O’Connor, può succedere di comportarsi come ricci in letargo

Luigi Oliveto

23/04/2020

Jane O’Connor, laureata in sociologia, ricercatrice presso la Birmingham City University, amante degli animali e soprattutto dei ricci, debutta come autrice di narrativa con il libro “Silvia Penton esce dal letargo” (pubblicato in Italia da Corbaccio per la traduzione di Chiara Brovelli). Prosa e plot di apprezzabile nitore per raccontare una vicenda al femminile su come si possa bluffare, soprattutto con sé stessi, raccontandoci una realtà che non è quella vera, rinchiudendosi in un mondo illusorio, mendace, al punto da non vedere (non voler vedere) dove stia l’inganno. Questo fa la protagonista del romanzo, Sylvia Penton, spigolosa zitella cinquantaduenne, chiusa nel proprio nido (come un riccio in letargo, guarda caso) a coltivare una segreta illusione. Vive da sola in un appartamento londinese e lavora all’università come segretaria del professor Lomax, docente di psicologia e suo coetaneo. Nei fine settimana fa volontariato presso la casa del vecchio Jona, un ricovero per animali, soprattutto per ricci. Questo impegno è l’unico argomento che può spendere con i colleghi per far intendere che lei ha anche una vita al di fuori del lavoro. Ma, come detto, Sylvia vive in funzione di un segreto: l’amore per il professor Lomax. Amore che – questo pensa lei – non può essere debitamente ricambiato finché lui non si separi dalla moglie ponendo fine a un matrimonio in crisi irreversibile. Deve dunque pazientare, compiacersi di qualche moina che Lomax le somministra quotidianamente quando aggiornano il calendario degli appuntamenti e degli impegni accademici. Poi, una volta all’anno, per il compleanno di lei, c’è il massimo dell’intimità: Prof la porta a pranzo al ristorante. Tutto ciò è per Sylvia già gratificante, tenero. Certo, occorre sorvegliare affinché niente e nessuno possa distrarre Prof da questo loro progetto. E, infatti, qualcosa accade allorché entra in scena la dottoranda Lola, brillante, appariscente, protetta dal preside di facoltà. A Sylvia crolla il mondo, ha reazioni estreme, sconsiderate. Il contraccolpo, però, è utile a riposizionarla dentro la vita reale. A farle prendere coscienza che senza amare sé stessi, difficilmente si ha l’equilibrio, la misura giusta per rapportarsi all’altro. E, se del caso, amarlo.
 
***
 
Aspetto questo giorno tutto l’anno. Non perché mi diverta a invecchiare (cielo, no), ma perché Prof mi porta a pranzo in un posticino speciale per il mio compleanno, noi due soltanto. Gli piace scegliere un locale che mi sorprenda, e io adoro quando è lui a prendere l’iniziativa. L’anno scorso scelse un ristorante francese molto elegante, dove decise – un po’ impulsivamente, pensai – di ordinare un piatto di escargot. Se aveste visto la sua faccia, mentre le mangiava! Io ridevo.
Abbiamo la stessa età, Prof e io. Be’, per essere precisi io ho quarantun giorni più di lui, che compie gli anni in ottobre, ma non credo che conti. Penso semplicemente che abbiamo entrambi cinquantadue anni, ed è bello così. Suppongo che sarebbe anche meglio se lui fosse un pochino più vecchio, ma il fatto di essere coetanei è un’altra cosa che abbiamo in comune, e a me sta benissimo così.
Ero già al lavoro alle nove meno dieci. Cerco sempre di essere un po’ in anticipo, rispetto a Prof, per assicurarmi che sia tutto in ordine per lui: computer acceso, persiane tirate su, la posta sulla scrivania. Lui è entrato come una furia alle nove e un quarto, brandendo la ventiquattrore nera di pelle quasi fosse un trofeo. Mi ha strappato una risatina, come sapeva sarebbe successo: credo sia il motivo per cui ogni tanto fa queste cose sciocche. Quando si siede alla scrivania vuole trovare un tè bello forte (preparato con due filtri), per «mettere in moto gli ingranaggi», come dice lui, e non sono riuscita a trattenere un verso frustrato, perché Margaret aveva preso possesso del bollitore per prepararsi il suo.
«Ci metto meno di un minuto, Sylvia» mi ha detto, mentre versava lentamente il latte nella tazza, e poi prendeva il dolcificante. «La pazienza è una virtù, ricorda.»
Le ho lanciato un’occhiataccia, quando ci è passata davanti con la sua tazza, e ho dovuto resistere all’impulso di allungare il piede per farle lo sgambetto.
Preparato e consegnato il tè, Prof e io finalmente ci siamo goduti il nostro prezioso momento insieme, che è quello che preferisco di tutta la giornata. Quei dieci, a volte anche quindici minuti, in cui sfoglia la sua agenda, discute delle riunioni a cui deve partecipare e delle persone che hanno preso appuntamento con lui, nel suo ufficio. Spesso, nel programma quotidiano, riserva un po’ di tempo alla scrittura, ed è allora che io divento indispensabile. Mi vedo come la paladina che lo difende, che respinge orde di studenti e colleghi di facoltà che bramano disperatamente un po’ della sua attenzione. Lo prosciugherebbero, se ne avessero la possibilità. Prof non ha la più pallida idea di quello che faccio per lui, di come tengo tutti a bada per dargli modo di portare avanti il suo lavoro, ma sa per certo che la mia lealtà è totale.
«Allora, Sylvia, pranziamo insieme?» mi ha chiesto, girando sulla sedia per guardarmi, quando abbiamo finito di esaminare gli appuntamenti della giornata.
Ho annuito e sono riuscita a limitarmi a un «Sì, grazie» sforzandomi di non sembrare troppo ansiosa davanti alla prospettiva di avere la piena attenzione di Prof per un’ora e mezzo, mentre agli occhi degli altri sembriamo una coppia normale.
«Ottimo, usciamo verso mezzogiorno.» Si è voltato di nuovo verso il suo computer, e immediatamente si è lasciato assorbire dal testo sul monitor, mentre io sono scivolata dietro la mia scrivania e ho provato a concentrarmi e a battere le minute del meeting finanziario del giorno prima. Alle undici e trenta è iniziata l’attesa, perché non sapevo quando esattamente sarebbe stato pronto per uscire, e, nascosta dietro allo schermo, mi ritoccavo il trucco ogni cinque o sei minuti. Finalmente, a mezzogiorno e venti, ha incrociato il mio sguardo attraverso il vetro divisorio e ha alzato la mano, mostrandomi le cinque dita. Ho fatto sì con la testa, d’accordo, e mi sono data un’ultima spruzzata di profumo mentre lui concludeva le sue e-mail.
«Okay, andiamo» ha detto, battendo le mani mentre mi guardava raggiante, e per l’agitazione ho fatto cadere i trucchi sul pavimento. «Ci vediamo nell’atrio, quando sei pronta» mi ha detto, allungando il braccio dietro la schiena per salutarmi, mentre afferrava la giacca dall’appendiabiti e infilava la porta.
[…]
Sono scesa, e il taxi è rimasto in attesa mentre Prof finiva la sua telefonata, pagava e si faceva dare la ricevuta. Ha riportato la sua attenzione su di me, e ha fatto un inchino scherzoso sul marciapiede. «Entriamo?» mi ha chiesto.
Ho sorriso, mentre mi apriva la porta, e un attimo dopo eravamo all’interno dell’affollata trattoria. L’arredamento era scialbo e banale, per non dire altro. I tanti tavoli erano nascosti sotto tovaglie a quadretti bianchi e rossi, dal soffitto pendevano mazzi di erbe finte, e la parete sulla destra ospitava un affresco amatoriale del Colosseo. In fondo alla stanza si vedeva la cucina aperta, dove una schiera di chef che potevano avere al massimo vent’anni erano impegnati nella frenetica preparazione di pizze che poi mettevano nei forni, spingendole con le enormi spatole di legno. Ci sono rimasta un po’ male, avevo sperato in un locale un pochino più elegante per il nostro pranzo speciale.
«Madame?» Ho permesso a un cameriere di aiutarmi con la giacca, e mi sono seduta di fronte a Prof, al tavolo che aveva prenotato, vicino alla finestra, mentre cercavo di ignorare un’altra piccola delusione dovuta al fatto che non si fosse preoccupato di scostare la sedia per farmi accomodare. Sembrava distratto, e ha ordinato una bottiglia di vino rosso della casa senza chiedermi nulla. Si è preso parecchio tempo per studiare il menu, o almeno così mi è parso, e ha sfogliato le pagine una o due volte per essere sicuro che non gli fosse sfuggito nulla, poi lo ha posato sul tavolo, in mezzo a noi, e ha cominciato a giocherellare con le posate, che continuava a spostare e a risistemare attorno al sottopiatto di vimini. Io avevo già guardato la lista dei piatti e individuato quello meno calorico (il cibo era la parte che meno mi interessava, della pausa pranzo al ristorante). Abbiamo ordinato quando è arrivato il vino, e Prof se ne è versato un generoso bicchiere; solo dopo, apparentemente, gli è venuto in mente di riempire anche il mio calice. Ha bevuto un bel sorso, ha posato il bicchiere e ha fissato intensamente l’affresco.
«È finita, Sylvia» ha detto alla fine, e i suoi occhi si sono spostati rapidamente a cercare i miei.
Mi ha preso il panico, perché per un attimo ho pensato che mi stesse dicendo che la facoltà avrebbe chiuso, e che la mia posizione non sarebbe più stata necessaria. «Che cosa vuoi dire?» mormorai, le dita che stringevano il bordo del tavolo.
«Il mio matrimonio. Martha vuole il divorzio.»
Quelle parole sono rimaste sospese tra noi, mentre mi sforzavo di assimilare cosa mi stava dicendo. La mia primissima reazione sarebbe stata quella di mettermi a ridere per la contentezza, e per il sollievo, ma la sua espressione da cane bastonato mi ha fatto capire che per lui non era una bella notizia. Ho alterato l’intonazione della mia voce, che da stupita e gioiosa si è fatta compassionevole, sperando di azzeccare la tonalità.
«Va a letto con Julian» ha aggiunto, prima di prendere un altro generoso sorso di vino. L’ho guardato, senza capire.
«Quel tizio che sta progettando l’ampliamento della nostra casa. L’architetto. Julian Delaroche.» Ha pronunciato il suo nome come se avessi dovuto conoscerlo. «Quello con la Jaguar e la barba che va tanto di moda adesso» ha precisato, con un verso di disapprovazione, scuotendo la testa. «Questa volta è innamorata, pare. Mi vuole fuori di casa.»
Una combinazione frenetica di emozioni e pensieri ha preso a turbinare nella mia testa, mentre bevevo un sorso, e prendevo tempo per trovare una risposta sensata. Dovevo dire la cosa giusta. Voleva un consiglio da un’amica, un nuovo amore... o soltanto una spalla su cui piangere?
«Sai che per te ci sono sempre, Carl» gli ho detto, attenta a mantenere il nostro rapporto su un piano strettamente professionale, mentre speravo che lui desse un altro significato alla mia offerta.
«Lo so, Sylvia.» Mi ha accarezzato il braccio, la parte interna. «Non so che cosa farei, senza di te. Sei la mia roccia.» Mi ha guardato negli occhi un secondo, e per l’orgoglio ho sentito che le guance mi si arrossavano lievemente.
«Che cosa succederà?» Ho evitato di rivolgergli domande dirette, chiedendogli quello che realmente volevo sapere.
«Mi trasferisco nella casa di Dulwich.» Mentre lo diceva, mi è venuto in mente che avevano acquistato un immobile qualche anno prima, allo scopo di affittarlo. «Ho dato un mese di preavviso agli attuali inquilini. Che altro posso fare? I ragazzi staranno da me a weekend alterni.»
«E Julian?»
«Julian si trasferirà da lei.» Ha alzato le spalle e ha aperto i palmi delle mani, con un gesto indifeso che mi ha fatto venire voglia di saltargli in grembo, ma mi sono accontentata di chinare la testa da un lato e di allungare la mano ad afferrare la sua, quando sono arrivate le nostre ordinazioni.
C’è stato un turbinio di piatti, Parmigiano e macinapepe, e poi è tornata la quiete quando ci siamo fermati a contemplare le pietanze che avevamo davanti. Mi sono domandata se lui sarebbe riuscito a mangiare qualcosa, sconvolto com’era, e in alternativa ho pensato di proporgli di fare una passeggiata sul lungofiume, ma apparentemente le lasagne lo hanno messo di buonumore, e difatti ha cominciato a mangiarle di gusto. Io intanto spingevo le mie penne in giro per il piatto, facendo finta di mangiare quando non era così, ma in tutta onestà non sarei riuscita comunque a mandare giù niente. Lui e Martha si sono lasciati così tante volte... ma poi sono sempre tornati insieme. Soprattutto, volevo osare sperare che questa volta sarebbe stato diverso: dopotutto aveva pronunciato quella parola che comincia per «d» che in passato non aveva mai usato. Senz’altro questo significava che finalmente noi due avremmo avuto una possibilità, no? Avremmo dovuto aspettare un po’ di tempo, naturalmente, comportandoci con discrezione per evitare scandali o pettegolezzi maliziosi. Comprendo bene l’importanza di badare alla propria reputazione, per un uomo nella sua posizione.
Ho aspettato che aggiungesse dell’altro, ma apparentemente l’argomento era chiuso, e ho avuto un tuffo al cuore quando ha iniziato a parlarmi del nuovo ed eccitante progetto di ricerca che sta pianificando con il dottor Bastow. Ho ascoltato, annuendo, e rivolgendogli qualche domanda pertinente, ma mi sarei messa a urlare. Ero disperata, morivo dalla voglia di conoscere tutti i dettagli del litigio con Martha, ma sapevo che non era il caso di riportare la conversazione sulla questione che mi interessava, quando lui era già passato oltre.
Mi è venuto in mente, mentre bevevamo il caffè, che per tutto il pranzo non mi aveva chiesto nulla, e non mi aveva nemmeno fatto gli auguri, e ho provato un moto di irritazione che ho soffocato immediatamente, rammentandomi che stava attraversando un momento molto difficile. Ho tenuto a bada le emozioni, dicendomi che dovevo pensare al suo benessere, e non al mio, e sono riuscita a guardarlo con rinnovato affetto, mentre beveva il suo caffè.
«Perché hai scelto questo posto?» gli ho chiesto con un sorriso.
Si è guardato intorno, quasi avesse notato il locale soltanto adesso. «Non ti piace?» Una domanda, finalmente.
«Al contrario, è carino. Grazie.»
«Non so. C’è in programma una conferenza a Roma, avevo in testa quella, e il cibo italiano piace a tutti. Immagina di essere a Roma, adesso. Non sarebbe meraviglioso?» Ha posato il bicchiere e ha sollevato un sopracciglio. «Ti piace la cucina italiana, vero?» Un’altra domanda, e l’accenno eccitante alla possibilità che lo accompagni a una conferenza all’estero, finalmente.
«Sì, certo. La adoro.» Ho sorriso ancora, e con discrezione ho preso il tovagliolo che mi ero messa in grembo e l’ho appoggiato accanto al piatto di pasta, intatto.
«Bene, bene» ha fatto lui distrattamente, mentre con un cenno chiedeva il conto al cameriere.
Poi: «Sylvia, devo incontrare una studentessa potenzialmente interessata al dottorato di ricerca, dall’altra parte della città. Lola... non ricordo il cognome. Pare sia una mente brillante, e il preside di facoltà la vuole nel dipartimento. Rientrerò in ufficio nel pomeriggio». Ho intuito che era tornato in modalità lavorativa, quando l’ho visto estrarre la carta di credito dell’università. «Per te va bene tornare al campus in taxi?»
 
[da Silvia Penton esce dal letargo di Jane O’Connor, trad. Chiara Brovelli, Corbaccio, 2020]
 
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Luigi Oliveto

Luigi Oliveto

Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...

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