Questo è il racconto di una passeggiata fatta nel quartiere di Rifredi a Firenze nel novembre del 2021. Un viaggio nel passato alla ricerca delle tracce e delle memorie lasciate dai partigiani, dai resistenti, dalla gente comune fra il 1943 e il 1944. Ho cercato di vedere con occhi nuovi e attenti le strade, le piazze, gli edifici del quartiere. Ho scoperto cose che non avevo mai notato e che mi hanno invitato a cercare, leggere e documentarmi. Sono stata particolarmente ispirata dal libro “Amici per la vita” di Louis Goldman (Coppini editore, 1999) che racconta molto bene il quartiere di Rifredi in quei giorni e che ho letto con vivo interesse. Ho elaborato questa mia esperienza stimolata dal gruppo di scrittura guidato dalla prof. Marialuisa Bianchi che in questo anno ha individuato nel tema del viaggio l’argomento del nostro corso di autobiografia. In anni di pandemia, in cui gli spostamenti sono decisamente limitati, tutto può essere vissuto con uno sguardo nuovo ed ecco che per me questa passeggiata ha significato una consapevolezza diversa, ha attivato la mia immaginazione facendomi balzare al tempo dell’occupazione nazi-fascista e della liberazione di Firenze ed in particolare di Rifredi. Volti, luoghi, destini si sono incrociati con il mio sentire, emozionandomi profondamente facendomi ripetere come un mantra: “Mai più”! Le visite al quartiere sono state un’iniziativa dell’Istituto Storico della Resistenza Toscana e dell’età contemporanea, in collaborazione con L’Associazione Regola d’Arte e col sostegno del Comune di Firenze.
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L’appuntamento col gruppo e la guida per questa passeggiata della memoria è in piazza Dalmazia, davanti al monumento ai caduti per la libertà contro il nazifascismo. Il cippo si trova in mezzo ad un’aiuola fiorita, circondato da chiassosi e colorati banchi del mercato e quasi sfiorato dalla tramvia che va a Careggi. Il rumore e la confusione cittadina fanno da sfondo. Mentre ascolto la spiegazione della guida mi chiedo se i tanti passanti si sono mai accorti di questo monumento. Anch’io se non lo avessi cercato di proposito forse non lo avrei mai notato. È un monolite di pietra grigia dedicato a coloro che caddero nella lotta di liberazione e nella guerra voluta dal nazifascismo. Osservando le parole incise nella pietra mi perdo nei miei pensieri riflettendo sul significato della memoria e la sua importanza. Allora, quelle dei caduti e dei resistenti, erano azioni coraggiose fino anche al sacrificio, gesti che oggi, ogni 25 aprile, commemoriamo ma di cui ci dimentichiamo.
Guerre, ingiustizia, ineguaglianza persistono, ancora si producono e si vendono armi come se ciò che è successo ormai ottanta anni fa, non ci avesse insegnato niente. Certo questa piazza è vitale e tutta questa vivacità che mi circonda è possibile per merito di chi allora ha lottato sia come partigiano che come cittadino resistendo anche in modo pacifico. La guida ci invita a seguirla. Ci spostiamo in gruppo sparpagliandoci e “saltellando” da un semaforo all’altro dal monumento al cinema Flora dall’altro lato della piazza. L’esuberanza della strada con la frenesia della folla mi piace e mi distrae ma mi sforzo di seguire le parole della nostra accompagnatrice che racconta il rione com’era. Osservo gli edifici che mi circondano, la maggior parte costruiti per gli operai, Rifredi quartiere di lavoratori, della Galileo, della Pignone storiche fabbriche che con le loro azioni di dissenso e protesta contribuirono alla resistenza.
Questi luoghi fra il ‘43 e il ‘44 sono stati teatro di scontri, di conflitto a causa dell’occupazione e il transito verso la linea gotica dell’esercito tedesco. La zona fu bombardata dagli Alleati per distruggere le fabbriche, i collegamenti e i depositi ferroviari. Lo sguardo spazia tutto intorno. Le case vicino alla ferrovia sono basse e colorate di un giallo tenue. Dalla parte opposta i palazzi sono più alti e le botteghe al pian terreno sono negozi lussuosi. Vorrei essere maggiormente capace di immaginare la piazza com’era, senza tramvia, senza pensiline, senza il caos odierno, senza le ultime trasformazioni urbane e sociali. Come sarà stata la quotidianità? I rapporti familiari, lo stare insieme? Come si viveva col terrore dei bombardamenti e cosa si provava vedendo i morti, i feriti, le strade, le case distrutte? E il tempo nei rifugi? Spesso erano luoghi di fortuna. Come si stava al lavoro in fabbrica dove ci si opponeva ai nemici nazifascisti? E la resistenza? La lotta dei partigiani che dalle colline sopra Careggi scendevano verso la città? Le restrizioni, le privazioni, il razionamento alimentare gravavano su una quotidianità già lacerata dal conflitto armato e dall’occupazione. Io, che mi considero fortunata per essere nata in tempo di pace e da questa parte di mondo, posso solo chiedere, informarmi, provare a capire e parlarne perché la memoria permanga e crei consapevolezza, soprattutto adesso che dei partigiani e dei resistenti di allora non ce ne sono quasi più.
Proseguiamo nel nostro itinerario verso le ex officine Galileo passando per via Carlo Bini. All’angolo con via Vittorio Emanuele nel 1895 fu fondata una scuola per ricamatrici, la Maison Donalici Rifredi school. Un centinaio di giovani e giovanissime donne (già dai dieci e gli undici anni potevano frequentare) ne hanno fatto parte. Il loro lavoro era famoso e apprezzato in tutto il mondo. Producevano biancheria ricamata indossata anche da attori famosi e nobili del tempo. La scuola sembra che sia stata chiusa nel 1960 per mancanza di allieve. La palazzina dall’architettura signorile, su via Vittorio Emanuele ha un giardino cinto da alte mura e chiuso da un possente cancello con ai lati due colonne sormontate da leoni in pietra. Non c’è traccia del passato neanche un’insegna che ricordi la “Maison”. Mi sforzo di immaginare le tante giovani che vi lavoravano chiacchierare, ridere e sostare, nelle giornate calde, all’ombra del giardino nascosto dalle alte mura. Avranno avuto una divisa? Come sarà stato il lavoro nel tempo di guerra? Chissà?
Proseguiamo verso la Galileo la strada cambia aspetto, alle palazzine in stile primo novecento si sostituiscono degli edifici moderni. Arriviamo in un giardino con un ampio e colorato spazio gioco per i bambini. Il luogo è piacevole nonostante sia circondato da nuovi ed anonimi palazzi. L’elica di un finto aeroplano, che funge da scivolo per i più piccoli, si staglia davanti alle mura e al tetto delle ex officine. Mentre ascolto la guida mi siedo su una panchina, passato e presente si mescolano. Il racconto di ciò che è stato si confonde con le grida divertite dei bambini. I bombardamenti del 1944 danneggiarono gravemente le fabbriche fiorentine e anche la Galileo, specializzata nella produzione di materiali ottici, di puntamento e di apparecchiature per gli armamenti, fu colpita. La guida ci mostra la riproduzione di una vecchia foto rappresentante la fabbrica prima e dopo le incursioni dei bombardieri. Sempre fra il ‘43 e il ‘44 nelle fabbriche avevano preso campo le mobilitazioni operaie antifasciste, con la circolazione di opuscoli informativi che diedero inizio a manifestazioni di dissenso, di sabotaggio della produzione, tutto ciò a danno dei tedeschi occupanti.
Un operaio della Galileo, nell’ottobre del ’43 scriveva su un giornale clandestino di stampa comunista, della impossibilità di continuare a lavorare per la requisizione di tutto il materiale necessario alla produzione, compresi i macchinari distrutti o depredati dai tedeschi occupanti la fabbrica, e della paura per la minaccia che gravava sugli operai: la deportazione di massa verso la Germania. Invitava però i lavoratori a non disertare ma a mobilitarsi per lottare contro la prepotenza e i soprusi dei nazisti attuati con la collaborazione dei fascisti. Alla Galileo esisteva un “Comitato di agitazione” i cui capi animarono una protesta che rallentò la produzione e in alcuni reparti la bloccò. Questo successe non solo in questa fabbrica ma anche in altre industrie fiorentine come la Pignone e la Manifattura tabacchi la cui maestranza era al 90% femminile. Il 3 marzo del 1944 la Galileo con le altre fabbriche di Firenze e dintorni scioperarono, questo sciopero che fu nazionale e molto partecipato, aveva una chiara matrice politica anti fascista e anti tedesca. In Toscana la repressione nazifascista alle proteste fu fatta dai rastrellamenti e dalla deportazione di operai nei campi di concentramento per mano dei tedeschi e dei Repubblichini. L’8 marzo del ‘44 partì da Firenze un convoglio con alcune centinaia di deportati politici con destinazione Mauthausen. Dal cielo plumbeo un raggio di sole fa capolino ed illumina l’aeroplano su cui i bambini scivolano allegramente. La vita va avanti nonostante il dolore e la morte, e mi fa piacere vedere questo luogo frequentato dai più piccoli.
La passeggiata prosegue per il viale Morgagni, ci dirigiamo verso la parrocchia di Don Giulio Facibeni facendo una sosta di fronte alla scuola elementare Matteotti. La guida ci racconta di Careggi, come l’ospedale dall’estate del ’44, nonostante fosse accerchiato, sorvegliato all’ingresso, soggetto a controlli nelle sale di degenza dalle truppe tedesche, seppe accogliere sfollati, partigiani e perseguitati nascondendoli e proteggendoli nei sotterranei. Solo personale medico o paramedico poteva entrare o uscire dal nosocomio ma i partigiani e altri coraggiosi, riuscivano ad eludere la sorveglianza tedesca indossando dei camici e ostentando un’aria professionale. Ci sono testimonianze che raccontano episodi di uscita ed entrata da e verso l’ospedale in barba al nemico tedesco. In particolare la guida descrive la vicenda di un reparto di tubercolotici chiamato “Il lazzaretto” dove, finti malati, avevano imparato a nascondere della polvere di uovo sodo in bocca che tossendo sputavano allontanando così i controlli dei nazisti da quelle sale per la paura del contagio. Oppure delle fughe attraverso le fogne che arrivavano dall’ospedale a piazza Dalmazia. Il 24 agosto del ’44 due fuggiaschi si fecero individuare sollevando un tombino probabilmente per cercare aria, furono scoperti e catturati al pronto soccorso dell’ospedale dai tedeschi, i quali distrussero il passaggio gettando una granata nel tombino. I due, che si chiamavano Gino Colli e Ugo Ferri, vennero crudelmente fucilati 2 giorni dopo durante la ritirata dai nazisti. Una lapide su un muro di villa Pepi, luogo dove vennero uccisi, porta incisi i loro nomi.
La guida ci parla anche della fame sofferta all’interno dell’ospedale e racconta di un maiale che grufolava nei campi lì intorno saltato in aria a causa dell’esplosione di una mina, fu raccolto da falsi infermieri usciti all’esterno con la barella, avvolto in un lenzuolo macchiato di sangue, in modo da farlo sembrare un ferito che stavano soccorrendo e poi cucinato all’interno dell’ospedale. Con queste storie nella mente che provo ad immaginare proseguo con il gruppo verso via delle Panche e la chiesa di Don Facibeni attraversando il ponte sul torrente Terzolle. Camminiamo ordinatamente facendo attenzione alla strada cosi tanto trafficata e buttando lo sguardo verso le case intorno e il fosso. Finalmente dopo lo “slalom” sul marciapiede arriviamo alla chiesa e non posso che ammirare il suo bel loggiato, ci sediamo sul muretto di fronte alla facciata. Nella piazzetta antistante all’ingresso c’è la statua di Don Facibeni ritratto in un atteggiamento di accoglienza, con le braccia semi tese, l’espressione del volto attenta e lo sguardo acuto. Dai bottoni della tonaca all’altezza del cuore, spunta un fazzoletto, lo teneva lì. Il sacerdote, spiega la guida, era gravemente colpito dal Parkinson e il fazzoletto doveva essere facilmente a portata poiché non poteva più fare movimenti complessi. Don Giulio Facibeni fin dai primi tempi del suo arrivo a Rifredi, un quartiere in profonda trasformazione sociale, lavorò per sostenere la comunità della sua parrocchia maggiormente in difficoltà. Allo scoppio della prima guerra mondiale vedrà molti giovani della zona partire e, cappellano militare lui stesso, racconterà il forte dolore, lo sconforto per le tante vite sacrificate e la mancanza di parole nel dover comunicare alle famiglie le morti di tanti compagni di guerra.
Crea la sua fondazione al ritorno a Firenze per accogliere gli orfani che il conflitto, con la sua carneficina aveva lasciato ma soprattutto, per mantenere una promessa fatta in punto di morte a coloro che lo avevano implorato fra le trincee del Montegrappa o sulle sponde dell’Isonzo, di non abbandonare le loro famiglie. La statua della Madonnina sulla cima del Montegrappa ha dato il nome all’orfanotrofio che oltre ad una casa di accoglienza è da allora scuola, luogo di formazione lavorativa e tanto altro. Fra il’43 e il ‘44 Don Facibeni nascose anche degli israeliti, la guida ci racconta in particolare di un giovane ebreo, Louis Goldman, un diciottenne la cui storia è raccolta nel libro “Amici per la vita”, che fu protetto, nascosto e aiutato dal sacerdote insieme ad un altro compagno ebreo di nome Willy.
Goldman, catturato durante un rastrellamento all’orfanotrofio dai tedeschi, riuscì a difendersi, a farsi rilasciare e non deportare in Germania, proprio grazie al suo appartenere ai giovani della “Madonnina del Grappa” e ad essere creduto dai nazisti uno studente di teologia ancora minorenne. Mentre la guida parla mi immagino i militari tedeschi che, terminato il rastrellamento, obbligano con urla secche ed armi alla mano, i giovani uomini a percorrere, in una fila composta, le strade intorno all’orfanotrofio lungo il torrente Terzolle fino ad un casolare nella campagna vicina. Posso sentire il battito accelerato dei loro cuori, percepire i brividi ghiacciati attraversare i loro corpi nonostante fosse luglio del 44’e l’aria infuocata dal calore del sole pomeridiano, avverto forte nella mente la loro paura, la certezza di poter essere messi contro un muro e fucilati.
Il già anziano e malato prete col suo passo incerto, col cappello calato sul volto a nascondere la disperazione negli occhi, con la lunga tonaca nera svolazzante intorno alle caviglie cercherà di seguirli. Proverà, raggiunto il casolare, a barattare la sua vita con quella dei suoi ragazzi ma non otterrà nulla. I giovani finiranno in Germania nei campi di lavoro. Goldman con la sua presenza di spirito e la conoscenza della lingua tedesca e con una falsa data di nascita sulla carta d’identità che lo faceva più giovane, riuscirà ad imbrogliare i soldati nazisti e ad andarsene dal casolare. Incontrerà con sollievo e profonda commozione Don Facibeni, accorso per liberare i suoi ragazzi, sulla strada di via delle Gore. Il sacerdote lo accoglierà piangendo, a braccia aperte, probabilmente pensando che almeno uno si era salvato. Questa storia così commovente lascia il gruppo in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri, immersi in una strana quiete fatta di malinconia e anche di angoscia. Lasciata la chiesa di Santo Stefano in pane proseguiamo lungo via delle Panche, la guida ci racconta dei cecchini, i franchi tiratori che si trovavano anche nel quartiere di Rifredi periferia a nord della città. Appostati su i tetti o dietro le persiane avevano il compito di sostenere la linea di difesa dei tedeschi e il loro arretramento, oltre a difendere “l’onore fascista”. Spesso i bersagli non erano i soldati nemici o i partigiani ma persone comuni, come donne uscite di casa per la necessità di prendere acqua alla fontana, anziani, bambini, persone innocenti.
Con questa amarezza nel cuore procediamo in una fila composta come se fossimo prigionieri da deportare noi stessi, camminando ordinatamente sul marciapiede. Procedo con la testa rivolta verso l’alto quasi a voler scorgere in agguato dietro una finestra o da un abbaino, il fantasma di un cecchino che immagino esaltato, spietato, furente, una figura oscura pronta a tutto. La questione dei franchi tiratori è uno degli aspetti più drammatici della tragedia che in quei giorni viveva Firenze e che i partigiani, in squadre di azione, cercavano di stanare per rendere sicuro il territorio. Nella via trafficata si alternano a vecchie case edifici più moderni. Le strade laterali portano i nomi di gloriosi partigiani e a metà di via delle Panche si trova questa targa: Alla memoria di coloro che si immolarono per la lotta contro il nazifascismo. Le Panche 31-8-1947. Il muro che l’accoglie è semplice, spoglio, di un giallo tenue. La targa non si vede se non la cerchi, è stata posta in quel punto a ricordo dei combattimenti per la liberazione avvenuti in questa zona in quel tragico agosto del 1944.Osservandola mi viene di pensare che i partigiani hanno tenuto testa per molti giorni ai soldati tedeschi e ai fascisti con grande coraggio, dobbiamo a loro, la maggior parte giovani cresciuti in un’epoca senza alcuna libertà di pensiero, i diritti di cui oggi, attraverso la Costituzione, possiamo godere.
La nostra ultima meta è il farmaceutico in via Reginaldo Giuliani. Lì il 5 agosto del 1944 si consumò un’altra tragedia, 12 innocenti fucilati a causa di una bugia Un gruppo di soldati tedeschi entrati in una casa con la scusa di chiedere del vino tentarono di violentare una giovane donna. Nell’aggressione non si sa come partì un colpo di pistola che ferì uno di loro. I soldati scapparono e tornati al comando, per non essere puniti dalla corte marziale forse con l’impiccagione (questo il codice militare tedesco prevedeva per il reato di stupro) riferirono mentendo, di un agguato in via Reginaldo Giuliani in cui il loro commilitone era stato ferito da un italiano. La reazione non si fece attendere, una squadra militare si recò negli scantinati del farmaceutico dove la gente trovava rifugio e uccise dodici uomini, il più giovane diciassettenne e il più anziano di 55 anni. La rappresaglia tedesca durò solo dieci minuti. Una lapide vede scolpiti tutti i nomi di coloro, che innocenti in quella tragica notte persero la vita giorni prima che Firenze fosse liberata. Le storie ascoltate e vissute in questa mia passeggiata della memoria mi hanno lasciato visibilmente commossa e pensierosa. Saluto il gruppo e ringrazio la guida con il proposito di approfondire, cercare parole, suoni, immagini che mi aiutino a vedere con maggiore chiarezza ciò che la mia città ha vissuto durante la guerra e il fascismo, e in particolare in quei due mesi di luglio e agosto del ‘44. Concludo il mio raccontare con le parole finali che sono una preghiera di Amerigo Gomez nel documentario “Firenze, agosto 1944” di Amerigo Gomez e Victor de Santis: […] Fa che dal pianto fiorisca la speranza e che questa non cancelli il santo ricordo del dolore. Fa che sulle dolci colline della città poggi sempre un orizzonte di pace. Fa che il mondo si specchi nella serenità del suo cielo.
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