Si sarebbe portati a immaginare questa nuova opera di Riccardo Nencini (“Muoio per te”, pp. 312, € 20, Mondadori, Milano) come un sequel di “Solo”, il romanzo biografico dedicato a Giacomo Matteotti (1885-1924) uscito nel 2021. Il cui finale è, all’incirca, l’antefatto di questa narrazione, che inizia il 30 maggio 1924. Invece l’autore cambia passo. Il ritmo del racconto ha la rapidità ellittica di frasi mozze che si sgranano l’una dopo l’altra in una paratassi da diaristici appunti, giorno dopo giorno, dall’11 giugno 1924 al 2 gennaio 1925: «Come sempre - si avverte - è la cronaca a fare la storia».
Rispetto al più disteso respiro del libro di tre anni fa, questo, che sceglie a inizio il giorno dopo l’assassinio di Giacomo, ha un andamento fratturato, una lingua con squarci trash e tinte noir, quasi puntasse a trascrivere l’affannosa confusione di tempi crudi. In Parlamento si sta procedendo alla convalida degli eletti nella recente consultazione, quando ancora non erano conclusi i lavori di verifica da parte della Giunta preposta. Un deputato prende la parola: «Si alza, brandisce la scure. La vita di un uomo, per complicata che sia – afferma Nencini –, consiste in un solo momento, quello in cui sai per sempre chi sei. ‘L’elezione non è valida e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni...». Matteotti contrattacca, reagisce furiosamente, conferma una statura morale e politica di indubbia eccezionalità: era giunto a sollecitare la formazione degli Stati Uniti d’Europa, come evidenzia nella sua approfondita e compiuta monografia Mirko Grasso (“L’oppositore”, pp. 216, € 21, Carocci, Roma).
Matteotti è detto solo perché incarna una visione delle cose e un retroterra culturale non comuni. Ascoltato con ammirazione nel martoriato Polesine, evita ogni demagogia populistica. Più teso a mettere ordine nelle amministrazioni conquistate dai socialisti che a uniformarsi agli entusiasmi per un futuro palingenetico da ortodosso marxista. Riformista, certo, ma con una vasta esperienza internazionale, più attratto da Keynes che dalla foga rivoluzionaria dei Soviet. Quanta parte dell’intellettualità italiana, a partire da Croce e Gentile, sperò che il mussolinismo fosse un incidente e intravide un’impossibile primavera! Siccome Nencini desidera andare, in chiave romanzesca oltre le classiche pagine di Mauro Canali (“Il delitto Matteotti”, 1997) si fa detective.
Esplicito mandante della barbara uccisione, da servile interprete del Duce, fu probabilmente, a suo parere, Giovanni Marinelli, in gioventù socialista rivoluzionario e poi tesoriere di fiducia di Mussolini nella Ceka, la polizia segreta incaricata delle operazioni sporche. Insieme a Albino Volpi e al cinico regista Amerigo Dùmini, che aveva la sfacciataggine di presentarsi sarcastico scherzando con l’accento del cognome: «Piacere, Dumìni, cinque rapine, undici assassini». La data individuata per far fuori l’oppositore per antonomasia fu stabilita perché all’indomani Matteotti non rivelasse tra l’altro la documentazione della grossa tangente della Sinclair Oil Company concordata pure con il fratello Arnaldo del Dux (copyright Sarfatti). Gli intrecci che si ricavano dai carteggi intercorsi tra personalità talvolta lasciate in ombra arricchiscono di inflessioni sentimentali la narrazione, che getta luce sulle donne che condivisero coi protagonisti dolori e coraggio.
La moglie di Matteo, Velia, l’aveva incitato a resistere agli attacchi: «Non ti è più concesso nessuna viltà, dovesse costarti la vita». Ha cupi presentimenti nella snervante attesa che il mistero della scomparsa del marito sia risolto. E lo sarà il 16 agosto, quando il corpo straziato e mutilato del fiero combattente sarà rinvenuto per caso nella carbonaia della Quartarella. «Non so davvero – confida Velia – cosa dirò a Giancarlo che ha sei anni o a Matteo che ne ha tre. Isabella ha appena due anni e non conoscerà mai suo padre. Dovrò affrontare le domande dei bambini, loro non comprenderanno come non ho compreso io quando mio padre ci ha abbandonati. Non sono preparata a sostenere i loro occhi e il bisogno incolmabile che avranno del loro padre». In un messaggio agli italiani Velia invita «alla concordia che affratella e consola, che dà luce al dolore e pace alla nostra patria». Nel coro della tragedia voci femminili come quella di Delia gridano una disperazione non disgiunta da un’acuta consapevolezza politica.
Quanto al trasporto in treno le indicazioni di Velia sono perentorie: «Voglio viaggiare come semplice cittadina italiana, nessuno scompartimento riservato, nessun privilegio, nessuna disposizione per modificare l’orario del treno quale risulta dall’orario di dominio pubblico». Lungo il percorso non desidera nessuna camicia nera a coprire ipocritamente le responsabilità del crimine! E davanti al fascismo che stava diventando regime come contrastarlo? L’aventinismo era per Matteotti una rinuncia a combattere. Antonio Gramsci riconobbe che anche i comunisti furono «travolti dagli avvenimenti»: «un aspetto della dissoluzione generale della società italiana». Ma su “Lo Stato operaio” del 28 agosto 1924 non esitò a qualificare Matteotti «pellegrino del nulla», promotore di agitazioni «senza risultato e via d’uscita».
Scrivendo il 16 aprile 1924 alla moglie Giulia Schucht, che da Mosca seguiva col cuore in gola le vicende italiane, Antonio aprì un filo di incoraggiamento: «perché sono sicuro di rivederti tra breve, di nuovamente tenerti tra le mie braccia, per baciarti gli occhi, per baciare i tuoi polsi, il tuo collo, per baciarti tutta, appassionatamente, come un bambino goloso […]. Tutto si rinnova, perché il nostro amore è una cosa nuova e noi siamo originalissimi volendoci bene così come ce lo vogliamo, anche tormentandoci un po’, qualche volta». Giacomo, nel ruolo di segretario del neonato PSU, il 25 gennaio 1924 risponde a Togliatti che non poteva concordare con il programma delineato dai comunisti perché «antitetico al nostro».
Togliatti l’avrebbe in seguito liquidato come «socialtraditore». Anna Kuliscioff non si rivolse a Filippo Turati il 10 gennaio 1925 con giri di parole. Anche lei parlò chiaro: «L'Aventino poteva durare qualche mese, e si è prolungato fin troppo […]. Il Paese non si muove, le opposizioni sono impotenti per un'azione, parlamentarmente il duello ormai è finito e l'orizzonte si è chiuso più che mai». Un lungo inverno era alle porte. La costruzione del sistema totalitario era stata avviata.
Articolo pubblicato sul Corriere Fiorentino del 15 maggio 2024, ripubblicato per gentile concessione dell’autore
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