Quando credere in qualcosa diventa non solo importante ma necessario

Luigi Oliveto

25/10/2018

Bello e spiazzante l’ultimo romanzo di Paola Mastrocola. Quasi stupita lei stessa, pagina dopo pagina, di questa storia che va raccontando e che vede protagonista un bambino di sei anni, Leone (“Un bambino che sembrava essersi perduto in mezzo a qualcosa, un bosco di notte nell’era dei dinosauri”) figlio di un camionista e di una cassiera di supermercato, separatisi dopo un anno di matrimonio. Strana creatura è il piccolo Leone, il quale, senza che gli altri possano capirne le ragioni, si mette a pregare, in ginocchio, nei luoghi e nelle situazioni più impensate (su una panchina dei giardini pubblici, al cinema, in bagno). Recita le preghiere tradizionali del cristianesimo, che certamente non gli hanno insegnato i genitori, né zelanti catechisti. Ma che aveva appreso dalla nonna materna, morta quando lui aveva solo tre anni e la cui presenza lo rassicurava da paure e solitudine. La mamma Katia, già in affanno per il lavoro e il tirare avanti, è molto preoccupata per la condotta a dir poco imbarazzante del bambino; avvilita per come suo figlio diventi oggetto di scherno e di bullismo. Anche se avverte dentro sé interrogativi, sensazioni indecifrabili. E forse non solo lei, se a un certo punto altre persone si rivolgono al “bambino che prega” confidandogli sogni e desideri, magari perché si avverino. Leone – quel bambino così gracile, sperso, bizzarro – piano piano sembra assumere il ruolo di colui che indica la necessità di credere comunque in qualcosa. Questo, infatti, accade nel finale, quando un temporale da paura (un diluvio universale in scala) paralizza la città che resta senza corrente elettrica, telefoni, possibilità di comunicare. La gente del quartiere cerca allora rifugio in casa di Katia. Laddove c’è una consuetudine di preghiera; rivolgendosi dunque a un qualcosa, un qualcuno, un chissà chi, oltre se stessi e l’illusoria autosufficienza che un acquazzone può rendere inservibile in una manciata di minuti.
 
***
 
[…]
Il tempo di fare qualche lavoro in casa, e alle quattro uscì. Era solo un isolato, ma voleva arrivare prima, almeno un quarto d’ora in anticipo. Era un regalo che si faceva, a meno che qualcosa glielo impedisse, ma doveva essere qualcosa di veramente grave, perché ci teneva, a quel quarto d’ora. Le piaceva aspettare un figlio che usciva da scuola, voleva non perdersi il momento, anzi, allungarlo. Se arrivava in orario si guastava il piacere.
Si metteva sul marciapiede di fronte, contro il muro della casa. Da lì vedeva bene il cancello, ancora chiuso, e stava a guardare le altre mamme, che come lei aspettavano. Guardava com’erano vestite, cosa facevano. Molte le conosceva, quasi tutte, perché andavano al suo supermercato e spesso passavano da lei alla cassa. Difficile poi non conoscersi, al Bussolo, che era stato un paese a sé, una volta. Quando lei era piccola. Poi la strada provinciale era diventata un lungo viale alberato pieno di caseggiati nuovi, e il Bussolo adesso era tutt’uno con la città, uno dei tanti quartieri nella periferia nord, il più estremo, che finiva nei prati perdendosi nel nulla. Conservava però quell’aria distaccata di paese, piccolo, raccolto, strade ordinate e costruzioni basse, giardinetti, la piazza con la chiesa, il campetto da calcio.
[…]
A volte chiacchierava con le altre mamme, il martedì pomeriggio. E a volte no, preferiva rimanere per conto suo, a osservare, finché il bidello non apriva e la fiumana dei bambini si riversava fuori, correndo e urlando, i berretti storti, gli zaini buttati su una spalla sola. Non ci poteva credere che Leone avesse già sei anni, che facesse la prima elementare. Non poteva credere nemmeno d’avere un figlio, d’averlo partorito lei, sei anni prima, e che ora andasse nella stessa scuola dov’era andata lei da piccola, e che a poco a poco le era diventata estranea. Adesso era una di quelle mamme che aspettano i figli davanti a scuola, com’era stato possibile? Era questo stupore che andava a godersi ogni volta, il martedì.
Lo vide uscire tra gli ultimi, correva piano, quasi al rallentatore. Guardava ovunque tranne che davanti, dove l’avrebbe vista. Sempre così. Spaesato, sperso. Un bambino che sembrava essersi perduto in mezzo a qualcosa, un bosco di notte nell’era dei dinosauri. O era solo la sua apprensione di madre? Si staccò dal muro, si sbracciò chiamandolo forte: – Leone – Ma lui non la vedeva. O faceva finta. Allora gli andò incontro, gli sollevò lo zaino dalla spalla per portarlo lei, gli avvolse meglio la sciarpa intorno al collo e gli disse, più o meno come tutti i martedì:
– Andiamo che fa freddo e la mamma ha fretta.
 
[da Leone di Paola Mastrocola, Einaudi, 2018]

 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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