Il Civcolo di Società degli Ambìti si chiama così pevché chi lo fondò a metà del 1600 pensava di esseve molto ambìto dalle fanciulle dell’epoca (cevtamente più pev il patvimonio che pev l’aspetto). Il palazzo cinquecentesco in cui ha sede ha le finestve sul Covso della città, cosicché i soci affacciandosi possono contvollave lo stvuscio quotidiano di bovghesi e plebei senza pevò dovevcisi mischiave. L’ingvesso pvincipale, tuttavia, non è sul Covso, bensì nel vicolo posteviove e pevtanto i soci non hanno l’obbligo di tvansitave da quella stvada così affollata e piena di odovi e di gentuccia e stvacolma di attività commevciali e vetvine. Tanto lovo non compvano mai niente (un po’ pev taccagnevia congenita, un po’ - e più spesso - pev mancanza di liquidità).
Anche quel giorno, come tutti i santissimi giorni da oltre vent’anni, il marchese Iacopo Fulcèri d’Orta alle undici in punto varcò il portone d’ingresso in cupo legno di rovere, consegnò il loden verde Tirol (era il quarto della serie in trent’anni e quindi prossimo al pensionamento e relativa sostituzione con un quinto in tutto e per tutto identico ai predecessori) al vecchio Ruggero, maggiordomo sordomuto da troppi anni in servizio al circolo, si soffermò al banco dove giacevano i quotidiani del giorno sorretti da doppia stecca di frassino (perché, non si sa mai, qualche socio avrebbe potuto portarseli a casa), scelse (come sempre) Il Corriere ed il Gazzettino locale, andò alla sua poltrona preferita nell’angolo vicino al grande camino, sfilò dal taschino il suo mezzo toscano, accavallò le gambe (calzini lunghi rigorosamente blu), ordinò un cappuccino con tanta schiuma e si accinse alla lettura.
Il nuovo cameriere di sala non era poi così male, forse un po’ troppo riguardoso e lecchino, talvolta eccessivamente confidenziale, ma tuttosommato accettabile non fosse stato per il disgustoso luccichìo di forfora sugli spalluccini blu notte della logora livrea di servizio. Si chiamava Vasco ed aveva prestato opera per svariati anni su navi da crociera (almeno così si diceva). Il marchese Iacopo Fulceri d’Orta sarebbe stato tentato di indagare di più sul passato (e presente) del nuovo cameriere, curioso com’era si sarebbe dilettato a sapere vita, morte e miracoli di ognuna delle persone (non molte) che incrociavano la sua vita non troppo movimentata, ma si tratteneva dal farlo per evitare che troppa confidenzialità generasse, poi, mancanza di rispetto, logica conseguenza dell’incapacità tipicamente plebea di saper rimanere al proprio posto.
- Buona lettura signor marchese, il pranzo verrà servito al suo tavolo al tocco in punto come tutti i giorni - disse Vasco con tono affettato, mentre depositava il cappuccino fumante sul tavolinetto da fumo.
Il marchese Iacopo Fulceri d’Orta si immerse nella sua lettura con gli occhi, mentre la mente vagava nei pensieri assillanti che lo tormentavano da sempre…
- Ma è mai possibile che Corradino Chigi Casalotti, vecchio e rincartapecorito com’è, continui a toccare il sedere alla dama di compagnia di sua moglie Sveva che da anni vegeta sulla sedia a rotelle?
- Ieri sera la Wanda Micheletti ci ha servito un cognac talmente invecchiato da aver perso ogni traccia di gusto, sicuramente la taccagna lo ha tenuto in dispensa talmente a lungo per il terrore di doversene privare.
- Povero Luigi, se non si decide a licenziare quel farabutto di filippino che gli ruba ogni giorno sui conti della spesa, finirà proprio con una mano davanti ed una di dietro.
Questi ed altri pensieri altrettanto profondi turbavano anche quella mattina la mente del nostro marchese.
Girellò per le sale completamente vuote fino ad arrivare allo Studio; era questa la stanza più riservata ed intima dell’intero circolo, il vero Sancta Sanctorum dei Soci ereditari, quelli cioè che sono Ambìti per diritto familiare acquisito, gli altri, i parvenues, non possono essere più di trenta e vengono accolti su votazione segreta da parte degli ereditari, quando si rende vacante un posto per decesso o allontanamento di un altro socio, ma mai e poi mai potrebbero accedere alla casta privilegiata degli ereditari e conseguentemente allo Studio.
Lo Studio è una grande stanza quadrata e pressoché buia, una sola finestra con balcone si affaccia sul Corso cittadino, ma viene aperta rarissimamente e non può illuminare l’ambiente con luce naturale in quanto è perennemente tappata da grandi e lugubri tende di velluto bordeaux. Su tutti e quattro i lati vi sono enormi librerie di noce scuro cariche di libri e libroni che nessuno ha più aperto da anni, al centro troneggia un lungo tavolo fratino con d’intorno nove seggioloni ingombranti, uno per ogni Socio del Consiglio direttivo, di fronte ad ogni seggiolone, sul tavolo, vi sono due vaschette, una contenente fagioli neri e l’altra fagioli bianchi, perché con essi i consiglieri esprimono il proprio consenso o dissenso dalle decisioni e proposte durante le insopportabili riunioni consiliari, al centro del tavolo l’urna delle votazioni.
Nella parete dirimpetto a quella con finestra, la libreria è interrotta dalla presenza di un grande camino in pietra serena con due grandi alari di ferro battuto con il piede a zampa di leone ed il pomello a testa di drago. Al centro della cappa un pannello in legno di mogano contiene le targhette scritte a mano con calligrafia arcaica con i nomi di tutti i soci ereditari (contraddistinti da piccola corona) e non, sulla destra i vivi, sulla sinistra i defunti. Tra i defunti alcuni privilegiati hanno la dignità di essere rappresentati con una foto ovale imbrunita, e tra questi Carlo Maria Fulceri d’Orta, padre del nostro Iacopo.
Nella foto Carlo Maria ha un’espressione beffarda e sarcastica che perfettamente riassume quello che fu il suo modo di essere e di vivere.
Iacopo guardò con rispetto ed ammirazione la foto di suo padre che era stato tutto quello che lui non era mai riuscito ad essere, quindi gironzolò annoiato per lo studio e guardò per un buon quarto d’ora fuori dal finestrone il brulichìo di gente che transitava indaffarata o bighellona sul Corso della città.
Al tocco in punto Iacopo andò a sedersi al consueto tavolo nella saletta degli arazzi, solo una coppia rincartapecorita di anziani soci approfittava quel giorno del servizio ristorante e Iacopo fece il supremo sforzo di salutarli con un impercettibile segno del capo.
- Tagliolini all’aroma di ginepro, petto di tacchino farcito, funghi trifolati e purea - sentenziò Vasco compunto - altrimenti insalata e bocconcini di mozzarella - soggiunse.
- Certo il tacchino - ordinò svelto il Marchese.
- Suo padre conosceva assai bene il mio, ed anche mia madre… Da piccolo sono stato sulle sue ginocchia - disse Vasco con noncuranza mentre versava ancora del vino (Nobile di Montepulciano) nel calice del Marchese - ancora funghi?
- Sì, grazie Vasco, sono assai saporiti con un nonsoché di particolare, un retrogusto un po’ amarognolo…ma parlami di tuo padre, se così mi dici, anche io dovrei ricordarlo…
- Il sapore particolare è dato dai Finferli e dalle Trombette di morto, tutti funghetti vernini che io stesso ho raccolto ieri nella lecceta che è dietro la mia casa, il cuoco è rimasto entusiasta quando glieli ho consegnati… il vino Nobile, poi, esalta i sapori tendenti all’amaro… mio padre era Quintilio del Pacciani, mezzadro a San Romolo… mia madre Ornella del Poggio a Noceto.
- Ma certo e tu sei Vasco, il piccolo Vasco, quello che con la fionda prendeva un fringuello sul ramo a distanza di venti metri…
- Vasco il Bastardo mi chiamavano quelli del paese…
- Bastardo per il tuo caratterino da piccola canaglia…
- Non credo… Bastardo per le mie presunte origini… qualcuno mi chiamava anche il Marchesino.
Iacopo non capì, o, forse, non volle capire o, almeno, non ebbe orecchi per intendere.
- Deliziosi quei funghi, comunque, no, non voglio dessert ma solamente il mio decaffeinato, grazie - si immerse quindi nella lettura del giornale ed accese il suo mezzo toscano.
Vasco il bastardo, sparì in cucina e per quel giorno il confronto finì lì. Per due giorni (cosa strana) Iacopo Fulceri d’Orta non si fece vivo al circolo.
Sentiva addosso un certo malessere, certamente dovuto allo strano colloquio avuto con quell’impertinente del nuovo cameriere. La sua gastrite cronica, tendente all’ulcera, non ne aveva certo goduto. Era percorso da brividi di freddo… o, forse, di rabbia. Sentiva forti bruciori al basso ventre ed un incontenibile stimolo ad urinare. Stette chiuso in casa e rimuginò. Poi, il terzo giorno decise di uscire.
L’aria era fresca e pungente in cima al colle di San Romolo; il vecchio podere, abbandonato da anni, era ridotto in malora; erbacce e rovi crescevano un po’ ovunque e finivano di dissestare i muri in mattoni già abbastanza malridotti, gli infissi (dove ancora c’erano) cadevano a pezzi e la grande scritta “Tenuta Marchesi Fulceri Podere San Romolo” era ormai quasi illeggibile. Iacopo si aggirò pensieroso nelle vecchie stalle e poi su nelle stanze; pensò che era un vero peccato lasciar andare così tutto in rovina, ma soldi per risanare non ne aveva, di vendere neanche ci pensava ed altre soluzioni non gli venivano in mente. Eppure, vivo suo padre, il grande Carlo Maria, quei poderi, l’intera tenuta, erano stati un giardino e Ornella, da brava massaia, curava con amore anche le cose più insignificanti e faceva crescere splendide rose dallo sterco delle vacche.
Gran bella donna Ornella con quelle tette gigantesche ed invitanti e le cosce candide e pienotte che uscivano dalle grossolane calze di pesante cotone nero quando si chinava per cogliere l’insalata nell’orto o quando si rimboccava la gonna per salire sulla vecchia biciclettona con i freni a bacchetta, con i lunghissimi capelli corvini raccolti a crocchia sulla nuca e per lo più racchiusi da un fazzolettone sul rosso. Iacopo sentì un forte dolore alla bocca dello stomaco, una fitta improvvisa e lancinante, forse i ricordi, i pensieri, la nostalgia avevano risvegliato quella sua gastrite cronica coltivata a forza di whiskini e nicotina. Arrivò al circolo al tòcco in punto, lungo tutta la strada il dolore aveva continuato a crescere e farsi completamente insopportabile.
Gli sembrò quasi che la mente gli si annebbiasse ed i pensieri si rincorrevano rapidi trasformandosi in incubi. Figure mostruose e poi immagini più nitide. Il culo peloso di suo padre il Marchese Carlo Maria, che andava su e giù a stantuffo tra le grandi candide cosce divaricate di Ornella stesa sul tavolone della grande cucina disadorna… Sudava. Tremava. Lui, piccolo e sudaticcio, guardava da dietro la porta socchiusa, sentiva i gemiti della donna ed i muggiti grotteschi di suo padre. Suo padre gli aveva detto di rimanere a giocare intorno alla vettura, mentre lui avrebbe sbrigato due conti a casa del mezzadro Pacciani, ma lui si era fatto male ad un dito ed era andato a cercare soccorso. Nella stanza in penombra entrò un uomo, grosso, burbero, con le mani grandi come pale da forno, guardò un attimo la scena, poi realizzò. Trasse dalla cintura un trincetto da calzolaio e si avventò sull’arrapato marchese.
Carlo Maria, agile, rotolò su un fianco e poi si erse in piedi mostrando impudicamente il suo membro ancora eretto e bagnato, trovò in sé una forza inaudita e preso il povero contadino per i capelli, gli sbatté violentemente il capo contro lo stipite della grande madia. Un fiotto di sangue. Un gemito.
***
Iacopo entrò nella sala da pranzo del Circolo degli Ambìti barcollando, poi si sedette madido e sfinito al suo solito tavolo. L’intero salone girava intorno a lui, sentì la voglia di vomitare.
- Sta poco bene, Marchese? - fece Vasco, premuroso
La sua faccia apparve larga e deformata come riflessa in uno specchio convesso.
Gli occhi di Iacopo erano vitrei ed impersonali.
La sua voce atona riuscì appena a bisbigliare:
- Come ti hanno detto che è morto tuo padre?
- Un banale incidente, scivolato sull’olio di un fiasco che mia madre aveva appena rotto, ha battuto la testa sullo spigolo della madia ed è rimasto stecchito.
Il dolore dallo stomaco scese alla pancia e penetrò nelle viscere, Iacopo pensò che con un dolore così si poteva solamente morire.
- Tuo padre, nostro padre, si prese cura di mettermi in un collegio in città e prese mia madre in casa come serva.
“Ma perché mai ora mi dà del tu questo bifolco?” riuscì a pensare Iacopo”.
- So che il termine serva è fuori uso e pare sconveniente oggi, ma così la definiva la tua adorabile signora mamma - continuò Vasco che aveva ora un tono strafottente e beffardo.
Gli occhi di Iacopo erano ormai vitrei e fissi nel vuoto, mentre le gambe si erano fatte impossibilmente pesanti e la testa era piena di un vuoto assordante e la bocca impastata di saliva acida non riusciva più a profferire parola.
- Ti sono piaciuti i miei funghetti dell’altro giorno? - disse d’improvviso Vasco rimanendo a guardare il padroncino entrare in coma, poi come se nulla fosse chiamò al telefono una ambulanza del 118. Iacopo morì dopo tre giorni di spasmi orrendi e dolori atroci, ma non riuscì più a parlare o a comunicare con l’esterno, mentre la sua mente continuò ad inseguire fantasmi e streghe.
Dall’autopsia risultò che il Marchese era morto per avvelenamento da orellanina, sostanza contenuta nei funghi della specie Cortinarius Orellanus.
- Strano - commentò Vasco, il cameriere del circolo, alla polizia che condusse un indagine pro-forma - non abbiamo mai avuto funghi nel menu di recente ed il cuoco può testimoniare che il povero signor Marchese due giorni prima di entrare in coma aveva mangiato petto di tacchino e purea, poi non ha più consumato pasti al circolo. Nessuno indagò mai più su dove e perché il Marchese avesse ingerito quei maledetti funghi.
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