23/02/2015
C’è un intrigante tesoretto leopardiano tra i tanti che custodisce la Biblioteca Comunale degli Intronati. Ed una scelta mirata di lettere, immagini e edizioni è stata esposta in due teche organizzate da Mirko Francioni e Rosanna De Benedictis in coincidenza con la presentazione del carteggio tra Giacomo e la sorella Paolina curato da Antonio Prete e Laura Barile (“Il mondo non è bello se non veduto da lontano. Lettere 1812-1835”, nottetempo, Roma 2014).
Tra le preziose carte spiccano due lettere dello stesso Leopardi, entrambe indirizzate all’editore milanese Antonio Fortunato Stella e provenienti una dagli autografi collezionati dal Porri e un’altra da quelli donati da Pèleo Bacci. Giacomo si informa di questioni editoriali. E racconta di un suo lungo soggiorno a Ravenna dell’agosto 1826, dove si trattenne una decina di giorni. Ma è in mostra anche la fotografia che Paolina si fece fare quando – deceduta l’autoritaria madre Adelaide – viaggiò sulle orme del fratello per visitare – un pellegrinaggio – direttamente i luoghi che aveva visitato solo con l’immaginazione, da prigioniera del “paterno ostello”: la dorata prigione del maestoso palazzo di famiglia. Luoghi che conosceva dalle descrizioni puntuali del fratello, pressoché coetaneo, appena due anni più vecchio: nato lui nel 1798, lei nel 1800. Con Carlo, che era del 1799, formavano un terzetto dalla perfetta intesa.
«Forse perché priva di sorelle – ha sostenuto Rosèlia Irti –, mentre la cugina ne aveva due, forse perché la madre osteggiava tutto quanto era sentimentale frivolo e sentimentale, Pilla era cresciuta come un maschio, in tutto simile nei comportamenti a Giacomo e Carlo». Volitiva e curiosa malgrado i severi controlli cui era sottoposta, Paolina era lettrice vorace: e siccome, com’era costume, ha elencato i titoli di tutti i volumi che aveva letto sappiamo che più di 2000 ne divorò, con preferenza per i romanzi moderni, Stendhal in testa. Mentre non sopportava i tomi dei Padri della Chiesa, di cui abbondava la raffazzonata raccolta di Monaldo. Nelle lettere di Giacomo non mancano brani filosofici che anticipano certe pagine dello “Zibaldone”. Nelle risposte di Paolina è testimoniata spesso la morsa insopportabile di una gelida solitudine. Lette una dopo l’altra le lettere danno luogo ora ad un dialogo fitto e affettuosissimo, da ultimo interrotto anche da insormontabili incomprensioni. La rottura avvenne soprattutto per dissensi sulla religione. Paolina dissentiva dolorosamente dalle idee di Giacomo. Negli ultimi due anni di vita del poeta nemmeno un suo messaggio ci è pervenuto. “Dopo tutto questo – gli aveva scritto Giacomo da Roma nel gennaio 1823 – non ti ripeterò che la felicità umana è un sogno, che il mondo non è bello, anzi non è sopportabile, se non veduto come tu lo vedi, cioè da lontano, che il piacere è un nome, non una cosa, che la virtù, la sensibilità, la grandezza d’animo sono, non solamente le uniche consolazioni de’ nostri mali, ma anche i soli beni possibili in questa vita; e che questi beni, vivendo nel mondo e nella società, non si godono né si mettono a profitto come sogliono credere i giovani, ma si perdono intieramente, restando l’animo in un vuoto spaventevole».
L’angoscia che la morte del fratello (1837) provoca nella donna è duplice: la mancanza di un rapporto tanto confidenziale e il timore della dannazione eterna. Si conosce un episodio che prova la persistenza di un culto per Giacomo che va oltre il breve viaggio terrestre. Paolina incontrò in treno un sacerdote, Ippolito Amicarelli, che, sapendola di Recanati, le domandò notizie sulla città e sui Leopardi. Lei si commosse e chiese subito affannosa al suo interlocutore «se a parer suo Giacomino fosse potuto andare in Paradiso». Il prete, fervente patriota e conoscitore attento dell’opera di Giacomo «con focosa parola dimostrò, spiegò, assicurò, in quattr’e quattr’otto che il povero Giacomo era andato in Paradiso di volo: con tutte le scarpe». La Paolina si stemperò in un pianto senza fine. Un altro episodio significativo del suo temperamento si registrò nel contesto dei moti romani del 1848. «Due battaglioni di universitari, partiti da Bologna – si legge in un attendibile resoconto –, percorsero le strade della Romagna e della Marca per rastrellare altri volontari alla volta di Roma. Una sera furono di passaggio a Recanati e, costeggiando il muro che cingeva il giardino di casa Leopardi, intravidero una sagoma scura: il comandante ordinò di fermarsi, la guardarono, la riconobbero: ‘Viva la sorella!’ gridarono in coro. Lei non rispose:quei ragazzi che andavano a morire scambiarono per freddezza il suo silenzio, invece Paolina stava svenendo».
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