Paolo Cognetti e la “pedagogia” della montagna

Luigi Oliveto

21/04/2017

Se stressati dalla quotidianità, imbufaliti verso i vostri simili, magari anche verso voi stessi, pensaste di ritirarvi in un luogo di montagna lontano da tutto e da tutti, è consigliabile prepararsi a questa scelta leggendo il libro di Paolo Cognetti “Le otto montagne”. Un libro di formazione, di educazione alla solitudine, alla bellezza, all’amicizia, all’uso delle sole parole che contano. Questo insegna la storia di Pietro, un pallido ragazzino di città che in montagna, nel paesino di Graines, incontra Bruno, suo coetaneo che pascola le vacche. Nell’incanto della Val d’Ayas “chiusa a monte da creste grigio ferro e a valle da una rupe che ne ostacola l'accesso”, là dove le montagne insegnano che le mete vanno raggiunte passo dopo passo, che il silenzio non è assenza di vita ma presa di coscienza dell’esistere, Pietro e Bruno instaurano un’amicizia che li legherà anche da adulti. Loro così diversi, eppure somiglianti, insieme alla scoperta del mondo e di se stessi. Ma non solo. In mezzo a neve, dirupi, torrenti, Pietro farà lunghe camminate con suo padre, uomo introverso e tormentato. Un’esperienza così indelebile da fargli dire che sia stata “la cosa più simile a un'educazione che io abbia ricevuto da lui”. La montagna, infatti, è una pedagogia, un modo di respirare, di misurare il tempo. Una scuola per conoscere se stessi, capire il nostro posto nel mondo.
 
 
Mio padre aveva il suo modo di andare in montagna. Poco incline alla meditazione, tutto caparbietà e spavalderia. Saliva senza dosare le forze, sempre in gara con qualcuno o qualcosa, e dove il sentiero gli pareva lungo tagliava per la linea di massima pendenza. Con lui era vietato fermarsi, vietato lamentarsi per la fame o la fatica o il freddo, ma si poteva cantare una bella canzone, specie sotto il temporale o nella nebbia fitta. E lanciare ululati buttandosi giù per i nevai.
Mia madre, che l’aveva conosciuto da ragazzo, diceva che lui non aspettava nessuno nemmeno allora, tutto preso a inseguire chiunque vedesse più in alto: perciò occorreva aver buona gamba per rendersi desiderabili ai suoi occhi, e ridendo lasciava intendere di averlo conquistato così. Lei più tardi alle corse cominciò a preferire sedersi nei prati, o immergere i piedi in un torrente, o riconoscere i nomi delle erbe e dei fiori. Anche in vetta le piaceva soprattutto osservare le cime lontane, pensare a quelle della sua giovinezza e ricordare quando c’era stata e con chi, mentre mio padre a quel punto veniva invaso da una specie di delusione, e voleva soltanto tornarsene a casa.
Credo fossero reazioni opposte alla stessa nostalgia. I miei erano emigrati in città verso i trent’anni, lasciando il Veneto contadino in cui mia madre era nata, e mio padre era cresciuto da orfano di guerra. Le loro prime montagne, il primo amore, erano state le Dolomiti. Le nominavano a volte nei loro discorsi, quand’ero ancora troppo piccolo per seguire la conversazione, ma sentivo certe parole spiccare come suoni più squillanti, con più significato. Il Catinaccio, il Sassolungo, le Tofane, la Marmolada. Bastava uno di questi nomi pronunciati da mio padre per far brillare gli occhi a mia madre.
Erano i posti dove si erano innamorati, dopo un po’ lo capii anch’io: fu un prete a portarceli da ragazzi e fu lo stesso prete a sposarli, ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo, davanti alla chiesetta che c’è lì, una mattina d’autunno.
Quel matrimonio di montagna era il mito fondativo della nostra famiglia. Osteggiato dai genitori di mia madre per motivi che non conoscevo, celebrato tra quattro amici, con le giacche a vento come abiti nuziali e un letto al rifugio Auronzo per la prima notte da marito e moglie. La neve brillava già sulle cenge della Cima Grande. Era un sabato di ottobre del 1972, la fine della stagione alpinistica per quello e molti anni a venire: il giorno dopo caricarono in macchina gli scarponi di cuoio, i pantaloni alla zuava, la gravidanza di lei e il contratto di assunzione di lui, e se ne andarono a Milano.
 
[da Le otto montagne di Paolo Cognetti, Einaudi, 2016]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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