Uno scrittore ormai famoso scopre di essere malato di un male incurabile. Ha iniziato a scrivere molto tardi, a cinquant’anni suonati. Ha abbandonato l’Amministrazione della giustizia per farlo, dove lavorava come cancelliere, andando in pensione anticipatamente, anche perché vi aveva fatto poca carriera, ma molta esperienza nel senso che aveva letto migliaia di verbali nei quali uomini semplici e pieni del senso della realtà si studiavano di riferire i fatti nel modo più chiaro possibile...mi sono capitati sotto gli occhi dei piccoli capolavori di narrativa, dai quali ho imparato a raccontare.
Negli anni di cui scriviamo è molto affermato per aver saputo scrivere, muovendo i passi dalla Luino della sua infanzia, di una provincia universale ed eterna, quella italiana: la più ricca di emozioni di sapore umano, come diceva. Nel frattempo ha curato edizioni e traduzioni e ha scritto davvero di tutto: articoli, romanzi, ben dieci, di frequente oggetto di fortunate trasposizioni televisive e cinematografiche, come accade per “La stanza del Vescovo” (1976), “Il cappotto di astrakan” (1978), “Una spina nel cuore” (1979) e tanti, numerosissimi racconti brevi. Ma sono proprio i racconti, evidentemente, ad aver lasciato la traccia più profonda e non tanto, o non solo, nei lettori, ma in lui. Sì, perché Piero Chiara, così si chiama lo scrittore, proprio ai racconti affida il suo testamento letterario. Decide di mettere a punto un’ultima raccolta nel 1986, quasi un epitaffio alla sua parabola letteraria, quando è ormai da tempo gravemente ammalato, pensando a un libro al contempo diverso dagli altri, ma anche a tutti gli altri profondamente uguale. I personaggi de “Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti”, sono pur sempre i personaggi di quella sua antica Luino, ma che, cambiati gli abiti in camerino, potrebbero tranquillamente tornare in scena ne “Le mille e una notte”, nel suo prediletto “Decameron”, o tra le pagine di autori a cui molto deve come Balzac e Maupassant. La provincia in lui è palcoscenico, set cinematografico e incubatore ideale del suo romanzare, improntato a un realismo tutto personale, ma soprattutto il luogo dove tanti piccoli fatti umili ma singolari si accumulano, come succede con gli smottamenti, creando il terreno per una intensificazione narrativa che esplode in esiti particolarmente felici proprio in molti dei suoi racconti, oggi largamente dimenticati e pochissimo ripubblicati. Colpiscono le sue parole, che appartengono ad una intervista del marzo di quel suo ultimo anno, il 1986: stentavo a riprendermi, da un serio intervento chirurgico e stavo molto male. Tre o quattro racconti li avevo già, ma gli altri li ho scritti ad uno a uno come i capitoli di un romanzo e ne è nato un libro che giudico diverso dagli altri. Via via che scrivevo affidavo ai miei personaggi l’ultimo senso della mia vita. Del resto, quando gli chiesero “perché il racconto?” lui rispose che bisognava invece chiedersi “perché il romanzo”, dato che è il racconto ad essere il genere narrativo per eccellenza: più antico, essenziale, immutabile ed ineliminabile, che segue la storia dell’uomo.
Ma torniamo al senso della vita, anzi all’ultimo senso della vita, che lo scrittore affida ai personaggi dei racconti. Dovrebbe trattarsi una cosa importante, soprattutto per uno scrittore. Ma che cos’è, di cosa si tratta davvero per un narratore che, come il nostro, a un certo punto dal treno quotidiano della vita è sceso, smettendo di fare il pendolare, mettendosi in ascolto, è lasciandosene letteralmente attraversare nella speranza di poterla svelare e sgranare come una spiga quella sua vita, salvo poi spesso prosaicamente ridursi, come invariabilmente succede, a spigolare avidamente ciò che rimaneva non mietuto sul campo? Ebbene forse quel tanto ricercato senso della vita sta tutto in un frutto. Il fico. Non si tratta della madeleine di Proust, ma un po' gli somiglia, perché cristallizza il passato, catalizzando nell’autore una feconda ricerca di associazioni e di esplorazioni interiori. Non sono le pere butirro de “La Cognizione del Dolore”, le pere immaginate da Gadda spiccate a metà ottobre che maturano repentinamente, nel corso di una notte, tra il 2 e il 7 novembre, ma ci si avvicinano per ambiguità e senso ferocissimo dell’ironia. C’è un racconto in quella raccolta che parla di fichi. È un racconto inconsueto, un mix di tecniche narrative diverse, un motore a due tempi. In un pomeriggio d’autunno del 1917, dovevano essere gli ultimi giorni di ottobre il frutto è al centro di un racconto in cui la madre, Virginia Maffei, osservando una drammatica copertina della “Domenica del Corriere”, dapprima appare molto preoccupata per le possibili conseguenze della disfatta di Caporetto; ma poi un postino amico del padre irrompe sulla scena e porta quattro fichi rubati fuori Luino, fichi tardivi […], i più saporiti quelli con la goccia. Lo scrittore li assaggia per la prima volta e ne rimane scioccato, disorientato, come se biblicamente assaggiasse il frutto dell’albero della cognizione del bene e del male: da allora seppi che esisteva un fico, dice. Gli sembra di toccare dei rospi, delle rane o altro animale del genere, come la salamandra o il lumacone, tutte bestiole che mio padre, portandomi a spasso nei boschi e per le campagne, mi aveva fatto osservare. Rimane scioccato dal comportamento della madre che aveva dato tanta importanza a quei quattro fichi, quando aveva sotto gli occhi la Domenica del Corriere con tutta quella povera gente in fuga.
Il fico diventa allora il simbolo di una nuova esperienza e di una nuova cognizione, insomma di un rito di passaggio, e incarna da quel momento mille simbologie allusive. Ma rappresenta anche l’occasione per una palese distorsione dei fatti, insolita nell’autore. Infatti, nella seconda parte del racconto, si narra del campione di ciclismo Ottavio Bottecchia, e della sua morte avvenuta il 3 giugno 1927 quando l’atleta fu trovato agonizzante lungo una strada. Le indagini ufficiali conclusero per la morte accidentale, ma intorno ai fatti vennero formulate varie ipotesi, dall'omicidio per motivi politici, al racket delle scommesse, sino al movente sentimentale. Di certo in questo mezzo mistero nulla sembra entrarci la versione di Chiara: Nel 1927, quando aveva trentatré anni e riposava sui suoi allori al paese nativo di san Martin del Colle vicino a Pordenone, un giorno, girando per le campagne vide un albero carico di bei fichi maturi. Credendosi protetto dalla sua fama, si fece sotto l’albero e cominciò a mangiare quei fichi come fossero suoi. Il contadino, che essendo tempo d’uva (ma in realtà si era in Giugno!) e di fichi, vigilava in un pagliaio con a portata di mano uno schioppo, vide il Bottecchia e lo riconobbe… Puntò la doppietta e fece partire un colpo, forse diretto alle gambe, ma che riuscì un po’ più alto e freddò il Bottecchia sotto la pianta, con un fico in bocca e l’altro in mano”. Perché mai l’ha fatto? Forse proprio perché se la vita lo sta tradendo non permettendogli di invecchiare come aveva fatto con il padre, morto a 96 anni dopo aver fumato 125.000 sigari, anche il senso della vita si può distorcere un poco, quasi per rappresaglia, per fargli raccontare la storia che si vuole. Fico traditore dunque, il frutto dell’albero di Giuda, ma anche il frutto con cui l’autore tenta di fare pace, riprendendo a mangiarlo, ma mai quando fosse stato colto da altri, e che ispira nella chiusura del racconto una serie di dotte dissertazioni e variazioni sul tema. Se ci pensa bene del resto, l’autore dovrebbe essergli grato, a quel frutto, che non gli ha mai ispirato quei facili e abusatissimi accostamenti erotici che ognuno si immagina, ma gli ha anzi consentito di scrivere altissime pagine di letteratura.
Solo dieci anni prima, infatti, ha scritto la sua più bella raccolta di racconti, “Le corna del diavolo”. Dentro la raccolta, oltre venti racconti. Tra questi, quello che consigliamo, intitolato “Il fico sull’incudine”. Una storia d’amore ben difficile da narrare i cui protagonisti son tre. C’è Santino, prima agricoltore e poi soldato tra il 1916 e il 1918, quando torna a casa in Valtravaglia, vende parte dei suoi campi e nel resto della proprietà ci apre un distributore. Un lavoro meno faticoso e assai più redditizio (Era un grosso uomo, dalla faccia tonda, che è spesso indizio di bontà e anche di dabbenaggine. La fisionomia è dominata da due grosse labbra, gonfie e tumide, da mangiatore di fichi). I fichi sono la sua passione, li mangia continuamente, quando lavora e quando no. Ma c’è anche un’altra passione, quella per una vedova di guerra, Rosa, moglie del suo amico Antonio Molinari, mai più tornato dal fronte. Vive dall’altra parte della strada, in una cascina dove i due figli mandano avanti l’azienda agricola del padre. I due si frequentano, si amano, ma all’insaputa di tutti e nel rispetto dell’amico. Il segnale di via libera per lui è lei che stende alla finestra un asciugatoio di qualche colore. I figli sono nei campi, loro possono rimanere in intimità. Il racconto è pieno di immagini memorabili e di splendide pennellate. Fin tanto che si arriva alla stagione in cui maturano i fichi e le noci. Santino pensa di sposarla, la “sua” Rosa: La tavola pronta due volte al giorno, il letto caldo, la fusione delle due proprietà…troppo per pensarci in una volta sola. Ma il tempo, si sa, passa inesorabile, non matura solo i fichi: talvolta i problemi li crea o li incancrenisce. Talvolta, almeno per qualcuno, li risolve. Uno sconosciuto bussa alla porta, proprio quando sono in intimità. Poco prima, ha trovato il distributore dove c’erano i campi. Vicino alla porta ha notato una piccola incudine, dove Santino ha lasciato un fico maturo, più bruno che verde, un po' molle, con una screpolatura dalla quale stillava una goccia limpida di umore. È uno strano accostamento questo, qualcosa di così delicato e promettente, lasciato sul duro acciaio, esposto alle intemperie, e anche uno strano gesto, soprattutto se compiuto da un uomo che di fichi è così goloso e che soprattutto consuma subito con avidità quelli che coglie dalla pianta. Ci deve essere una spiegazione. E così quell’uomo, che è Antonio, il marito di Rosa che dopo mille vicissitudini è tornato, da quella metafora materializzata davanti ai suoi occhi capisce tutto, ma proprio tutto. Come avesse in spalla una macchina da presa, lo vediamo distogliere lo sguardo dal frutto e posarlo sulla strada, poi sui suoi figli a testa bassa a lavoro nei campi, infine sulla sua casa e le sue finestre, e capire filmicamente il succedersi dei fatti di quegli ultimi anni. Il dialogo tra i tre è meravigliosamente asciutto, gestito da vero maestro. Si tratta di una storia sospesa tra troppo tardi e troppo presto. Troppo tardi Santino ritorna al distributore, la vettura che aveva bisogno del carburante è già partita. Ma non è invece troppo tardi per consumare quel fico, che è sempre lì, pronto per lui proprio dove lo aveva lasciato, poggiato sull’incudine. Allo stesso modo quello scrittore affermato e malato ci ha lasciato sul tavolo i suoi bellissimi racconti, per scoprire il senso della vita assaggiando, se vogliamo, i suoi fragili frutti.
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