“Tutta intera”
. È un titolo interlocutorio quello che
Esperance Hakuzwimana ha dato al suo recente romanzo pubblicato con Einaudi. L’interezza in questione è quella che ci fa sentire persone compiute nelle idee, negli affetti, nella definizione del mondo preso a riferimento e che ci ha costruito come persone. Ma può accadere che negli interstizi di questa illusoria solidità si insinuino dubbi, realtà inimmaginate, rivelazioni di differenze, fino a farci consapevoli di quante cose manchino ancora alla nostra interezza (sempre che esista un momento in cui si possa dire d’essere completi). È quanto accade a Sara, la protagonista della storia, giovane donna di colore, insegnante di potenziamento in una scuola di periferia frequentata da ragazzi anch’essi prevalentemente di colore, ma che si rivelano diversi da lei. Perché lei è cresciuta in Città, mentre loro vivono al di là del fiume: un discrimine non solo geografico. Sara è stata adottata da genitori italiani, la mamma cuoca all’asilo, il padre insegnante di liceo. “Saranostra” è stata cresciuta con grande amore. Un affetto intenso, ma intelligente, equilibrato, efficacemente descritto nel primo capitolo laddove è rappresentata la vita dei giorni comuni, delle ferie al mare, di pa’ che “chiede sempre le cose importanti, non si arrabbia se non mi ricordo le tabelline, mi fa rispondere al telefono e dire Pronto, casa Righetti; di mamma che coltiva le rose, scrive gli orari di scuola sul frigo, ricorda di dire scusa se abbiamo sbagliato e “a letto, la sera, mi legge una pagina del libro che amo ed è dolce come sempre. Mi tiene la mano, mi chiede se mi sono lavata i denti e dopo il bacio sulla fronte mi guarda e legge negli occhi come sto.” Due genitori amorevoli e misurati, persino quando Saranostra, a sette anni, progetta di sbiancarsi con la candeggina perché in televisione ha visto la pubblicità di un detersivo che toglie via anche le macchie più difficili. Ora la Sara adulta è alle prese con ragazzi che hanno la pelle del suo stesso colore, ma che, vivendo al di là del fiume (nella periferia sinonimo di emarginazione, spaesamento, violenze, razzismi) la obbligano a un guado di pensieri e sentimenti che più non la fanno sentire ‘tutta intera’. In quella classe di ragazzi confusionari, sospettosi, arroganti e impauriti nel tentativo di definire sé stessi in una qualche identità, lei è la diversa. La vicepreside l’aveva avvertita subito il primo giorno: “Non farti fregare. So che don Paolo ti ha convinto del contrario, però anche se sei come loro, loro non sono come te.” E’ vero. Il proprio mondo di sicurezze si fa insicuro ogni volta che si ritrova a dover sconfinare nelle storie di Taja che vive con gli zii e ha i genitori lontani, di Charlie Di che da un giorno all’altro scompare nel nulla, di Giulio Abour che traduce a sua madre poesie e bollette delle utenze domestiche. Volti e storie rispetto alle quali avverte, allo stesso tempo, comunanza (là c’è la sua storia remota, le sue radici) e diversità (non vi è ciò che ha formato la sua persona). Così Sara conosce il tormento di una crisi d’identità, la con/fusione di mondi diversi, la fatica di ridefinire il proprio ‘chi sono’. Non è superfluo ricordare che l’autrice di questa storia, Espérance Hakuzwimana Ripanti, è nata in Ruanda nel 1991, durante gli anni del
genocidio. Ha vissuto in un orfanotrofio fino a tre anni, quando è stata adottata da una coppia di italiani. Firma questo romanzo con il proprio nome originario, perché – come ha ricordato citando in esergo un verso di Cristina Campo – il libro parla di “due mondi – e io vengo dall’altro”.
***
I vestiti che indossano, tutti schierati davanti a me, le montature degli occhiali, gli astucci sul banco, i capelli e le extension colorate, i diari aperti, le matite, il trucco sugli occhi abbassati, i pennarelli senza tappo, i braccialetti fluorescenti. Uno di loro, in fondo alla classe, ha una tuta ocra e i capelli rasati. Una ragazzina con la frangia tinta di verde poggia i piedi su uno skate mezzo nero mezzo rosso.
C’è troppo colore.
Mi correggo subito perché le parole hanno un peso e io voglio iniziare questa cosa con leggerezza.
C’è tanto colore in questa aula seminterrata di mercoledì pomeriggio. Siamo un metro sottoterra, ma più li guardo meno mi sento all’altezza.
La vicepreside Mauri parla, ha voluto accompagnarmi fino all’aula. Tengono gli occhi altrove ma so per certo che mi osservano: chissà che pensano. Mi vedono? E se lo fanno, sono curiosi o spaventati?
Ho gli orecchini di perle, il sorriso stretto e le mani giunte come in chiesa la domenica alle dieci con l’incenso nel naso.
Possono farmi paura dei ragazzini? Posso fargliene io?
Prima di uscire la vicepreside mi presenta: scandisce bene il mio cognome e solo a sentirlo mi tranquillizzo. Ha detto che starò con loro fino a fine anno per il corso di potenziamento al pomeriggio.
La cattedra è un tavolo di legno scuro e le finestre danno su un panorama a metà: un pezzo di cielo sospeso, una vista spezzata.
In prima fila un ragazzino ha la testa appoggiata al braccio sul banco, il suo sonno mi coglie alla sprovvista e non so che fare. È una mancanza di rispetto a cui non sono pronta.
Shakoor si riposa, mi dice una ragazzina con un taglio degli occhi che mi fa pensare alle foglie. Non lo dice a me, è una notizia che passa ai compagni, ai muri.
Al mio silenzio ripetono la frase canzonandomi. Non reagisco.
Ma lo capisce l’italiano? si chiedono complici, come se non fossi lì.
Guarda che questa mica è italiana! e si scambiano pacche sulle spalle, ridono, battono le mani entusiasti.
Mi sento accerchiata. Prima, due piani di scale più su, la vicepreside mi ha pregato di fare attenzione con un tono di confidenza inatteso: Non farti fregare. So che don Paolo ti ha convinto del contrario, però anche se sei come loro, loro non sono come te.
Quest’aula non mi dice niente. I cartelloni alle pareti, il rivestimento di mattonelle, la lavagna con gli scarabocchi di lezioni precedenti. Sul tavolo che fa da cattedra qualche foglio. Per raggiungerlo do le spalle ai pochi alunni seduti, un brivido mi attraversa la schiena nel punto centrale, quello che da sola non tocco mai.
Lei viene dalla Città?
Io sono di Bellafonte, lo dico subito, con foga, come fosse una gara.
Mi fa sorridere che le vie in cui sono cresciuta loro le immaginino come strade piene di grattacieli e chissà cos’altro. Appena torno a casa devo raccontarlo a Marta che riderà di gusto, o forse lei lo sapeva già e non mi ha avvertito.
Anche la sua famiglia è di Bellafonte?
Tutta quanta.
Pure la sua mamma?
Sì, la mia mamma Giuliana e il mio papà Giacinto.
E la mamma di prima?
Che cos’è «la mamma di prima»? chiedo perché non li capisco.
È un gioco stupido di quelli del Dragone, risponde la ragazzina in seconda fila con le treccine sciolte sulle spalle.
La
ommi, aggiunge una voce che non riesco a raggiungere con gli occhi.
Guarda che se usi l’arabo non capisce, dichiara un ragazzo con i capelli scuri, la giacca ancora addosso e le labbra tese, serrate.
Magari non ce l’ha, sussurra una ragazzina con un velo di ombretto chiaro sugli occhi e lo zaino sulla sedia vuota accanto. È un commento a cui non so aggiungere niente e neanche loro.
Parlano come se non ci fossi; mi guardano poi riprendono a consultarsi ancora.
Il ragazzino che ha parlato in arabo si chiama Zakaria Laroui, ma non ho capito bene come si pronuncia. Lo ricordo solo per l’occhio pigro sotto il sopracciglio folto e perché è il primo che ha parlato e l’ha fatto senza alzare la mano. Quando la vicepreside Mauri gliel’ha sottolineato con distacco lui l’ha ignorata come si fa con i moscerini.
Qualche banco più in là una ragazzina con dei codini ricci fittissimi disegna sul diario, non alza lo sguardo. All’ultima fila tre maschi, due seduti così vicini che i gomiti si sfiorano. Li penso amici o fratelli per la posa che tengono sulla sedia. Là nel fondo mi sembrano lontanissimi, inavvicinabili.
Mi sistemo la camicia sotto la giacca che ho indossato per l’occasione, una protezione di stoffa.
Io sono una e loro sono in quattordici. Dovrebbero essere di più ma mi hanno detto che da queste parti gli elenchi non corrispondono alla realtà. Allora mi adeguo, non esco dal tracciato, come ho imparato a fare per sentirmi dire Brava, Bene così, Sei proprio la nostra soddisfazione.
Voglio il riconoscimento di questi ragazzini sbilenchi, di queste pelli chiare e scure.
Chiedo di spiegarmi ancora della «mamma di prima». Ma sbaglio, dico «omma» e loro ridono. Le gengive scure, i capelli mossi che si muovono, le mani che sbattono.
Si dice
ommi, mi corregge Laroui. Ha schiuso le labbra, ha aperto uno spiraglio. I denti grossi e i riccioli che gli cadono sulla faccia lo rendono buffo.
Ma no! dice un altro ancora, Qui diciamo pure
mama o
yamma.
Anche mamma diciamo, anche mamma! e sento aria di rimprovero.
Ah, allora è come da noi! esclamo per stemperare il clima e provando sollievo. Il primo punto in comune con loro in tutti questi minuti alieni.
Però
lwalida è il più bello perché vuol dire che la mamma può tutto, contiene tutto.
È il ragazzo accanto a Zakaria Laroui che parla, mi spiega cose che non chiedo. Qualcuno lo richiama, dice Giuliooo, prendendolo in giro per questa piccola lezione che nessuno vuole.
La ragazzina col diario pieno di disegni mostra il volto per un attimo. Alla sua sinistra altre due compagne: quella con le treccine sciolte sulle spalle e una appoggiata al muro, che sembra più grande degli altri, e mi fissa come se mi stesse soppesando.
Tu non sei della Città, sentenzia senza smettere di fissarmi.
Ah, no? Perché dici così? chiedo dandole anche io del tu, dimenticando le regole che mi sono data.
Perché hai saltato il Sele, risponde, Chi salta il fiume poi mica torna, dice, Non torna mai.
[da
Tutta intera di
Esperance Hakuzwimana, Einaudi, 2022]