“Tutto chiuso tranne il cielo”, l’ultimo romanzo di Eleonora C. Caruso, risulta essere un’originale riflessione sugli odierni giovanissimi. La Caruso non si limita ai soliti ohibò denuncianti la totale dipendenza da smartphone dei nostri ragazzi. Cerca di capire (e di spiegarci) che quell’aggeggio sempre tra le mani costituisce per loro la normalità, un qualcosa di completamente ‘acquisito’. Così è anche per il protagonista del romanzo, Julian, un diciannovenne rientrato a Milano dopo un anno di studio in Giappone che, da quando è tornato a casa, non riesce a rapportarsi con la realtà, teme di toccarla, la sente estranea. Abbraccia tutti e poi scappa perché ha paura di restarne prigioniero. Non fugge solo dagli altri, ma anche dal proprio corpo e dalle emozioni – troppo complesse e difficili da gestire – che i corpi veicolano. Tanto comunica in modalità online, quanto taciturno è nei rapporti personali. Nella storia di Julian c’è una ferita originale provocatagli dal fratello maggiore Christian, c’è un segreto con il quale non ha fatto i conti fino in fondo. E’, insomma, un ragazzo ‘ingorgato’, e perciò fugge dal proprio corpo. Come ha avuto modo di dire l’autrice: “La storia di Julian è, forse, la storia della ricerca del corpo. È la storia di un corpo slacciato dalla capacità di sentire, che si svolge altrove. È anche la storia di un corpo che viene raccolto come un oggetto smarrito da altre persone, cioè da altri corpi…”. E questi sono i corpi di An, la sua migliore amica cinese, disposta ad andare oltre l’amicizia; di Leo, cassiere in un supermercato, che dispensa saggezza e cinismo; della famosa youtuber Cloro, forte all’esterno e fragile dentro; infine di Dante, un adulto irriverente e tenero che aiuta Julian a ritrovare sé stesso. Lo aiuta a ritrovare la propria voce per comunicare emozioni e sentimenti non facili a dirsi, soprattutto in un mondo dove tutto si comunica, ma niente si approfondisce.
***
Realizza che poteva non tornare solo nel momento in cui un calore soffocante gli slumaca sulla faccia. Fino a poco fa aveva le ciglia fredde, ultracondizionate da tredici ore di bocchetto rotto in classe economy. Fino a poco fa era da nessuna parte, adesso è qui.
Si accendono i telefoni e lo spazio stretto bippa tutto. Ha camminato così a lungo in quelle scarpe che la suola ha smesso di essere una suola, sente tutto: gli spifferi nei punti in cui la gomma si è scollata dal tessuto, la trama romboide del passaggio di metallo sotto ai piedi. Guarda fuori e il cielo è troppo vasto, la pista d’atterraggio colorata a grigio-bucket-tool di Photoshop.
Dov’è il posto a cui dovrei fare ritorno?
Dov’è la persona che dovrei amare?
Julian ascolta la stessa canzone da un mese, cioè da quando hanno strappato dal suo fianco l’iPod Nano Terza Gen Azzurro appartenuto a suo fratello, un pomeriggio che correnti umane inarrestabili lo trascinavano fuori dal treno alla stazione di Shibuya. L’ha visto sgusciare nello spazio tra i binari e il suolo, designarsi insieme ad altri oggetti all’abbandono. Era rimasto accovacciato per un po’ a fissarlo, mentre sotto un cielo limpido la voce registrata ricordava ai passeggeri i loro ombrelli. Poteva piovere, in una giornata così calda? Sì, dal pomeriggio, senza pause. Gli ombrelli trasparenti riflettevano gli sciami ultravioletti delle luci nella notte di Shinjuku. Mancava un mese al suo rientro e già sentiva che le cose avevano iniziato a trasformarsi nell’Ultima Volta Che, dalla più grande alla più piccola e insignificante, una per una. L’Ultima Volta Che sarebbe andato a rinnovare il suo visto di studio, che avrebbe dato un esame, che avrebbe seguito una lezione, che avrebbe festeggiato un compleanno con i compagni di classe, che sarebbe sopravvissuto ai saldi al LaForet. Presto avrebbe mangiato l’ultimo onigiri del 7Eleven, avrebbe portato giù gli ultimi rifiuti combustibili, avrebbe bevuto in aeroporto l’ultima lattina di caffè. Probabilmente, quella era stata l’ultima volta che era andato al karaoke, e l’aveva sprecata senza cantare la parte di Jonghyun in Juliette. Riparato sotto la tendina di un videonoleggio di film porno aperto ventiquattro/sette, con solo le sigarette zuppe in tasca, Julian ripensava alle parole di Gamble, la canzone che Cloro stava cantando appena prima che lui fuggisse:
Aisubeki hito wa doko ni imashō.
Dov’è la persona che dovrei amare?
Adesso la canzone abita nel cellulare. Se non la sta ascoltando gira con gli auricolari scollegati, e il filo spelacchiato per colpa dell’arrotolamento penzola di lato col suo braccio. Tra la musica e il silenzio cambia poco, a volte niente.
L’italiano lo frastorna. Attraversa il duty free con gli occhi stretti dal rumore, lo zaino che lo tira tutto sulla destra. Negozi di abiti costosi, di profumi più o meno costosi, di dolci costosi, di dolci un po’ meno costosi... il Giappone è identico all’Italia, in questo: tutto cibo. A lui basta l’idea per dargli l’ansia, ma c’è gente – si ricorda – che non prova sentimenti per il cibo, mangia e basta.
Davanti a un bar sente un odore di vaniglia. Si ferma ad annusarlo, senza rendersene conto, gli chiedono se è in fila e si spaventa. Arretrando sbatte contro un tavolino con lo zaino e fa schiantare una tazzina piena di caffè. Sul momento la gente va in trazione, poi capisce, si rilassa e rinfila il pensiero nel mazzo con gli altri: il numero del gate, il bagno più vicino, la carta d’identità nel passaporto, un attentato, la fine della vita, andremo a piedi o ci porterà l’autobus? speriamo a piedi, si fa prima. Julian si allontana dall’odore di vaniglia. Cammina all’indietro per riprendere con il telefono le impronte di caffè lasciate dalle Vans.
Agli arrivi c’è Pietro, suo padre. Non lo vedeva da un anno e si aspettava di doverlo riconoscere da capo, invece è identico: fronte sudata, mansueto, sopraffatto dal tempo senza saperlo, con gli occhiali sottili e la camicia a maniche corte residuo visivo degli anni Settanta. Se restassero fermi così, forse potrebbero tornare ai tempi in cui erano più giovani, e Julian restava un po’ indietro al supermercato per capire se qualcuno, chiunque, se ne sarebbe accorto. L’ha fatto anche a Tokyo, senza volerlo. Certi giorni ha aspettato alla stazione di Shibuya come la statua affollata del cane Hachikō, gli occhi sul telefono anziché sul maxischermo dello Studio Alta, mentre i rami su di lui si caricavano di foglie rosse, gemme verdi, petali rosa. Ma non gli andava più bene chiunque, sapeva chi stava aspettando.
Julian teme all’improvviso che suo padre se ne vada – la gente lo fa –, così supera la striscia che delimita l’Essere a Casa e molla tutto quello che ha con sé per correre a impattare tuffo-a-bomba sul suo petto.
Pietro sta dicendo bentornato, qualcosa sui capelli, su Tokyo, sulla propria puzza. Non puzza. Odora di sudore e sigarette.
Julian si abbandona a peso morto nell’abbraccio, come sempre, e come sempre dura poco. Nel momento in cui respira in un abbraccio sente un palloncino di parole che si gonfia, e più ci rimane più il palloncino si gonfia, gli riempie la gola, gli copre il palato, gli schiaccia la lingua. Per sgonfiarlo senza danni deve uscire, sfilarsi con cautela, un pezzo dopo l’altro. Nelle ore successive a un abbraccio, Julian si tocca i polsi, i capelli, le gambe, la punta del naso – verifica di esserci tutto, di non aver dimenticato niente nell’altro.
Anche adesso batte i piedi tra di loro, cerca nuovamente il peso dello zaino e sfugge dallo sguardo di suo padre, le cui braccia restano sospese nella densità delle domande non espresse, che permangono.
Toccarsi è triste perché le separazioni sono tristi.
Sarebbe meglio non toccarsi affatto.
Il cielo è com’è sempre sopra agli aeroporti, vuoto. Le auto sciamano davanti al terminal e il caldo comprime la vista in settanta millimetri.
«È così da tre giorni» dice. «Non muori, in maniche lunghe?»
Julian infarta a ogni sbam di portiere e fa no con la testa. La schiena ossuta sfrega sul sedile pelucchioso.
Ha in mano il Samsung, che è una saponetta arroventata. Immagina che gli si sciolga tra le mani, che i circuiti emergano puliti dalla schiuma, che i contatti scivolino dalle dita. Bolle di (1) rossi. Pop.
Guard-rail con sfondo niente. Osserva la strada dall’alto, come se non fosse mai sceso dall’aereo. Automobili-ghiaia. Strisce di carta abrasiva. Terreni bruciati dal sole. Suo padre gli chiede di Tokyo, ma lui non ha ancora scompattato il file compresso con le informazioni per rispondere a questa domanda. Bella, dice.
Prende una Chesterfield dal portaoggetti e guarda il suo profilo. Ha ancora tutti i capelli, ma a parte questo è un uomo ordinario. Anche sua madre, nell’aspetto, era ordinaria. E Julian, nonostante la sua testa azzurro pallido copiata dal k-pop, resta ordinario.
È solo Christian, che non è ordinario.
Quando la gente gli chiede da chi suo fratello abbia preso – perché glielo chiede – lui risponde da nessuno, ed è la verità. Ma è vero anche il contrario, cioè che Christian prende da chiunque, la sua bellezza si nutre di tutti.
[da Tutto chiuso tranne il cielo di Eleonora C. Caruso, Mondadori, 2019]
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