Il romanzo “Pelleossa” di Veronica Galletta è un vivido racconto ambientato nella Sicilia del 1943, nell’immaginario (ma credibilissimo) paese di Santafarra. Le coordinate, ovvero i nomi di luoghi e persone che l’autrice fornisce all’inizio del libro, già sono racconto in sé, per come evochino subito un conchiuso universo dove si muovono figure come quelle della famiglia Rasura – i Pelleossa del titolo – che abita la Casa Verde ed è formata dal piscatore Felice Rasura detto Saracino, dalla moglie Lucia Iodice, dai figli Calogero Silvestro detto Cammisa (che non torna dalla guerra), Ciccio lo scimunito, Pascali il devoto, Paolino detto Ncantesimo, Nennella morta neonata, Silvestro Iodice detto Mangiacipudda (padre di Lucia), Nerina gatta gattonzola. Attorno a loro altre sette famiglie e una cinquantina di personaggi che danno vita a un teatro di sedimentati rancori, gesti atavici, inconfessabili verità. Il tutto in un particolare frangente storico: lo sbarco di “L’Americani”, la Liberazione, la fine della guerra, il referendum, le prime lotte contadine per l’assegnazione delle terre incolte o mal coltivate dei grandi latifondisti. Un romanzo corale al cui interno si svolge la vicenda di Paolino Rasura, soprannominato Ncantesimo perché spesso assente da quanto lo circonda, “a volte mi rimango a pensare, e se mi pàrruno, se accade un fatto… non me n’adduno”. Paolino, vittima della tracotanza di alcuni ragazzini, un giorno mostra loro di quale coraggio sia capace entrando nel Giardino di Filippu, uomo solitario che scolpisce ininterrottamente teste. Da allora Paolino detto Ncantesimo e “Filippu de li testi, scultore d’umanità” divengono legatissimi. Lo scultore “pazzo” che è arrivato a produrre un migliaio di teste, ovunque dislocate nel proprio giardino, diventa per il ragazzo un punto di riferimento, suo mentore nel passaggio verso l’adolescenza e verso un mondo che sta cambiando. Non disdegna come suoi interlocutori nemmeno i mezzibusti di Giuseppe Garibaldi, Re Vittorio Emanuele, Toro Seduto, Sigmund Freud, Luigi Pirandello, Gabriele D’Annunzio, con i quali si ferma spesso a parlare. Lui che si porta addosso l’oltraggioso nomignolo di Ncantesimo, crescendo dovrà comunque trovare un nesso con la realtà, riscattarsi dalla codardia, sperimentare ciò che nella vita ferisce, esalta, abbatte. Cresce, dunque, Paolino, e con lui si evolve anche il piccolo universo che lo circonda. In un efficace mix di dialetto siculo e lingua italiana, in un intreccio di storie e Storia, il romanzo di Veronica Galletta offre della Sicilia uno spaccato aspro e toccante. Pagine che paiono concepite sotto lo sguardo di numi tutelari quali Tomasi di Lampedusa, Pirandello, Sciascia, Bufalino, i grandi raccontatori di ciò che viene chiamata “sicilitudine”.
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Santafarra si allungava sul mare come una ciucertola. A levante la testa dell’armàle si protendeva fino a Capo Graziano, dove le strade finivano, e rimaneva solo il pensiero della ferrovia. A ponente l’ultimo battito della coda tuppuliava a Capo Scùttari, unni finevano li scogli taglienti, e la costa si faceva di sabbia e calette. No menzu le case s’ammassavano di strade e di piazze come un cunigghiu ammuccato sano sano, e ancora tutto da digerire.
Santafarra era come ogni paìsi, anche se a ogni paìsi ci pare di essere l’unico. Aveva la Piazza della Santa, con la chiesa carica di lumini e sempre frisca; il Corso per passiàre e discutere, dal mare fino a menza collina, con alberi e basolato unni erano le ville dei padroni, e trazzère di pruvulazzu mano mano che si niscèva dal centro; sutta alla Piazza c’era il Porto, i moli come chele di granchio. Taliando verso Capo Scùttari, il torrente Spina scinneva quieto dalla collina, passando accanto a Cava d’Istrice, giù per Contrada Malotempo, fino al mare, unni il camino della tonnara segnalava la fine del paìsi. Su tutto vegliava il Camposanto Novo, aggrappato sul cocuzzolo di Contrada Colleorbo, e più a est, in linea d’aria con Capo Graziano, il Monte Cronio e il suo Santuario di fumi e vapori.
Su una collina senza nome, propriamente a metà fra il Monte Cronio e la Cava d’Istrice, stava la Casa Verde. Era una bella casa grande, con la stufa a legna e le piastrelle in terra, circondata da un grande portico, da cui si vedeva il mare. Alle spalle, la Contrada Sambuca, campi abbandonati fino all’uliveti, e all’Aeroporto Fantasma.
Acchianàndo ancora un poco, accanto a una barracca di assi e di legni, c’era l’alivo saracino, i rami ntorcionati, tanto che certi iorna pareva di sentirne il gemito. L’albero, alto come un veliero, si vireva da tutta Santafarra. Magari la Casa Verde si vireva da tutto il paìsi, ricoperta com’era di vite americana. D’estate le foglie rilucevano di tutte le sfumature possibili del verde, cangiando con il sole, dall’alba fino al tramonto, quando tutta la casa addiventava cupa e luccicante, carnosa come mille occhi di bestia sfarfallanti. Nelle notti senza luna, pareva di sentirla respirare.
A Paolino Rasura la Casa Verde non aggradava nunca. Ci abitava da quando era nato come anche i so frati. Pascali, Ciccio, e magari Calogero, anche se Calogero era andato per la guerra che lui era nico e quasi non se lo ricordava, come Nennella, che era durata accussì picca che nessuno la nominava mai.
Pure il nonno Silvestro, che di cognome faceva Iodice e di ingiuria Mangiacipudda, abitava alla Casa Verde, ma solo quannu s’arricampava, scendendosene giù da Roccastrada, il paese di origine suo. Santafarra era il paìsi del padre di Paolino, Felice Rasura, che faceva il pescatore, come suo padre prima di lui, e prima ancora il padre di suo padre, e ancora a salire, che prima o poi un’origine si trovava, anche se era dimenticata. Come l’ingiuria, che pareva esserci sempre stata. Pelleossa alla famiglia, e Saracino per sa patri Felice.
Paolino stava assittato sutta all’alivo saracino, accanto alla barracca, la gatta Nerina in braccio. Era là che se ne andava quando poteva. Da quando era stato in grado di camminare si trascinava dassupra, distante dalla Casa Verde. A Paolino piaceva la barracca, piena di cose abbandonate, sacchi di semenza e attrezza strangi. Cose di Terragni, insomma, anche se i Rasura erano di Sali. Era questa una distinzione molto importante a Santafarra, perché fra i Terragni, che coltivavano i campi tutto intorno nella valle, e chiddi di Sali, che piscavano ogni giorno al largo del mare, non c’era mai accordo, i primi a dire dei secondi di quanto fetevano di pesce, i secondi a ribattere di unghie nivore di terra, e fineva sempre a sciarra, dalle custioni importanti alle sciocchezze, fino a dove seppellire i morti. Per questo suo padre non voleva che nessuno trasèva alla barracca, nsamai veniva contaminato dal desiderio di fàrisi terragno.
Da sutta all’alivo, Paolino guardava il paìsi, piccolo che gli pareva di poterlo toccare, carezzare la lucertola finalmente quieta, anche se per lui Santafarra non era un armàle, ma una pianta. Un alivo nodoso, come chiddu sutta al quale stava, ogni ramo una casa. Ecco la casa di Giacinto Grasso, una stanza appena nella trazzèra per scendere al Corso, fango e bestie fora, davanti alla porta. Seguendo il Corso verso il mare la casa di Natàlia Foglia, in un vicolo cieco dietro alla Camera del Lavoro dove sempre stava suo padre Angelo. Paolino non aveva mai avuto il coraggio di passàrici, ma se lo immaginava odoroso di glicine, come quello del portico di casa sua.
C’era da passare davanti al Porto, anche solo con l’occhi, per arrivare alla Contrada Malotempo, fino alla casa di Cateno Camarda, ma anche solo con l’occhi a Paolino ci veniva da vomitare, che dassùtta al Porto c’era la barca di suo padre, e lui a piscare non ci voleva andare. In ogni caso la casa dei Lucicùli si poteva solo immaginare, tutta chiusa com’era dintra un recinto alto, nascosti ai diavola e ai cristiani, come anche il Giardino di Filippu, dall’altro lato preciso preciso, al piede del Monte Cronio.
Nelle notti di maestrale, alla Casa Verde si davano appuntamento tutti i fracassi della terra. Le litanie di Saverio Manna, scemo di guerra, che andava furriando per il Corso, le risate al Granbar di Alfonso Ferraù, che dopo la chiusura sonàva di carte sbattute e di sorda, i belati delle bestie di Nunzio Camarda. E su tutto, la mazzetta di Filippu il Pazzo, che batteva sulla petra senza fermàrisi.
Quannu spirava scirocco, invece, i segreti di Santafarra potevano arriposare, e dal mare soffiavano le urla dei pisci, e le voci dei morti che cercavano d’arricampàrisi. Nei giorni di scirocco Paolino arristava sutta all’alivo pochi minuti, poi subito se ne scappava a casa, la iatta Nerina sulla spalla lunga e zitta. Si ficcava dentro al letto con Ciccio, che magari che era scimunito certe cose le capiva pure lui; abbracciato a sa frati s’addummisceva, e faceva un sogno spaventoso, sempre u stissu. Certi iorna Paolino pensava che era propria l’alivo a farici fare questi brutti sogni, entrandogli nel ciriveddu come una majarìa, sussurrandogli all’orecchio i nomi e le venture di genti scomparse e di Nennella gote di cera, sorella sua morta in culla. Ma alla matina, quannu s’arruspigghiava, non sapeva a chi contare i suoi sogni, e lo stomaco a mescolone che gli lasciavano.
Quella sera di luglio del 1943, quando questa storia accuminciò, Paolino aveva sette anni e quattro mesi, che a pensarci bene nun sù accussì picca per afferrare certe cose del mondo, come quelle che sarebbero accadute. Il cuculo cantava da iorna, e il vento di mare portava lamento di cani e rumore di ossa. Silvestro Iodice gli aveva detto che era cosa di poco, e l’intero stormo se ne sarebbe andato per l’Africa, a migrare, ma intanto il suo cu-cu cu-cu cu-cu scandiva i cattivi pinsèri di Paolino. Anche quella sera, come tante sere prima, il bambino si addormentò e fece lo stesso sogno. Era sulla barca con sa patri e Pascali, tiravano su le reti e dintra c’erano ossa lucide abbaglianti, ossa sicchi come di picciriddi, longhe come di gigante. Solo, con una variante. «Cerca le petre», gli aveva sussurrato l’alivo nel sonno, «cerca l’uomo delle petre. Fattelo amico, e non avere scanto».
[da Pelleossa di Veronica Galletta, minimum fax, 2023]
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