All’inizio della loro storia Juliet era semplicemente vegetariana. Non toccava nessun tipo di carne, ma chiudeva un occhio per pesce, uova e latticini. All’epoca, quando cucinava lei, nelle rare occasioni in cui i suoi genitori o quelli di Marco uscivano per cena lasciando libera una casa, cercava sempre di andare incontro ai gusti di entrambi. Era brava ai fornelli e a Marco piacevano un sacco i suoi piatti, così diversi da quelli materni, dove la carne a vario titolo non mancava mai. Suo padre, ex cacciatore, ma sempre in contatto con i vecchi amici, ogni inverno riempiva il freezer con varie parti di cinghiale e per quanto andasse ghiotto per quel gusto selvatico, con Juliet non ne sentiva più la mancanza: rispettava le sue scelte e si godeva tutte le novità che la dieta vegetariana aveva da offrire, nella speranza che questa l’aiutasse a buttare giù qualche chilo. Non era un estremista della tavola, Marco. E neanche Juliet. Almeno, non in quel periodo.
«Cucinati pure una fettina, se vuoi» diceva lei.
Se quelle stesse parole le pronunciasse adesso, Marco non esiterebbe un secondo a correre in macelleria. Ma quelle parole Juliet ormai non le pronuncia più da un paio d’anni a questa parte, da quando è diventata vegana e intransigente.
«Sai da dove vengono le uova del supermercato?» ha iniziato a chiedere a Marco con sguardo furioso come se vedesse in lui l’avidità di tutto il mondo. «Sai come vivono le galline nelle aziende industriali?».
Un cambiamento inizialmente passato quasi inosservato, ma divenuto poi una vera esasperazione per Marco quando hanno deciso di andare a vivere insieme. La convivenza era un sogno coltivato da entrambi già ai tempi dell’università che riuscirono a realizzare una volta tornati a casa dopo gli studi, a Scansano, con un bilocale nelle vecchie ma solide palazzine che un tempo ospitavano le famiglie dei minatori: sei piani di cemento accanto ai resti del centro medioevale. Quattro stanze (il salotto, la camera da letto, un bagno e un angolo cottura) per un totale di cinquanta metri quadrati. L’affitto non era dei più economici, ma facendo due conti decisero che potevano permetterselo. Marco è un geometra e in quel periodo lavorava per commissione passando la maggior parte del tempo a casa, piegato su disegni e tabelle, mentre Juliet aveva appena trovato un posto nella clinica veterinaria a Magliano in Toscana, ad appena venti minuti di pullman di distanza. Iniziarono il trasloco nel bel mezzo della fase rivoluzionaria-animalista di Juliet. Marco non ne era del tutto entusiasta, ma amava ed ama abbastanza Juliet da sopportarlo. Al contrario, non ha sopportato bene le sofferenze che la ragazza ha mostrato mentre portavano nel nuovo appartamento al secondo piano senza ascensore gli scatoloni pieni di libri di John Fante, di abiti a righe e stoviglie.
«Questa casa è troppo vuota, dobbiamo riempirla» ripeteva nei primi giorni Juliet, mentre saliva e scendeva le scale della palazzina, con le braccia rachitiche provate dagli scatoloni e il volto nascosto tra le punte del caschetto biondo da cui usciva soltanto la punta del naso.
«Potrei portare quel ceppo che ho intagliato da ragazzo e che tengo dai miei» propose Marco.
«Ma stai scherzando? Io voglio una casa carina. Andiamo all’Ikea» diceva lei.
«Non abbiamo i soldi per fare grandi spese – risponde secco Marco - Cerchiamo di accontentarci».
«Voglio una casa carina e le cose che ho in mente non costano molto».
Entrambi rimasero straniti da quella mancanza di sintonia. Negli otto anni passati insieme si erano convinti che il loro punto di forza fosse la stessa condivisa visione sul mondo, sulla vita, sull’amore. E litigi per opinioni opposte era un fattore troppo anomalo per passare inosservato. Nessuno dei due comunque in quel momento ha voluto andare a fondo di quest’anomalia, lasciando trascorrere i mesi, convinti che l’assetto sarebbe tornato da solo.
Le pareti dell’appartamento iniziarono così a riempirsi di fotografie, sui tavoli arrivarono graziose piante di aloe mentre mestoli e scodelle furono ordinati sui piani dell’angolo cottura tenendo conto anche del fattore estetico. Per lo più, è stata Juliet ad arredare la casa, ma anche Marco è riuscito a imporre alcuni spunti. La loro vita insieme pian piano prese forma e con essa la quotidianità, in cui trovarono sempre meno spazio i litigi e non perché le divergenze fossero appianate: si erano solo trasferite sulle mail. Il tempo trascorso insieme stava diventando sempre più stretto per via degli orari di lavoro e soltanto la sera, dalla cena in poi, potevano concedersi un po’ di intimità. E a quel punto, nessuno dei due aveva voglia di litigare. Così le beghe quotidiane venivano sbrigate tramite messaggi durante il giorno. Ma l’illusione del contatto costante svanì quando iniziarono a farsi spazio in Juliet forti insofferenze verso Scansano, la sua gente e la periferia in generale. In lei stava crescendo l’esigenza di cambiare vita e parlava con Marco di trasferirsi a Grosseto o in un’altra città, anche se non era cosa semplice. Mollare tutto (il lavoro, il paese natale, la casa in cui si erano da poco trasferiti) per lanciarsi verso un’altra e più incisiva rivoluzione delle proprie vite non era argomento da portare avanti con brevi messaggi via mail; allo stesso tempo l’idea non aveva ancora preso quei contorni ben definiti per poterne parlare la sera, faccia a faccia.
Marco non era affatto convinto di lasciare Scansano e dare il via ad uno scontro in quel piccolo ritaglio di intimità equivaleva a far correre un grosso rischio alla loro relazione. Così l’argomento trasloco rimase in sospeso, mentre la quotidianità continuò ad essere scandita da brevi messaggi telematici.
da marco.piccoli@hotmail.it
OGGETTO: spesa
“Manca il latte, esco a comprarlo. Serve altro?”
da juliveg@yahoo.it
“sì, prendi anche fagioli e soia, che oggi è freddissimo e voglio una minestra calda”
«Due salsicce alla brace, ecco cosa servirebbe per scaldarci» pensava Marco di fronte a questi messaggi, anche se poi si limitava a rispondere: “ok”. Pensava la stessa cosa all’ora di pranzo, mentre era in casa da solo cercando di capire cosa cucinare. Verdure non mancavano mai negli scaffali: molti clienti dell’ambulatorio veterinario, per buona parte contadini, non avevano i soldi per pagare le cure ai propri animali, così provavano a sdebitarsi con cassette di pomodori, insalata, aromi. Un baratto che il titolare, il dottor Rosi, accettava a malincuore, sapendo che in fondo aveva davanti dei poveri diavoli senza una lira; solo che a quel punto mancavano i soldi anche per pagare Juliet, costretta a sua volta a rinunciare ad una parte di stipendio in cambio di una cassetta di verdure, che poi metteva a disposizione di un furibondo Marco, lasciato ad affogare i dispiaceri in melanzane e zucchine. Mescolava svogliatamente quelle verdure e intanto ascoltava le urla degli anziani vicini che filtravano dalla parete.
«Io? Io ho fatto tutto quello che hai voluto te!» diceva l’uomo.
«Ma via, via! Cosa devo sentire. Sei solo un brontolone» rispondeva la moglie.
«Brontolone? Non so davvero come accontentarti».
I loro litigi non avevano quasi mai un senso logico. Marco e Juliet li avevano incontrati dal vivo soltanto una volta, sul pianerottolo. L’uomo (doveva avere almeno novant’anni) aveva la pelle che gli cadeva abbondante dal collo e indossava vestiti due volte più grandi della sua misura. «Forse è malato ed è dimagrito troppo in fretta» ha azzardato Juliet. La moglie invece non arrivava al metro e sessanta, chiusa in un vestito paricollo nero con piccoli fiori gialli disegnati sopra; aveva una sottile catenina d’oro con un ciondolo, probabilmente una Madonna. I loro litigi, dall’altra parte della parete, invadevano a ritmi regolari l’appartamento di Marco e Juliet.
«Non sai fai altro che litigare».
«Sei tu che litighi».
Non che la situazione tra Marco e Juliet fosse migliore. L’unica differenza, appunto, è che le loro urla volavano via mail e quindi facevano meno rumore, nell’aria e nello stomaco.
da juliveg@yahoo.it
“Mi dispiace, anche stasera tornerò tardi: forse per l’ora di cena. Pensi tu a rimettere in ordine?”
da marco.piccoli@hotmail.it
“Devo finire questo progetto altrimenti non riuscirò mai a consegnarlo in tempo. È dalle sette di questa mattina che non alzo la testa dalla scrivania. Possiamo farlo insieme domani?”
da juliveg@yahoo.it
“Tornerò a casa stanca morta e non voglio trovare disordine. Domani poi è possibile che sia una giornata come oggi e l’ultima volta ho pulito io pavimenti e mobili. Ti prego, pensaci tu”
Marco sapeva leggere tra le righe. Quel che Juliet voleva realmente dire era che se fosse tornata a casa trovandola in disordine si sarebbe chiusa dietro un mutismo assoluto e imbronciato, furiosa con lui. Voleva dire che lei era stanca e che non aveva le energie per provvedere anche alle pulizie. E Marco avrebbe voluto rispondere che la sua giornata non era da meno, che lei doveva smetterla di credere che lui avesse tutto il tempo a disposizione solo perché lavorava a casa e che se lei voleva qualcosa doveva organizzarsi e impegnarsi per averla. Tutti discorsi che avrebbe voluto fare a quattr’occhi, con un tono costruttivo, sicuro che ogni problema si affronta insieme, nello stesso posto e nello stesso istante e non attraverso uno schermo. Lui la comunicazione multimediale non la sopportava poi tanto, perché dava ampi margini di fraintendimento e non coglieva mai il vero stato d’animo di chi parlava. Al contrario, Juliet ricorreva spesso a lunghi sms o a delle mail per lamentarsi con Marco del suo comportamento. Se lo stesso discorso fosse stato fatto a voce sarebbe stato diverso, pensava Marco; invece, attraverso i messaggi, molti argomenti rimanevano in sospeso, mai detti. E lui tutte le volte che rimaneva con il rospo in gola si sentiva soffocare. “Ok, vedo quel che posso fare” rispose infine. Una frase che a Juliet non piacque per niente, perché riuscì a leggere l’insofferenza di Marco nel piccolo favore che gli aveva chiesto. Ma non rispose nulla: alla fine, avrebbe trovato casa in ordine.
Era febbraio. L’aria gelida di fine inverno muoveva gli alberi sparsi nei vasti campi attorno a Scansano, regalando fruscii in lontananza al paese, che in quel periodo era scosso per gli attacchi dei predatori. Dall’inizio dell’autunno erano andati persi centinaia di capi tra pecore e agnelli su tutto il territorio comunale, uccisi dai lupi e dagli ibridi che si erano creati nella macchia. I proprietari erano furiosi con le istituzioni, colpevoli a loro dire di non tutelare le aziende agricole: chiedevano leggi per gli abbattimenti e un intervento da parte dello Stato su questo fenomeno, che intanto stava richiamando l’attenzione dei giornalisti. Il Comune, dal canto suo, era incastrato tra due fuochi: quello degli agricoltori e quello degli animalisti, con quest’ultimi che mettevano in guardia le istituzioni a intraprendere qualsiasi campagna di sterminio nei confronti dei predatori. Posizione questa condivisa anche da molte forze politiche. In questa spaccatura netta della comunità e dell’opinione pubblica, nessuno fece niente. E i pastori iniziarono a dar vita a forme di protesta molto forti. Un paio giorni dopo Natale, qualcuno uccise un lupo con un colpo di fucile e in piena notte lasciò la carcassa davanti le porte del municipio. Un gesto che ebbe un clamore su tutta la provincia.
«Branco di selvaggi senza cervello» disse Juliet a cena, nello stesso giorno del ritrovamento. «Voglio andarmene da qui».
«Un gesto da medioevo – disse Marco – Per quanto capisca le difficoltà e le ragioni degli allevatori, barbarie come queste sono imperdonabili».
«Quali ragioni?» chiese lei, arricciando le ciglia sugli occhi scavati.
«Molti di loro hanno perso centinaia di capi a causa dei lupi: perdite che mettono in grave difficoltà le loro aziende».
«Ma guarda che la colpa è proprio degli allevatori – disse Juliet con tono deciso – Sono loro che hanno lasciato liberi diversi cani nel bosco che poi sono andati a riprodursi con i lupi, dando vita ad ibridi che ora non riescono a controllare. Stesso discorso vale per i cinghiali».
«Capisco – obiettò Marco – Ma dei danni ci sono stati».
«È l’uomo che ha alterato l’equilibrio e l’uomo ora ne paghi le conseguenze».
C’era del vero nelle sue parole: Marco lo avvertiva, ma non poteva fare a meno di sentirsi irritato per quel modo di parlare supponente, che non vuole repliche, almeno non su certi argomenti. Decise quindi di far cadere lì la discussione e abbassò lo sguardo sul piatto che straripava di riso al farro.
Qualche giorno dopo, Marco si svegliò all’alba. Doveva terminare assolutamente dei progetti da consegnare entro la fine del mese, dato che la Cantina del Priolo, che aveva commissionato il lavoro, manteneva ancora quell’antica usanza di pagare puntualmente. Juliet era già uscita di casa per andare in ambulatorio. Era stanca Juliet in quel periodo, tra il lavoro e i pensieri che intanto crescevano in lei. Non appena alzato dal letto, Marco andò in cucina a prepararsi un caffè con solo i pantaloni del pigiama addosso da cui usciva la pancia. Versò il contenuto della moca nella tazzina bianca e si sedette al tavolo: bevve il caffè e iniziò a scorrere sul cellulare i siti dei giornali locali. Scorreva il pollice sullo schermo dell’apparecchio, fino a quando non arrivò all’home page de Il Tirreno di Grosseto. “Scansano, orrore all’alba: la testa del lupo appesa a un palo”. Cliccò sul titolo per leggere la notizia. “La testa mozzata di un lupo o di un canide è stata fatta ritrovare stamattina a Scansano, nei pressi del rondò vicino al campo sportivo, appesa ad un palo con un elastico. Accanto, un messaggio inequivocabile, scritto su un cartello di quelli usati in edilizia che annuncia l’inizio di un progetto di «eliminazione dei predatori» per un «ripristino ecosistema». Ignoti gli autori del macabro gesto che puntano il dito contro Lav Wwf ed Enpa. Il cartello è firmato da «cittadini esausti»”.
«Cazzo, cazzo, cazzo» pensò Marco con il cellulare in mano, continuando a leggere. C’era anche la foto del ritrovamento ad accompagnare l’articolo, in cui si vedeva chiaramente la testa del lupo con gli occhi chiusi legata con un elastico a metà muso, non distante dal naso, le orecchi tirate indietro, il pelo alla base del collo ancora vagamente sporco di sangue là dove i suoi carnefici erano passati con un seghetto. Un muso che ormai non poteva far più paura a nessuno. Semmai, pena. «Quando lo viene a sapere Juliet sarà un inferno qua dentro». Dietro al torpore delle tempie appena sveglie, iniziava a farsi largo la consapevolezza circa la gravità del problema.
«Devo consegnare il progetto, così riuscirò a riscuotere puntuale. Non dovrà complicarmi la vita» diceva a se stesso, mentre srotolava sul tavolo del salotto tabelle e schizzi del suo progetto. Accese il computer, preparò la squadra e il lapis e chinò la testa sul tavolo, con l’intenzione di non alzarla fino all’ora di pranzo. «Perché se proprio dobbiamo discutere a gran voce, ci sono ben altri argomenti, altro che la testa del lupo» continuava a pensare. Scosse bruscamente la testa con gli occhi chiusi, cercando di scacciare il pensiero di quella testa mozzata appesa per un filo e della conseguente reazione di Juliet. «Concentrati» ordinò a se stesso. E così fece per un paio d’ore. Alle 11, però, ecco la mail di Juliet, con tanto di link dell’articolo.
da juliveg@yahoo.it
“Questo paese mi fa schifo. Te lo giuro: non possono più vivere a Scansano, sono trogloditi”
da marco.piccoli@hotmail.it
“Ho letto anch’io. Hai ragione tu quando hai parlato di usanze medioevali”
da juliveg@yahoo.it
“non hai capito: voglio davvero trasferirmi. Stasera ne parliamo seriamente”
da marco.piccoli@hotmail.it
“mi pare eccessivo amore. I cacciatori sono ovunque. Non è che possiamo fare gli eremiti”
da juliveg@yahoo.it
“Non me ne frega niente: ho chiuso con Scansano. Da stasera cercherò un appartamento a Grosseto”
Non stava scherzando. Non stava dicendo di volersi trasferire solo per sfogo. Marco sapeva fin troppo bene che stava dicendo sul serio. Ma non aveva idea di cosa rispondere. O meglio, sapeva benissimo cosa dire (tipo «scordartelo», oppure «non mi sembra una grande idea fare un trasloco con tutti i guai che abbiamo solo perché un barbaro ha decapitato un lupo»), ma non sapeva come inviare in modo chiaro il suo messaggio per email senza contraddire Juliet, che dall’altra parte dello schermo si sarebbe certo arrabbiata leggendo come il suo ragazzo voleva liquidare la questione. Così Marco decise di non risponderle niente e di aspettare l’ora di cena, quando a quattr’occhi sarebbero riusciti a comunicare meglio. Adesso però doveva finire il suo progetto e riscuotere nei tempi la commissione. Questa era la priorità. Tornò al tavolo e di nuovo chinò la testa, ma questa volta scuoterla violentemente non riuscì a mandar via l’irritazione per un problema che in cuor suo riteneva non esistere. Il lapis scorreva lento accanto al righello, in modo che la rabbia non avesse ripercussioni sul suo lavoro. Ma un’altra mail mandò tutto all’aria.
da juliveg@yahoo.it
“Quando sento che non prendi in considerazione le mie idee mi fai star male. Dopo quello che è successo, io mi sento a disagio a Scansano. Non penso che riuscirò a guardare negli occhi i vicini nello stesso modo, d’ora in poi, anche se magari loro non c’entrano niente. Quando uscirò per le strade, a fare la spesa, la persone in paese non saranno più le stesse per me. Solo un branco di selvaggi. È una cosa importante per me, possibile che non lo capisci? Possibile che ogni volta devo spiegarti i motivi delle mie decisioni? Perché non provi mai a fare un passo verso di me? So che sarà solo un impiccio traslocare, ma io ne sento la necessità e voglio che tu mia sia vicino. Io lo sono sempre stata per te. Se c’è l’amore, quello vero, certe difficoltà non devono spaventare: le superiamo insieme. Altrimenti il rapporto è solo un susseguirsi di compromessi che non accontentano nessuno dei due”.
Marco venne preso dallo sconforto soltanto per la lunghezza del messaggio. «Perché il mio non è amore? – pensò dentro di sé – Perché? Io i passi verso di te non li ho mai fatti?». Mettere queste domande nel corpo nella mail e inviarla a Juliet significava iniziare un litigio prima telematico e poi reale, ancor più violento. «Perché cazzo mi devi scrivere una mail come questa? Eppure sai benissimo che devo lavorare, che sono impegnato. Perché fai così?»
da marco.piccoli@hotmail.it
“Ne riparliamo stasera, ok?”
da juliveg@yahoo.it
“Io ho già detto tutto quello che dovevo dire e penso di essere stata molto chiara. A Scansano non voglio più vivere, ma ora la cosa che mi dà più noia è il tuo atteggiamento. Non te ne frega niente: per te non cambierebbe mai nulla. Ora è bene chiuderla qui, che ho ancora tutta la giornata ”.
«E io no?» disse Marco ad alta voce leggendo il messaggio. Chiuse il computer ancora acceso e andò dritto in cucina, cercando qualcosa da mangiare, ma c’erano soltanto verdure, frutta e un po’ di pane. «Ora esco e vado a comprare delle salsicce» pensò. Ma non aveva tempo per uscire. Non aveva tempro per fare nient’altro che lavorare. E non aveva niente di goloso da mangiare. Tornò davanti al frigorifero e iniziò a frugare con la mano all’interno degli scompartimenti, cercando qualsiasi cosa potesse ricordargli un sapore ghiotto, quanto più lontano da quello dell’erba. Alla fine, dietro ad una busta in nylon piena di melanzane, vide una ciotola coperta con la pellicola in cui giacevano i resti del profitterol portato la settimana prima dalla madre di Juliet. «Fanculo» pensò Marco, sapendo che in casa non avrebbe trovato nulla di più goloso. Tolse la pellicola e si sedette al tavolo di cucina con un cucchiaino in mano. «Una bimbetta viziata e immatura, ecco cosa sei – pensò rivolto a Juliet – Una egoista». Le prime due cucchiate erano talmente cariche di profitterol che gli angoli della bocca si sporcarono subito di cioccolato. Il primo boccone andò giù quasi senza lasciare sapore sul palato, ingoiato intero. Il secondo invece rimase per un po’ sulla lingua, in modo che la pasta ricoprisse le pareti interne delle guance. Ora Marco non pensava a nulla: era impegnato solo a ingozzarsi. Aveva gli occhi fissi sulla ciotola, stava appoggiato al tavolo con il gomito sinistro e con il braccio destro riforniva la bocca di grosse cucchiai di profitterol. Certamente, avrebbe ripulito la ciotola.
«Io ho dovuto lavorare tutta la vita per poterti far star bene» sentì improvvisamente dalla casa accanto.
«E io ho pensato a tutto il resto, ero ancora una bambina quando ho iniziato ad occuparmi di te».
I due anziani della casa accanto stavano di nuovo litigando.
«Ora però ogni cosa che faccio è sbagliata. Ci metto buona volontà, ma è sbagliata» diceva il marito.
«Ma quale buona volontà: non hai mai messo volontà. Neanche quando mi lasciavi da sola ad occuparci della figliola. Io non ho mai detto nulla, ma è così».
«Ma per favore: non hai mai detto nulla? Mi hai sempre brontolato. E io ho subìto e basta con te».
Marco li ascoltava e si chiedeva se davvero tutte le cose non dette alla fine esplodessero all’improvviso, come un vulcano in eruzione. Si chiedeva se i litigi tra i due vecchi fossero il frutto della senilità oppure se entrambi avevano covato per tutta la vita un risentimento reciproco, senza mai confessarselo. «Le cose prima o poi le devi dire sul serio» pensava Marco tra sé e sé, mentre divideva in tre bocconi il profitterol che aveva ancora davanti. «Le cose non dette ti avvelenano» pensava e intanto ascoltava i due anziani che ancora se le dicevano di tutti i colori. Sarà sempre stato così tra loro? Sul serio sono rimasti in silenzio a sopportarsi l’un l’altro, per poi esplodere sul finire dell’esistenza per non finire soffocati, rinfacciandosi troppo tardi le proprie colpe? Le cose vanno dette al momento giusto: solo così puoi riuscire a sistemarle. Anche le più piccole, quelle all’apparenza più insignificanti, possono avvelenarti. Nella testa di Marco ora c’era di tutto fuorché il lavoro da consegnare. C’erano Juliet, i due vecchi che litigavano e soprattutto la testa penzolante di quel lupo con i peli ancora sporchi di sangue: il pettine rimasto impigliato in un nodo troppo stretto. «Le cose vanno dette chiaramente» diceva Marco a se stesso, facendo ruotare il cucchiaino attorno ai bordi della ciotola, cercando di non lasciare neanche una macchia di cioccolato sul fondo.
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