia unica”, è l’ultimo libro di Abraham Yehoushua, che lui dice sarà anche l’ultimo della sua lunga carriera letteraria. Un romanzo breve, una novella, una storia semplice raccontata con lo stile nitido cui ci ha abituati lo scrittore israeliano. La vicenda è ambientata nel Nord Italia, dove vive una facoltosa famiglia ebraica, i Luzzatto, che hanno una figlia (figlia unica) di nome Rachele, ragazzina intelligente, bella, così arguta e diretta nelle osservazioni da imbarazzare spesso gli adulti e le loro consolidate certezze. Lo sguardo di Rachele sulla sua famiglia e il mondo circostante diviene un punto di vista significativo per come risulti interlocutorio, perplesso, confuso; considerato come al fondo di questa titubanza ci sia la ricerca della propria identità. Tale è infatti la composizione della sua famiglia: il padre è ebreo e così il nonno paterno (un ricco avvocato); lo è anche la madre, convertitasi dal cattolicesimo all’ebraismo; il nonno materno (di modeste origini) è un cattolico devoto, non così sua moglie, atea dichiarata. In questo coacervo di fedi, idee, sentimenti più o meno creduti fino in fondo, Rachele è prossima alla cerimonia di Bat Mitzvà, rito di passaggio in cui ci si assume le proprie responsabilità verso la legge ebraica. Allo stesso tempo, a scuola, vorrebbero assegnarle la parte della Vergine Maria nella recita natalizia. La sua carnagione olivastra, la sua bellezza sarebbero perfette per il ruolo, e a lei non dispiacerebbe, ma suo padre si oppone fermamente a dover vedere la figlia nelle vesti della “madre di Dio”. Le diverse storie dalle quali provengono i componenti della famiglia (tra le esperienze più terribili quella del nazi-fascismo) pongono dunque Rachele in un frastornante universo di contraddizioni dove tutto risulta ambivalente. Con un guizzo di surrealismo, l’autore si inventa che in casa Luzzatto persino l’automobile non sfugge a questa dualità: è una macchina di fabbricazione inglese con il volante che è stato spostato a sinistra, ma con i pedali rimasti a destra, così che per guidarla occorre essere in due. Insomma, nel romanzo di Yehoushua tornano i temi a lui cari: identità, appartenenza, legami familiari, incontro e scontro tra diversità. Come lui stesso ha dichiarato, il libro è ambientato in Italia perché bene vi si riflette quel mix di identità che si sono avute nell’ebraismo della diaspora italiana a contatto con il cristianesimo. Se davvero sarà l’ultimo libro di Yehoushua, risulterà una sorta di testamento affidato alla leggerezza, alla vivacità, ai dubbi e alle inquietudini di una adolescente che sperimenta la fatica, forse anche il superamento, delle differenze.
***
L’insegnante non sente bussare alla porta. E nemmeno gli alunni, completamente assorti nel racconto. È l’ultima ora di lezione prima delle vacanze natalizie e dalle grandi finestre si vedono svolazzare tardive foglie autunnali. Nel cortile, accanto a genitori arrivati a prendere i ragazzi più piccoli, si accalcano gli studenti degli ultimi anni, che faticano a separarsi gli uni dagli altri. Ma la professoressa Emilia Gironi, che ha sostituito per un anno un’altra insegnante in maternità ed è oggi al suo ultimo giorno di lavoro, è ben decisa a non lasciare liberi i suoi alunni se non dopo aver finito di riversare in loro lo spirito candido e umanitario di Edmondo De Amicis.
Soltanto Andrea, sconcertato dal fatto che il personaggio del giovane Ciccillo insista ad accudire un estraneo moribondo anziché tornare al suo paese con il padre guarito, si accorge dei colpi alla porta e si affretta a interrompere il racconto: – Prof, hanno bussato.
L’insegnante va ad aprire con la sua copia di Cuore ancora in mano. – Ciccillo! – esclama divertita nel riconoscere un suo vecchio studente, che sembra uscito direttamente dalle pagine del libro. È stato mandato per riferire che l’alunna Rachele Luzzatto deve presentarsi dalla preside con zaino e cappotto.
Al centro della classe, quasi si aspettasse quella chiamata, si alza una bella ragazzina, alta, con i capelli ricci e gli occhi luminosi. Infila rapidamente nello zaino libri e quaderni e poi va a prendere il cappotto, con passo leggero. Per l’insegnante, però, non è facile congedarsi per l’ultima volta da un’alunna a cui si è affezionata. La trattiene, le allaccia un nastrino di seta al polso sottile: – Chiedi a tuo padre che ti trovi Cuore. Così potrai finire di leggere questo racconto, e magari anche gli altri.
– Ma abbiamo già letto tutto il libro alle elementari, – protesta Rachele, – perché dovrei rileggerlo?
– Perché ci si dimentica, – risponde l’insegnante, – e invece bisogna ricordare. E a gennaio vieni a trovarmi, così mi racconterai cos’hai provato e pensato, se ti sei rattristata o, chissà, magari ti sei commossa per il malato sconosciuto o per Ciccillo, che non voleva abbandonarlo.
– Ma come farò a raccontarglielo? – domanda Rachele. – Lei non ci sarà più, non sarà più la nostra insegnante.
La professoressa sorride. – Vieni a trovarmi a casa. Ecco, questo nastrino di seta ti ricorderà di me.
Con mano leggera accarezza la testa riccioluta della ragazza e l’accompagna, insieme allo studente, nel corridoio in penombra, rischiarato ogni tanto dalla luce delle aule vuote.
– Non sei tenuto a venire con me, conosco la strada, – dice Rachele al ragazzo. Ma lui non ha nessuna intenzione di abbandonare quell’allieva così carina. È stata la preside a chiedergli di portargliela, ed è quello che farà. Rachele lo osserva. Ha circa tre anni più di lei e i capelli chiari. Si chiama davvero Ciccillo?
– No, – ride lui, – ci mancherebbe.
– Allora perché non hai corretto la prof?
– Perché anch’io sono stato suo alunno e la conosco. So che le piace affibbiare ai suoi studenti i nomi dei personaggi dei libri.
– Allora come ti chiami veramente?
– Enrico.
– Enrico? – Rachele sorride. – È il nome del protagonista di Cuore.
– Forse. Non ricordo. E anche se fosse? Mi chiamo Enrico e basta. Ecco, siamo arrivati.
La preside, però, non è nel suo ufficio ed Enrico, fedele a una missione a cui ormai ha preso gusto, accompagna Rachele in sala professori, dove gli insegnanti e tutto il personale sono riuniti intorno a un panettone gigantesco ripieno di uvetta e canditi per festeggiare l’arrivo del Natale e del nuovo anno. Per non perdere la ragazza nel trambusto generale, le afferra delicatamente la mano e si fa strada verso la preside. – Ecco la studentessa che mi ha chiesto di portarle. Se vuole la posso accompagnare anche alle prove della recita.
Ma Rachele, per quanto carina, non parteciperà alla recita, né canterà nel coro, perché suo padre non glielo permette. – Suo padre? – si stupisce Enrico. – E perché mai? – La preside ignora la domanda e porta Rachele nel suo ufficio per informarla che la segretaria di suo nonno ha telefonato per chiedere che non torni a casa ma vada allo studio del nonno, perché suo padre e sua madre torneranno tardi dal loro viaggio fuori città.
– Conosci la strada o ti devo far accompagnare?
No, Rachele conosce la strada, non ha bisogno di una scorta.
– E dov’è lo studio di tuo nonno?
– Vicino al Duomo.
La preside non si accontenta di quell’indicazione. Vuole sapere il nome della via. Rachele non se la ricorda, ma in ogni caso conosce la strada, c’è stata un sacco di volte. È una piccola stradina dietro il Duomo. Tuttavia la preside ha paura a mandare una ragazzina tanto giovane da sola in centro e le chiede i dettagli del percorso. Rachele allora lo tratteggia nell’aria: con la mano destra e tre dita sollevate raffigura il Duomo e le guglie delle torri campanarie e della cupola, mentre con la sinistra traccia un vicolo in cui ci sono una pasticceria e una libreria, vicolo che sfocia poi in una piazza da cui si diramano varie vie, tra le quali anche quella di suo nonno. Dapprima ci si imbatte in un cancello blu, che non è quello giusto. E non è giusto nemmeno quello dopo, grigio. Più avanti, però, c’è un terzo cancello che le dita delicate della ragazzina ora aprono per entrare in un cortile dove, dietro a una statua di una donna dall’aria triste, si nasconde un piccolo ascensore. A Rachele, però, è vietato usarlo da sola, e perciò sale le scale fino al terzo piano, dove ci sono gli studi del nonno e del padre.
Per quanto colpita dalla descrizione, la preside propone di telefonare comunque a casa della studentessa per chiedere che sia la cuoca a venire a prenderla.
– La cuoca?
– La signora che cucina per voi e qualche volta ti aspetta all’uscita.
– Quella non è la cuoca, – spiega Rachele sorridendo, – è Tersilla, la donna delle pulizie.
– Allora chiamiamo Tersilla.
– Non c’è. Ieri papà l’ha mandata a trascorrere le feste con i figli e i nipoti.
– E allora chiamiamo davvero la cuoca. Qual è il suo nome?
– Martina. Però papà ha mandato anche lei al paese con la nostra cagna, perché nell’albergo in montagna dove andremo a sciare non la vogliono. È un cane da caccia, ed è un po’ selvatica.
– Tenete in casa un cane da caccia?
– Sì, e al paese ha anche un fratellino più piccolo.
La preside riflette stupita sulle risposte dell’alunna, i cui grandi occhi ora sembrano umidi di lacrime. Non può far altro che lasciarla andare da sola. Nel frattempo, però, il cielo si è rannuvolato.
– Hai un ombrello, o un cappello?
Rachele odia gli ombrelli, e oggi non ha preso nessun cappello perché papà le aveva assicurato che non avrebbe piovuto. La preside va all’armadietto di metallo in cui tiene i fascicoli degli studenti e prende un grande berretto color kaki, sbiadito, che scuote dalla polvere e calca sulla testa della ragazza. – Ecco, se oggi tuo padre non riesce a fermare la pioggia, almeno non ti si bagneranno i riccioli –. Poi soppesa lo zaino che Rachele porta sulla schiena per accertarsi che non sia sovraccarico, quindi la saluta.
La maggior parte degli insegnanti è già uscita dalla stanza, ad eccezione delle professoresse di musica e di religione, in attesa che la collega Emilia lasci finalmente liberi gli studenti che dovranno prendere parte alla recita. Anche Enrico è ancora lì. Raschia avanzi di panettone dalla carta e insiste per sapere perché il padre di Rachele non le permette di partecipare alla recita.
– Perché lei non è cattolica, – spiega la preside, – per questo suo padre non vuole che partecipi.
– Ma è solo una recita, non è mica una messa.
– Sì, glielo abbiamo spiegato, – dice la prof di religione, – ma il signor Luzzatto è stato irremovibile. «Avete già fatto fuori abbastanza ebrei, evitate di portarci via anche quei pochi rimasti». […]
[da La figlia unica di Abraham Yehoushua, trad. di Alessandra Shomroni, Einaudi, 2021]
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