03/03/2022
Diceva Virginia Woolf che nulla è realmente accaduto finché non viene scritto in un diario. Pensiamo, allora, quanti accadimenti, quanti casi della vita possano rivelarsi in novemila diari. Che tanti sono quelli raccolti nell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano. Un toccante deposito di memorie vergate su carte ormai ingiallite, racchiuse per anni in chissà quali interstizi di quotidianità. Basta scorrerle, e chi non sapevamo nemmeno esistito ce lo troviamo dinanzi, ne sentiamo la voce, ne incrociamo i sentimenti, lo vediamo nel suo tempo. Questo ha sperimentato Filippo Maria Battaglia estraendo da quell’archivio di vite anonime centodiciannove scritti di donne “che hanno attraversato il Novecento con rabbia e ostinazione, a volte con disincanto e rassegnazione”. Schegge di storie, ricomposte a formare un’unica storia che ora si legge, come un romanzo per frammenti, nel libro “Nonostante tutte” (Einaudi). La voce narrante è una immaginaria Nina. Il suo – avverte l’autore – “è un autoritratto collettivo fatto di istantanee in cui l’aderenza alla realtà non coincide con il realismo ma con il suono che la voce fa sulla pagina scritta”. Dalle diverse geografie, dal tempo in cui ha vissuto, la voce di Nina si leva a dire cosa sia stata la sua (la loro) vita. In quale modo lei – e il piccolo mondo attorno a lei – abbia gioito, patito, atteso, sognato. Del resto, se tutto ciò ha lasciato scritto, voleva che di sé restasse una qualche traccia. Fosse anche un’orma lieve; che tale si annuncia fin dal folgorante incipit: “Nacqui leggerissima…”. Nina usa poche parole, talvolta una grammatica incerta, ma la vita reale, per raccontarsi, non bada alla forma, tant’è che si chiama ‘esistenza’. È così che questo racconto di vite minime messo insieme da Filippo Maria Battaglia, risulta essere un grande libro. Le parole che vi risuonano evocano circostanze, cose, paesaggi, spaccati d’epoca. Costituiscono un supplemento di vita per chi quelle parole scrisse in un tenero desiderio di condivisione del proprio esistere. Perciò suscitano commozione, il senso di umana fraternità che in noi si accende ogni qualvolta ci facciamo consapevoli di quante piccole memorie contenga l’incommensurabile memoria della vita.
***
Capitolo primo
1.
Nacqui leggerissima.
Ho giocato molto da sola, con bastoncini e rametti, o fingendo di covare le uova nella cesta dell’unica gallina che avevamo nel pollaio.
Coniglietti e carote, noci e scoiattoli, arcobaleni e farfalle furono i miei primi ninnoli.
La mattina mi svegliava un asino che con il suo padrone Durantino si avviava verso la campagna, e chissà perché ogni giorno, quando si trovava a passare sotto la nostra finestra, faceva una ragliata poderosa. Così sapevo che era l’ora di alzarmi.
C’erano tanti alberi da frutta, mandorli, ciliegi e soprattutto due albicocchi, che facevano le albicocche più buone che abbia mai mangiato in vita mia.
2.
Era bello qua al mattino presto presto. Tutto così pulito di rugiada – quel buio sommesso delle camere che aspettavano di essere illuminate e quegli strani piccoli rumori che venivano da chissà dove.
Non avevo il coraggio di dire ai miei che li amavo, nessuno parlava mai di affetto o amore, me ne sarei vergognata.
Le amiche sono arrivate dopo, negli anni delle scuole elementari, mi hanno finalmente fatto uscire da quella sorta di autismo in cui ero prigioniera.
3.
C’era una specie di economia interna, retaggio dei tempi della guerra, legata all’orto e ad un pollaio in fondo all’orto.
La merce si vendeva sfusa e veniva arrotolata in fogli di carta.
Ricordo quando andavamo a comperare 10 o 20 lire di conserva, di marmellata o di cioccolato in crema. Stavano in grandi barattoli di latta e con un cucchiaio di legno venivano messi nella carta oleata e pesati. Sempre chiedevamo di pulire il cucchiaio sulla carta per averne un po’ di più.
Non che in casa si navigasse nell’oro ma per i tempi ci si contentava.
4.
La prima colazione in genere erano i «pestariei», una polentina semiliquida di farina di granturco che, versata sui piatti, veniva consumata a cucchiaiate alterne con latte.
Quando mia madre preparava le lumache, la stavo a guardare incantata. Era un processo lunghissimo che incominciava il giorno precedente con le bolliture plurime ed accurate dei lumaci di cui si conservava il succo verdastro dell’ultima. Ogni mollusco veniva passato fra le dita così da mondarlo di ogni filamento gelatinoso e le chiocciole fregate con il bruschino, risciacquate per bene e messe ad asciugare, rovesciate, su un canovaccio di cucina, in file da dieci, perfette. Poi mia madre preparava un pesto di aglio, sale, prezzemolo e farina bianca e ne faceva una montagnola nella quale intingeva el lumac prima di infilarlo nuovamente nella chiocciola.
Mi ricordo la cena: le rane cotte in umido con la polenta. Era un piatto molto gradito da tutti. […] Erano chiamate il piatto dei poveri e i signorotti di città chiamavano noi dei paesi mangia rani da pais.
[da Nonostante tutte di Filippo Maria Battaglia, Einaudi, 2022]
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Giornalista, scrittore, saggista. Inizia giovanissimo l’attività pubblicistica su giornali e riviste scrivendo di letteratura, musica, tradizioni popolari. Filoni di interesse su cui, nel corso degli anni, pubblica numerosi libri tra cui: La grazia del dubbio (1990), La festa difficile (2001), Siena d’autore. Guida letteraria della città e delle sue terre (2004), Giosuè Carducci. Una vita da poeta (2011), Giovanni Pascoli. Il poeta delle cose (2012), Il giornale della domenica. Scritti brevi su libri, vita, passioni e altre inezie (2013), Il racconto del vivere. Luoghi, cose e persone nella Toscana di Carlo Cassola (2017). Cura la ristampa del libro di Luigi Sbaragli Claudio Tolomei. Umanista senese del Cinquecento (2016) ed è co-curatore dei volumi dedicati a Mario Luzi: Mi guarda Siena (2002) Toscana Mater (2004),...
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