19/02/2015
Non c’è da meravigliarsi della pressoché totale dimenticanza in cui è caduto Paolo Cesarini (1911-1985). Neppure un suo articolo è ristampato nei quattro volumi dell’antologia sul “Giornalismo italiano” allestiti da Franco Contorbia per i Meridiani di Mondadori. Forse per lui è stato penalizzante anche il suo situarsi al confine, sia per la varietà di generi che coltivò sia per i burrascosi tempi in cui dette prova del suo mestiere di giornalista-scrittore.
Nonché una patina linguistica toscaneggiante che fa da filtro. Nel periodo di apprendistato Cesarini fu uno dei tanti giovani abbagliati dalle promesse rivoluzionarie del movimento fascista: se qualche tratto di originalità risalta nella produzione di allora, si direbbe inscrivibile nella tendenza ad una calcolata finezza, ad una prosa impreziosita da connotazioni locali e ammiccanti sprezzature. I resoconti dell’avventura africana – la guerra d’Etiopia – rivelano uno sguardo alieno dall’enfasi esclamativa e non di rado riflettono un dolente autobiografismo. La fase ultima, il terzo tempo, dopo la fine della guerra, vede un Cesarini che riprende il lavoro in silenziosa dignità alla “Gazzetta del Popolo” e disdegna i primi posti occupati da quanti riuscirono a far dimenticare il proprio passato con cinica disinvoltura. Quindi il rientro a Siena, nella “piccola patria” mai dimenticata. Che se non era quella d’una volta era pur sempre il deposito di memorie incancellabili. Grazie alla diligente e scrupolosissima ricerca di Francesco Donzellini (“Le passioni Il disincanto. Profilo e scritti di Paolo Cesarini”, pp. 300, € 20, Effigi, Arcidosso 2014) disponiamo finalmente di un profilo biografico e di un’abbondante antologia di testi che consentono di ripercorrere tutti gli anni di Paolo.
Che definì gli anni del secondo dopoguerra, anche a nome di tanti amici della sua generazione, «i peggiori anni della nostra vita»: le delusioni subite avevano lasciato un senso di vuoto che non poteva essere riempito altre motivazioni. Non pochi riuscirono a mettersi in sintonia con le nuove parole d’ordine, magari esaltando qualche loro incidentale atteggiamento di dissenso: atti minimi di indisciplina, articoletti buttati giù con svagata irriverenza giovanile. Paolo scelse la dignità del silenzio e senza ambagi dettò una confessione scarna: «In vari tempi, dalla lontana convinzione d’essere i rappresentanti genuini del fascismo – quello di cui favoleggiavamo – concludemmo costatando di trovarci antifascisti e spesso in maniera così pudica e intima, piena di discriminazioni e complessata da colpe preterintenzionali, da non poterci onestamente affiancare all’antifascismo già in vista della vittoria. Sicché restammo in minoranza anche questa volta, ma assai più esigua, osservando stupefatti quelli subito messisi al passo coi nuovi tempi». Ecco: in Cesarini si avverte talvolta – nei momenti più maturi – l’intimo orgoglio di chi sa di trovarsi in minoranza, sia tra i giovani che interpretarono e vissero il fascismo in chiave di ribellione antiborghese, sia più tardi quando si chiude in un radicalismo elitario, scettico, più psicologico che direttamente politico. Un radicalismo neutrale e distaccato, accostabile alla vena di due venerati amici: all’acido sarcasmo di Indro Montanelli e alla feroce matita di Mino Maccari.
Il primo tempo è dominato dal carisma di Mussolini. Per Cesarini, come per Romano Bilenchi, è appropriato scrivere di mussolinismo: inteso come rottura irreversibile con un sistema che aveva portato ad una crisi senza sbocchi. “Quei ragazzi mussoliniani – ha notato lo storico Paolo Buchignani – non provano alcuna nostalgia per lo Stato liberale, per il Parlamento, per il pluralismo politico e per le libertà democratiche (che non hanno mai conosciuto); per loro si tratta di istituzioni e di elementi di quell’ ‘Italia meschina’ (…) che il fascismo ha opportunamente seppellito con la sua dittatura rivoluzionaria e totalitaria”. La costruzione dell’Impero è sentita da Cesarini, e da tanti suoi coetanei, come una proposta metapolitica, risolutrice finalmente di debolezze interne e in grado di assegnare all’Italia una missione civilizzatrice nel mondo. Non è un caso che Paolo citi la “deprimente politica cittadina” tra i mali che avevano impedito al fascismo un fecondo radicamento e che prescriva al giornalismo il compito di «fare entrare nella testa dei lettori quelle poche idee basilari che sono indispensabili al formarsi di una generale e solida coscienza imperiale». La guerra d’Etiopia fu «un rito di passaggio” – ha scritto Franco Contorbia – e per i giovani nati nel primo decennio del nuovo secolo “un ineludibile banco di prova personale, professionale e politico».
Il racconto in forma diaristica dei lunghi giorni di ufficiale al fronte alterna spunti di curioso esotismo e parentesi di estatiche scoperte. Laura Barile ha sottolineato che “Un uomo in mare” (1937) è un libro «sofferto». Ma la sofferenza non è estranea ad un certo compiacimento. Nella battaglia dello Sciré Cesarini fu ferito a una gamba. La mutilazione lasciò un segno profondo nello spirito oltre che nel corpo.
La sua attività giornalistica doveva ben presto cambiare registro e mettersi al servizio del regime. Dal settembre 1941 all’estate 1943 Paolo diresse ad Atene il “Giornale di Roma”, un fogliaccio che si caratterizzava per il miscuglio inestricabile di informazione di regime e rozza propaganda. Riesce difficile capire le ragioni che convinsero Cesarini ad accettare un impegno così scabroso. Finalmente negli anni della sospirata ripresa Paolo Cesarini riconquista una libertà che è anche libertà di scrittura, ritorno al suo tipico estro descrittivo. Quindi, nel 1959, il ritorno a Siena: in una città tanto diversa da quella che aveva conosciuto nella giovinezza. Se n’era separato con l’ardimentosa ebbrezza che sprona alla ricerca di avventure imprevedibili. Ora si metteva a riposo, in un Eden ritrovato. Dopo tante peripezie, Paolo riassaporava la quiete del ritorno alla sua Itaca. Gli piaceva conversare con gli amici della sua Contrada, la Tartuca. Nei numeri unici celebrativi delle vittorie non faceva mai mancare un suo intervento, che spiccava tra gli altri per il sorvegliato taglio narrativo. Alla sintassi urlata dagli accenti trionfali preferiva la malinconia dei ricordi e si doleva di aver dovuto a lungo vedere il Palio di fretta, «da senese all’estero».
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