Prima che mi sfugga. Un padre sconfitto dalla vita è pur sempre un eroe

Luigi Oliveto

26/05/2022

Tutt’altra storia, beninteso. Ma leggendo il romanzo “Prima che mi sfugga” di Anne Pauly (pubblicato in Italia da L’orma con la traduzione di Marta Rizzo) impossibile non pensare a quel Michael Sullivan Jr. che sul finire del noto film di Sam Mendes confida: “A chi mi chiede se Michael Sullivan era una brava persona o solo un poco di buono, io dò sempre la stessa risposta: era mio padre". Eh già. Nel caso della vicenda narrata da Anne Pauly, il padre in questione è stato un tipo un po’ alternativo, da anni Settanta. Operaio che si era fatto a suo modo una cultura, appassionato di filosofie orientali, uomo capace di riflessioni profonde, alcolizzato violento che allungava sganassoni alla moglie e che teneva in scacco l’intera famiglia. Un soggetto “fine ma maldestro, gentile ma brutale, generoso ma egocentrico”. Un coacervo di opposti. E’ dunque in questa ridda di contrari che si ritrova la figlia Anne (porta lo stesso nome dell’autrice) quando lui, il “mostro accattivante”, “l’orco timido” muore. Negli ultimi tempi della malattia Anne lo ha accudito amorevolmente. Quando è spirato gli teneva la mano. Ora che si ritrova a organizzare il funerale (rito di burocrazie e involontarie comiche), ora che c’è da sgomberare la casa paterna (quanta vita raccontano gli oggetti appartenuti a una persona) Anne avverte la premura – “prima che sfugga” – di definire dentro sé quel padre contraddittorio e inafferrabile, ma che le ha segnato l’esistenza, le ha trasmesso certi caratteri. Prende a nascere così l’intima, imperfetta celebrazione di un padre che, malamente sconfitto dalla vita, è stato pur sempre un eroe.   
 
***
 
La sera in cui mio padre è morto io e mio fratello ci siamo ritrovati in macchina, perché faceva buio, erano quasi le 11 e passato lo shock, dopo avere bevuto il tè amaro preparato dall’infermiera e ingoiato controvoglia le zollette di zucchero che ci porgeva per farci tenere botta, non c’era altro da fare che tornare a casa. Alla fine, con o senza zucchero, avevamo tenuto botta abbastanza bene, troppo bene, era persino strano quanto fossimo bravi a tenere botta, anzi, non ci avrei creduto se me l’avessero raccontato. Avevamo ripulito gli armadietti, infilato la gamba artificiale, il gilet beige, le magliette e le mutande in due bustoni del Carrefour, ripiegato la coperta di pile verde macchiata di minestra e sangue, e messo nella cassetta dei medicinali – una scatola dello zucchero con disegnati sopra dei piccoli bretoni in costume – il crocifisso tascabile attaccato con un cordino a una medaglietta della Vergine, a un rosario tibetano e a un piccolo Buddha di corno.
Dal comodino avevamo tirato fuori bustine di senape, un vasetto di marmellata di albicocche, una confezione di biscotti BN, guai a prenderci gusto, una pinzetta di plastica, un menù della settimana su cui aveva provato ad annotare qualcosa, dei crucifreccia per solutori abili, la sua piccola Bibbia, una raccolta di haiku, il libro su Gandhi, il portaocchiali tarlato in similpelle, tre portamine di cui uno vecchissimo, una gomma, otto elastici multicolore, un paio di occhiali aggiustati alla bell’è meglio, due bombolette di Ventolin, un rotolo di Scottex, il portafoglio e il raccoglitore ad anelli su cui teneva l’esigua contabilità delle spese d’ospedale (televisione, camera, 18 €, 70 €, telefono 12 €, Anne distributore automatico 60 €). In bagno, con gesti precisi, avevo rimesso nella sua trousse verde scuro il rasoio elettrico pieno di rimasugli di peli, i rasoi Bic e la schiuma da barba, il flacone di acqua di Colonia Bien-Être alla lavanda con cui mi faceva bagnare un angolo del fazzoletto, l’asciugamano di spugna e il sapone, infilato nel guanto da doccia ancora umido.
Mio fratello aveva aperto la sedia a rotelle, ci aveva posato sopra la protesi di ricambio, le stampelle, il minuscolo ventilatore Alpatec comprato da Trony poche ore prima – l’approssimarsi della morte a quanto pare fa venire caldo –, le buste del Carrefour, poi mi aveva detto con una dolcezza insolita: «Vado alla macchina e torno». È un tipo pratico, mio fratello. Mi ero ritrovata sola con lui, il mio catorcio, la mia canaglia senza una gamba, il mio re misantropo, la vecchia carcassa di mio padre, mentre fuori faceva buio. O meglio, mentre fuori, in diretta dal settimo piano dell’ospedale di Poissy – tadaaa! –, uno spettacolo magnifico, un travolgente urrà-che-beltà, le luci del centro e il cielo arancio della periferia. Lo adorava proprio, il tramonto. Ci chiamava sempre per andare a vederlo.
Le infermiere gli avevano chiuso gli occhi, bloccato la faccia in una mentoniera e coperto il corpo con quella che sembrava una felpina e invece era uno striminzito camice verde pallido. Era triste e buffo, l’avrebbe fatto ridere, quel camice che nemmeno gli arrivava alle ginocchia. Gli ho visto il piede violaceo, porca vacca, poveraccio, il pizzetto trasandato e il bel viso assente. Mentre gli stringevo la grande mano che si intiepidiva nella mia, ho sperato con tutto il cuore di non dimenticare mai il suo odore e la delicatezza della sua pelle secca. Gli ho chiesto scusa per non essermi accorta che stava morendo, gli ho dato un bacio e poi ho detto ad alta voce: «Ciao ti voglio bene, alla prossima, batti un colpo quando arrivi». Sono uscita nel corridoio neon-linoleum, un’inserviente è passata sciabattando ed è arrivato mio fratello. Siamo rientrati un’ultima volta, per sicurezza. E poi abbiamo levato le tende, come diceva sempre lui. Il campeggio della vita.
Nello specchio dell’ascensore, le nostre facce adulte, sfatte. Ehilà, impatto della morte, tante care cose. E la certezza assoluta, stando fianco a fianco, con una parte dei suoi geni per ciascuno, di essere proprio i figli del defunto. Abbiamo giusto salutato una donna incinta e sorriso a una specializzanda, dimostrando di essere persone a modo, educate, dignitose anche nel lutto. Dopo aver attraversato l’androne deserto in silenzio, oltrepassato la porta a vetri, raggiunto la macchina – buip buip – abbiamo imboccato l’autostrada, deserta pure quella. La vigilia di Ognissanti, chiaro di luna, cielo terso, la strada praticamente irreale.
 
[da Prima che mi sfugga di Anne Pauly, trad. di Marta Rizzo, L’Orma, 2022]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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