Quando tornerò. Storia di rimpianti, rabbia e affanni

Luigi Oliveto

15/04/2021

Le vediamo per strada sorreggere persone anziane in passi brevi e rassegnati. Sugli autobus parlare ininterrottamente al telefono, parole fitte, senza respiri. Come se mollare il discorso comportasse un altro distacco, la rinnovata pena della lontananza, il rigurgito di un rimorso. Sono le badanti venute dall’Est. Vengono a prendersi cura dei nostri anziani, mettono a servizio la loro angoscia (per aver lasciato il proprio paese, la famiglia, gli affetti) così da liberare noi da angosce e sensi di colpa. Certo, le paghiamo. Ma poco interessa delle loro vite, dei loro pensieri, rovelli, sentimenti. Parla di questo l’ultimo romanzo di Marco Balzano “Quando tornerò” (Einaudi, 2021). È la storia di Daniela, giunta in Italia da un villaggio rurale della Romania per lavorare come badante, baby-sitter, infermiera. A casa la situazione economica era diventata insostenibile: un marito disoccupato, spesso sbronzo, due figli adolescenti (Angelica e Manuel), il suo lavoro sempre più precario. Così decide di partire per Milano. Lo fa di notte, fuggendo come una ladra, senza salutare. Lascia una lettera indirizzata ai figli: “Ragazzi miei, ho trovato lavoro in Italia. Devo andare, altrimenti non potete più studiare e a momenti neanche mangiare come si deve. Io invece voglio che viviate con le stesse possibilità degli altri. Discutere con vostro padre è inutile, per questo sono andata via così.”
Daniela ci ha pensato molto: giusto il tempo per raggranellare un po’ di soldi, poi sarebbe tornata. Occorre dunque fronteggiare la lontananza, il rimpianto, ripetendo di continuo a sé stessa e ai figli: “quando tornerò…”. Ma il ritorno (quello definitivo) pare sempre più dilatarsi nel tempo. Vi si frammette una distanza misurabile non solo in miglia, perché ad essere lontanissimi l’uno dall’altro sono due mondi (due modi di vivere, di pensare). Finché saranno circostanze drammatiche a imporre il ritorno di Daniela: Manuel è in coma a seguito di un incidente di motorino. Allora, accanto a quel letto d’ospedale, Daniela parla, parla. Parla ininterrottamente al figlio, come se lui la sentisse, per dirgli di tutto il tempo in cui non sono stati insieme, così da poter ripristinare una vicinanza, una maternità, una tenerezza, recuperare le tante parole non dette. Marco Balzano scandisce il suo racconto affidandolo alternativamente alla madre e ai due figli, a chi è partito e a chi è restato; e non sarà facile per Daniela spiegare alla figlia che si è sentita abbandonata: «Se non capisci tua madre, è perché ti ha permesso di diventare una donna diversa da lei». È una vicenda drammatica, ma grazie all’autore, senza toni drammatici. La forza del racconto sta tutta dentro le cose: che sono così, e basta. Storia di tormenti, rabbie, affanni e rimpianti in un interno di famiglia dove non è facile rimettere insieme le ragioni di ciascuno, perché ciascuno ha una sua legittima ragione. E rabberciato il puzzle, trovare la forza per altre partenze.
 
***
 
Partiamo dall’inizio. Quel mattino ci siamo svegliati come al solito alle sei e ci siamo messi a cercare Moma per tutta la casa. A un certo punto abbiamo persino spostato i mobili, come se Moma fosse un anello o un mazzo di chiavi. Quando papà ha capito che sua moglie se n’era andata davvero ha cominciato a prendere a calci le porte e a tirare pugni contro il muro. Io invece sono uscito sul pergolato, gridavo così forte il suo nome che dopo un po’ anche mio padre mi ha ordinato di piantarla.
– Manuel, prendi freddo, torna dentro! E con le mani callose mi ha afferrato la spalla guidandomi in casa.
Eccole davanti ai miei occhi, le mani di Filip Matei, classe 1972. Aveva lavorato per anni in una fabbrica di carta vetrata, un capannone enorme sul ciglio della strada: sollevava rotoli giganti e stendeva su un tavolaccio di ferro fogli lunghi dieci metri che pungevano la pelle peggio delle spine. A sera si sedeva di fronte alla tv e immergeva le mani in una bacinella piena d’alcol perché l’alcol fa uscire i calli e i calli proteggono. “Non ti fanno sentire i graffi della colla”, mi spiegava a denti stretti sforzandosi di tenerle a mollo. Sono uniche le mani di mio padre, tutti quei calli gli hanno tolto sensibilità e quando per gioco mi tira un pizzicotto sulle cosce non si accorge di farmi male.
Né io né lui, seduti al tavolo della cucina riuscivamo a parlare. Fuori era ancora scuro e avevamo la faccia rossa per il freddo. La cosa che mi faceva più rabbia era che Moma non avesse lasciato un biglietto. Chi scappa lascia sempre da qualche parte un pezzo di carta con una motivazione, una frase fatta, una scusa… E se non un biglietto, almeno un messaggio sul cellulare poteva spedirmelo. Invece nessuna notifica: solo Vlad, il mio compagno di banco, che mi chiedeva perché non fossi sul bus.
Angelica si era truccata e aveva messo i tacchi. Ho sempre pensato che mia sorella si vestisse un po’ da battona e che Moma avesse tutte le ragioni del mondo per sbraitarle contro, ma visto il momento ho lasciato perdere.
– Forza, Manuel, andiamo a scuola, – se n’è uscita all’improvviso.
– A scuola?! Ma il bus è partito da un pezzo!
– Entreremo alla terza ora.
Non che volessi scattare come un soldatino, ma in casa non si accendevano i termosifoni da non so quanto e io, dopo essere rimasto per un pezzo fuori sul pergolato, ero così intirizzito che senza fiatare mi sono infilato i jeans e la felpa. Soldi non ce n’erano, la fabbrica di carta vetrata aveva chiuso e l’azienda di Moma non pagava più gli stipendi. Da un anno tiravamo avanti con gli assegni di disoccupazione.
Non so perché alla fine ho dato retta ad Angelica, mio padre mi avrebbe tranquillamente tenuto a casa. Lui non ha la forza di opporsi, figuriamoci in una giornata come quella. Piuttosto, di una cosa potevo essere certo: a sera l’avrei trovato sbronzo.
Sono uscito senza sciarpa, con Moma non sarebbe mai successo: lei con un’occhiata ti ispeziona meglio di un metal detector. A un certo punto Angelica si è fermata e mi ha messo in mano una busta.
– Avanti, leggi, – ha detto prima che potessi capire.
 
[da Quando tornerò di Marco Balzano, Einaudi, 2021]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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