Si rimprovera a Giorgio Montefoschi di scrivere sempre il medesimo romanzo, storie di vita borghese dentro una Roma bella e possibile. Ma la peculiarità di Montefoschi è forse proprio quella di osservare sempre dallo stesso punto di vista ciò che solo in apparenza sembra uguale, pur mutando invece al proprio interno; e in quei cambiamenti scrutare il complesso universo dei sentimenti umani. Certo. Pure essi sempre uguali, ma che nella vita delle persone si fanno comunque unici, piegati al legittimo desiderio di felicità, innalzati alla resilienza, strattonati nelle contraddizioni che ciascuno si porta dentro. Come accade in “Dell’anima non mi importa”, l’ultimo romanzo il cui titolo così netto già allude a una conclusione. Protagonisti sono i coniugi Rubbiani, Enrico e Carla, insieme all’amatissima figlia Maddalena. Lui ha vent’anni più di lei. Famiglia benestante, vivono ai Parioli, buone letture, buona musica, vacanze a Sabaudia, un’esistenza di ovattata felicità. L’armonia si infrange allorché per Enrico insorgono problemi di salute. Una crisi cardiaca lo obbliga a ricoverarsi in clinica per qualche giorno e quando torna a casa, quella che fino allora costituiva una rassicurante routine, gli si rivela per un’esistenza monotona, affatto gratificante. Il bisogno di evadere trova la soluzione più ovvia, intraprende una relazione con una collega. E così implode l’appagante normalità della coppia con casa ai Parioli, il giardino, la ben fornita biblioteca, la cerchia degli amici. Anche Carla vuole sperimentare il tradimento. Presa e al contempo intimorita da quel desiderio, sarà lei a dire che, ormai, nulla più le importa dell’anima. Giusto i corpi e la potenza della passione vanno a contraddistinguere il racconto di un’ordinaria crisi di coppia che Montefoschi narra con il suo consueto stile rattenuto, dove il dramma non risuona mai drammatico, le parole sono credibili in forza della loro semplicità, la trama procede per dialoghi, per cerchi concentrici. Quanto non è sulla pagina, chi legge sa bene dove trovarlo: nella propria esistenza.
***
“In chiesa,” come tra sé dice Carla Rubbiani, “temo di aver preso un rametto sbagliato.”
“Perché sbagliato?” domanda Enrico Rubbiani, suo marito, senza smettere di leggere il “Corriere della Sera”.
“Perché dovevo sceglierne uno più piccolo.”
“Potevi cambiarlo.”
“Ero già a piazza Pitagora, non m’andava di tornare fino a San Bellarmino. Vedo se regge, e sennò davanti alla Madonnina lascio quello che c’è.”
Enrico non commenta.
Lei si alza dal divano e lo raggiunge. “Che dici,” rimanendo dietro alla poltroncina di vimini sulla quale, sotto il portico, s’è seduto col giornale e la tazzina del caffè, “montiamo solo il tavolo lungo o aggiungiamo dei tavolini?”
“Ma quanti siamo?” Enrico si cala gli occhiali.
“Dipende da Maddalena: se vuole i suoi amici. L’aiuola in fondo, comunque, va ripulita. Pure vicino ai bambù. È pieno d’erbacce.”
“Hai ragione.”
“Che significa: hai ragione?” Ride, stringendogli le spalle. “Che devo toglierle io?”
“Non ho detto questo.”
“Ah! Non l’hai detto? E quando le hai tolte tu, le erbacce, l’ultima volta?”
È la Domenica delle Palme.
Il tempo, dopo le incertezze tipiche del mese di marzo – caldo, cieli limpidi, pioggia, bufere – si è assestato, grazie a Dio. Nei vasi di terracotta ai lati dei gradini che portano in giardino le azalee sono prossime alla fioritura; sui rami del ciliegio i fiori dondolano leggermente; dalla ghiaia sale un buon profumo.
“Su, al lavoro.” Carla allenta la stretta.
Quindi, lo obbliga ad alzarsi e a posare il giornale; gli fa togliere la giacca marrone di tweed; lo precede fino all’aiuola, vicino alla siepe di recinzione.
Via Michele Mercati – la strada parallela a via Mangili che da una parte incrocia viale Bruno Buozzi, dall’altra via Ulisse Aldrovandi, nel punto in cui costeggiando il muro del giardino zoologico inizia la discesa verso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna – è silenziosa, come quasi sempre; automobili ne passano di rado; ogni tanto, una circolare svolta al Museo Africano.
“Stamattina, a San Roberto, c’era parecchia gente,” piegata sulle rose, dice Carla a un tratto.
“Alla messa di che ora?”
“Quella delle undici. Hanno letto la Passione di Giovanni per intero.”
“Senza predica?”
“Senza.”
“L’ideale.”
“A Pasqua ci vieni, però.”
Si è risollevata.
“Smettiamo?” Enrico ne approfitta.
“Già vuoi smettere?”
“Mi fa male la schiena.”
“Ancora dieci minuti.”
Ha la frangia arruffata, le guance appena arrossate, gli occhi verde cupo protetti dall’ombra.
“Io,” si lamenta Enrico, “ho cinquantanove anni. Sono un signore anziano.”
“Non sei anziano. Sei noioso.”
Prima, quando dietro alla poltroncina gli stringeva le spalle, guardando i capelli grigi radi e sottili, il naso più affilato da quella posizione, ha sentito un empito di tenerezza percorrerle il sangue. Ora, dopo aver estirpato con forza l’erba selvatica da un cespuglio di rose, vorrebbe liberarsi del tutto da quel sentimento confuso al quale ha creduto di poter replicare – come sempre ha fatto nel corso della loro vita coniugale – col tono e le parole usati poc’anzi. Ma non ci riesce. Non le viene: a causa della fragilità che le ha lasciato dentro e che probabilmente, al di là della differenza d’età, riguarda entrambi. Così si stropiccia le dita, per togliersi i residui di terra, e mentre a piccoli passi si avviano verso il portico, ribadisce il concetto.
“Non vuoi fare mai niente con me,” dice piano.
“Non è vero.”
“Sì che è vero. Perché?”
“Non ne ho idea.”
“Forse perché hai smesso di volermi bene?”
“Quello, da anni.”
Il salotto, nel quale Ester, la donna di servizio, ha lavorato sodo gli ultimi giorni, come del resto nelle altre stanze, per le pulizie pasquali, sollevando i tappeti, spostando le poltrone e i divani, scostando i mobili dalle pareti, passando la cera sul parquet, eliminando ogni granello di polvere, è in perfetto ordine. Sul tavolo ovale attorno al quale hanno mangiato gli gnocchi di semolino e l’insalata di pollo sono rimasti i bicchieri, la brocca dell’acqua, i tre piattini da frutta. Un raggio di sole obliquo colpisce lo scaffale dei romanzi francesi dal quale Maddalena, lasciando un vuoto, ha sfilato Il rosso e il nero.
“Tu che hai deciso?” domanda Carla, facendo scorrere di qualche centimetro la porta a coulisse che separa dal salotto la sala da pranzo. “Ti metti subito a lavorare o ti riposi un po’?”
“No, subito,” risponde Enrico.
“Hai tutto il pomeriggio.”
“Sì, ma se dormo poi non combino nulla.”
I fascicoli sono nella borsa di cuoio sopra la piccola scrivania addosso alla finestra che guarda il boschetto dei bambù.
Senza aspettare che si sieda e cominci a leggere, e senza sparecchiare, Carla esce dalla sala da pranzo; in corridoio, estrae due tovaglie stirate dall’armadio a muro, le esamina e le rimette al loro posto; entra in camera da letto, si stende e prova a chiudere gli occhi.
Quando li riapre, la luce si è ispessita; però non è tardi, sono soltanto le cinque. In salotto, dai vetri spalancati, entra una corrente fredda.
“Hai dormito!” Enrico continua a scrivere sul margine di un foglio.
“Davvero…”
“Io ho quasi finito.”
“Nostra figlia?”
“Non s’è vista.”
“Ha detto che tornava presto.”
In quello stesso istante, un’automobile riavvia il motore, il cancello si apre, e Maddalena sale i gradini.
“Che avete fatto?” Accavalla le gambe su un bracciolo della poltrona.
“Papà ha lavorato,” risponde Carla. “Io mi sono svegliata poco fa.”
“Lavora tutto il pomeriggio?”
“No,” risponde il destinatario della domanda per interposta persona. “Non tutto il pomeriggio, lavora. Ancora dieci minuti, al massimo.”
“E dopo? Che intenzioni avete?”
“Nessuna in particolare,” Carla tronca questo interrogatorio che la fa sentire ancora imbambolata dal sonno. “Pensavo di contare i piatti, i bicchieri e le posate per domenica, semmai…”
“Già adesso?” Maddalena dondola il braccio, sfiorando il parquet.
“Per non arrivare come al solito all’ultimo momento. Sperando che non piova, tra l’altro…”
“Non piove, domenica. È sicuro.”
[da Dell’anima non mi importa di Giorgio Montefoschi, La nave di Teseo, 2022]