“Patria” di Aramburu, una tragedia negli anni del terrorismo basco

Luigi Oliveto

20/10/2017

Drammatico, commovente, di notevole tenuta narrativa. Tale è “Patria”, l’ultimo romanzo di Fernando Aramburu che racconta come due famiglie amiche, abitanti in un piccolo paese spagnolo (la famiglia di Joxian e della moglie Miren, e quella di Txato e della consorte Bittori) vengano inaspettatamente travolte da un tragico evento. Siamo tra gli anni ’70 e ’80, quando Txato è assassinato dagli indipendentisti baschi dell’ETA, per non aver ceduto alle minacce che a più riprese gli erano state rivolte (proprietario di una piccola officina si era rifiutato di pagare balzelli agli etarras). La moglie Bittori è distrutta dal dolore e non intende più rimanere in quel posto. Si sente non gradita, arriva a sospettare che persino gli amici di sempre, Joxian e Miren, possano essere genitori, fratelli, sorelle di chi le ha ucciso il marito. Anche a distanza di tempo Bittori non si rassegna e cerca tenacemente la verità, chiede giustizia: “aveva bisogno di sapere, tutto qui”. Attraverso questa storia emerge il grande e tragico affresco di mezzo secolo di terrorismo basco.
 
 
 
«Caro Joxe Mari.» Caro? Che orrore. Cancellò la parola non appena la vide scritta. Di fronte a Bittori, sulla parete, era appesa la foto del Txato. Tranquillo, sto solo facendo delle prove. Il foglio era stato profanato da quella formula insincera di saluto. Bittori ne prese un altro dalla pila che giaceva su un lato del tavolo. Scriveva con il corpo chino in avanti in una posizione forzata. Soltanto in quel modo diventava tollerabile il dolore al ventre, che non le dava tregua dal tardo pomeriggio. Ikatza dormiva con un sonno leggero a breve distanza, sopra uno dei cuscini del divano. Di tanto in tanto si leccava una zampa. Ed era mezzanotte passata da più di mezz’ora.
«Salve, Joxe Mari.» Una pacchianata. «Kaixo, Joxe Mari.» Fece una smorfia. Significava fingere una confidenza che non avevano. Alla fine si limitò a scrivere il nome del destinatario, seguito da una virgola. Fu tentata, per puntiglio?, di presentarsi come la Pazza, come mi chiama la sua famiglia. Lo sapeva da Arantxa, che incrociava spesso per strada, sempre in compagnia di quella badante con la faccia da india delle Ande che la porta a passeggio. «I miei ti chiamano la Pazza, ma non farci caso.» A Bittori sembrò che rivelando quella confidenza avrebbe potuto mettere zizzania tra i due fratelli. Non la rivelò. Invece scrisse: sono Bittori, ti ricorderai, non è mia intenzione causarti problemi, credimi, mi sono liberata dall’odio eccetera. Rilesse il primo paragrafo con fastidio, ma cosa vuoi. Tu continua e, nel caso, poi correggerai.
Su un foglio a parte aveva appuntato le cose di cui voleva trattare nella lettera. Non molte. E non voleva neanche farla troppo lunga. A che servono tutti questi sforzi se poi non mi risponde? E tuttavia, quelle poche cose l’avevano tenuta in tensione e pensierosa, insicura e sveglia, per diversi giorni. Andò al sodo. Non era spinta dal rancore. Il motivo della lettera? Sapere con tutti i possibili particolari com’era morto suo marito. Soprattutto, chi aveva sparato. Di più: era disposta a perdonare, ma a una condizione. Quale? Che lui le chiedesse perdono. Aggiunse che non si trattava di una pretesa, ma di una preghiera. Così non era abbassarsi troppo? Non le importava. Scrisse che a causa della sua malattia sarebbe vissuta ancora poco. Cancellò subito la frase. Proprio in quel momento l’assalì un’altra raffica di dolore. Ikatza dovette notarlo, perché si svegliò allarmata.
«Sono arrivata a un’età in cui non credo che mi rimanga molto da vivere.» Rilesse. Sì, quelle parole suonavano più discrete. La verità le pareva troppo forte. Se gliela dico penserà che mento. Peggio: che cerco di ispirargli compassione. La verità la conosceva soltanto lei. Nemmeno i suoi figli, sebbene ritenesse improbabile che Xabier non fosse punto dal sospetto. Sennò, perché insiste per farmi visitare dall’oncologo? Dare la colpa all’età risultava meno terribile. Sicuramente, leggendo quel passaggio, lui avrebbe pensato a sua madre, avanti negli anni quanto Bittori. Questo lo ammorbidirà. E, naturalmente, gli sarebbe stata molto grata se, prima che la mettessero in una tomba, lui le avesse raccontato in quali circostanze era morto il Txato. Aveva bisogno di sapere, tutto qui.
 
[da Patria di Fernando Aramburu, traduzione di B. Arpia, Guanda, 2017]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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