Diceva
Gramsci che “la storia insegna ma non ha scolari”. E’ così da sempre. Quanto mai oggi, in questo tempo tutto declinato al presente ma che non sa definirsi in un presente (tantomeno immaginarsi in un futuro); che sta facendo del semplicismo dottrina, spaccia ignoranza per egualitarismo (tutti ignoranti, nessuno ignorante), disconosce la storia o prova a riraccontarsela a suo (dis)uso e consumo (e parliamo di ciò che la storia ha registrato come fatti, pensiero, scelte, errori, atrocità). Ebbene, questo tempo che piace definire con il rassicurante aggettivo di ‘fluido’ non rassicura affatto. La democrazia è relativizzata, risulta sempre più fragile. Nuovi totalitarismi, espliciti o sotto mentite spoglie, sono in atto o vagheggiati. Perciò ben vengano libri come “Tempesta” di
Camilla Ghiotto, giovane scrittrice all’esordio con un intenso romanzo di formazione la cui trama va a riannodare esistenze, memorie, consapevolezze individuali e collettive. Racconta di Camilla, figlia diciassettenne di un padre molto anziano, novantadue anni, addirittura più di un nonno. Un papà da lei conosciuto incanutito e non certo aitante come quelli dei suoi coetanei. Questo padre fuori tempo massimo l’aveva sempre condizionata rispetto al mondo esterno, ma pure nel suo rapporto di figlia. Al punto che quando il vecchio si ammalerà senza alcuna speranza di guarigione, ella, inizialmente, non prova angoscia come dovrebbe. Anzi, sente prevalere in lei il fervore della vita, lo slancio verso il futuro. Salvo rendersi conto che la vita difficilmente può prescindere dalle proprie radici, lasciare inespressi affetti, legami, confidenze. Così che, per quanto tempo concederà ancora la malattia, Camilla decide di voler conoscere più a fondo papà Renzo. Capire, cercare una sintonia con sentimenti, ideali, pensieri che hanno dato senso all’esistenza di quell’uomo. Un intellettuale che aveva educato lei alle buone letture, viaggiato molto, vissuto per un lungo periodo in Argentina. Diciannovenne, con il nome di “Tempesta”, era stato partigiano sull’altopiano di Asiago, a fianco di
Luigi Meneghello (l’autore de “I piccoli maestri”, raro esempio di letteratura resistenziale scevra da retorica e celebrazionismo). Così per Camilla i fili di una memoria personale vanno a intrecciarsi con quelli della Storia. Scopre che “non è mai troppo tardi per imparare a essere figli, né per riannodare la memoria al presente”. E in questo legame di età e frangenti storici, di sentimenti individuali e universali, prende coscienza che ogni tempo è sì inedito, ma chiamato a inscriversi alla scuola della storia, dove – e soltanto lì – è possibile apprendere la declinazione delle parole importanti. Come la parola libertà, quella che il partigiano Tempesta,
Renzo Ghiotto, consegnò, ormai vecchio, alla figlia diciassettenne Camilla.
***
[…]
Le persone che intervengono parlano di mio padre chiamandolo Tempesta. Era il suo nome di battaglia tra il ’44 e il ’45, aveva diciannove anni quando è salito in montagna. Renzo Ghiotto era un partigiano, ha vissuto per mesi nei boschi dell’altopiano di Asiago nella completa incertezza di quello che sarebbe successo. Per morire in inverno a novantadue anni non so se ci vuole coraggio, ma per vivere a diciannove e combattere i fascisti sì. Come può a quell’età – circa la mia di adesso – aver dormito al freddo, digiunato per giorni, combattuto, marciato per ore nella neve fresca? Aver sparato.
Il nome Tempesta mi fa tremare ogni volta. Quando da piccola mi sedevo sulle sue ginocchia e mi accennava qualche episodio di quel periodo, pensavo a quel nome di battaglia e cercavo di inventarne uno anche per me, ma non mi sembravano mai all’altezza.
Era l’ultimo rimasto del suo gruppo originario: Gigi è morto qualche anno fa e Dante solamente da due mesi, questi gli amici che lo sentivo citare di più.
«Ricordo la pacca sulla spalla che Renzo mi ha dato quando gli ho raccontato di essere stato a Cima Molignon, sempre col suo cappello scuro e la pipa». Mio padre la fumava tutti i giorni. Una volta abbiamo trovato la casa avvolta in una coltre di fumo e la sua giacca appesa in ingresso con un lato ridotto quasi in cenere perché aveva riposto nella tasca la pipa ancora ardente. È mio cugino Guido che parla al microfono, ha trent’anni, è in camicia bianca e completo scuro. Di solito indossa jeans e felpe larghe. L’unico giorno dell’anno in cui si veste bene è il 25 aprile. Ogni anno in piazza a Vicenza lo cerchiamo nella folla radunata attorno alla banda e lo riconosciamo tra mille perché è il più elegante.
«Da bambino mi ha portato a vedere lo scheletro della balena azzurra al Museo di Storia Naturale a Londra. Siamo stati dentro la sala almeno un’ora, abbiamo circumnavigato l’enorme cetaceo per una decina di volte mentre mi raccontava la storia di Moby Dick» continua con tono entusiasta. Mi sento gli occhi delle persone puntati addosso come volessero spiarmi. Fatico a rimanere concentrata e mi perdo di continuo parole o frasi intere, ma poco importa, vorrei trovarmi nella pancia di una balena a vivere da eremita.
«Quando mi portò a Buenos Aires ci aveva vissuto per anni prima che ci conoscessimo ed era come accompagnarmi a vedere la sua vita di prima. Siamo capitati per caso in un teatro dove suonava Piazzolla e una coppia ballava il tango». Stavolta è la voce dolce di mia madre. Di lei invidio la fierezza nel raccontare di come si sia sentita parte di lui. Mio padre l’ha conosciuto quando lei aveva vent’anni e lui già cinquanta. Lui lavorava, lei studiava Lingue e qualche volta lo raggiungeva nei suoi viaggi di lavoro. La loro storia d’amore è coincisa con la sua scoperta del mondo, avvenuta tramite le fughe di poche ore – durante le riunioni di mio padre – nelle località che desiderava visitare e che lui aveva già visto e rivisto: un antico tempio a un paio d’ore da Tokyo, le piramidi di Giza quando erano al Cairo, le Cascate del Niagara da Hamilton, in Ontario. Poi sono nata io, figlia unica.
«Penso alle estati in cui andavamo in montagna sull’altopiano di Asiago» continua, «Renzo si sedeva insieme a Dante, fuori da Malga Fossetta con Camilla in braccio. Le mostravano gli uccelli che sorvolavano la vallata elencandole i nomi delle specie, descrivendoglieli quando erano troppo lontani per riconoscerne i tratti e i colori. Poi si mettevano tutti e tre a disegnarli».
Grazie alle parole di mia madre quella scena inconsueta mi si materializza davanti: due uomini di ottant’anni, che hanno combattuto una guerra mondiale e si sono salvati, a scarabocchiare con una bambina di cinque che li ritrae con orecchie gigantesche.
«Ogni mattina lo raggiungevo nella sala dei pazienti per un caffè». Stavolta è il caporeparto della clinica dove era ricoverato. «Aveva sempre qualcosa da raccontarmi, io gli parlavo dei miei figli. Mi chiedeva di accendergli la pipa nonostante sapesse che non avrei potuto. Lo facevo sempre».
Mio cugino Giacomo, fratello di Guido e di pochi anni più giovane, legge a tutti il discorso che ho scritto io. Il microfono da cui stanno facendo gli interventi è proprio davanti a me, ma non ho il coraggio di fare un passo per raggiungerlo e salutare mio padre di fronte a tutti. Ho scritto queste due paginette dalla sera alla mattina. Scorgo nei volti sconosciuti la commozione e subito abbasso lo sguardo sulla punta dei miei piedi. Le ho scritte senza formalità linguistiche e soprattutto senza rileggerle. Sentirle pronunciare a voce alta le fa sembrare insignificanti e brutte; smetto di ascoltare.
[…]
Prima di uscire getto un ultimo sguardo a quella folla di persone, a mia madre nel mezzo, alle pareti rosse che, non più illuminate dai raggi diretti, adesso appaiono spente. Mi prende la nausea e sgattaiolo in macchina. Appoggio la testa sul sedile e capisco perché non ho letto io la lettera: non tanto per imbarazzo, è che le cose che ho scritto non erano tutto. La verità è che ci siamo sempre stati io, lui e la mia misera sensazione di trovarmi di fronte a un vecchio. Non gli ho mai fatto le domande giuste, mi sono accontentata di quello che mi raccontava con la sua voce soffice. Curiosa non lo sono stata di certo. Provo a immaginare mio padre nelle sue ultime gocce di splendore: pipa in bocca, panama in testa, giacca elegante, cravatta blu, un sorriso appena accennato ma sufficiente a rendere il volto sereno, lo sguardo dolce e inquisitore, l’implacabile lucidità, gli occhi azzurri, la pelle leggermente tirata. Ma l’immagine molto più reale di lui che davanti a me esala l’ultimo respiro e chiude gli occhi per sempre fagocita tutto il resto. Vorrei che la morte smettesse di essere irreversibile, inizio a desiderarlo così intensamente che mi viene la tosse.
[da Tempesta di Camilla Ghiotto, Salani, 2023]